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Le condizioni politiche di un nuovo ordine mondiale


Le condizioni politiche di un nuovo ordine mondiale
Thomas Berra, bugie, bugie

Con gli articoli di Maurizio Lazzarato «Perché la guerra?» e di Andrea Pannone «La Borsa, il "comitato d'affari della borghesia" e la guerra» Machina ha impostato un dibattito volto a riflettere su guerra e crisi, oggi.

La nostra attuale impotenza politica è la conseguenza diretta dell’esclusione delle guerre e delle guerre civili dalla teoria critica, essa stessa risultato di un’altra esclusione: quella delle lotte di classe, cioè della questione della rivoluzione. Porre il problema della guerra significa, oggi, porre il problema del mercato mondiale.

Quando la guerra, la guerra civile, il genocidio e il fascismo ritornano clamorosamente nelle nostre cronache (e con essi, paradossalmente, la «possibilità impossibile» della rivoluzione) ci scopriamo impotenti perché, se è vero che questi processi sono l'evidente risultato della produzione capitalistica, è inspiegabile spiegarli con le sole categorie della critica dell’economia politica. Che rapporto hanno le guerre con il capitalismo e la sua produzione? Costituiscono incidenti del suo sviluppo o elementi strutturali? E ancora: che rapporto esiste tra lo Stato – che ha il potere di dichiarare e gestire la guerra –  e il Capitale? É ancora valido un concetto di produzione che marginalizza lo Stato e la sua sovranità? Si può continuare a considerare lo Stato come elemento puramente funzionale e subordinato alle esigenze dell’accumulazione di capitale?

 

***


Maestro : Rifletti bambino, da dove vengono questi doni. Tu non puoi avere niente da te stesso.

Bambino : Ho tutto dal papà.

Maestro : E da dove li prende lui ?

Bambino : Dal nonno.

Maestro : Ma no. E da chi li ha avuti il nonno ?

Il Bambino : Li ha presi.

 Il Capitale, capitolo XXIV

 


Nell’articolo precedente abbiamo visto come l’affermazione della sovranità degli Usa è andata, di pari passo, con quel processo che, sbrigativamente, abbiamo definito come subordinazione dello Stato alla finanza. In realtà, il potere sovrano, che trova nella guerra la sua massima espressione, non si dà senza la potenza della finanza. Inoltre, il monopolio economico di quest’ultima non può sussistere senza il monopolio politico-militare della forza che favorisce e impone la dollarizzazione, condizione indispensabile per l’esistenza sia dello Stato che della finanza americani. Economia e potere politico sono in presupposizione reciproca, ma nelle fasi come quella che stiamo attraversando, il politico primeggia, anche se nella decisione sovrana per la guerra la questione dell’egemonia economica è decisiva. Nelle nostre società azione economica e azione politico-militare sono strettamente connesse in quanto costituiscono una sola macchina Stato-Capitale, in cui il primo non ha una funzione semplicemente strumentale e subordinata al secondo. Stato e Capitale perseguono fini distinti ma convergenti; l’aumento della potenza del primo e l’aumento del profitto del secondo si alimentano a vicenda. Non è vero che la politica è scomparsa, che lo Stato si è ritirato; lo Stato e la politica sono parte integrante della macchina in cui accumulazione del profitto e accumulazione di potere funzionano insieme.

La teoria critica, dagli anni ’60 ad oggi, ha posto al centro della sua ricerca i concetti e le realtà del potere e dello Stato. Gli obiettivi perseguiti sono stati la critica del concetto di sovranità e la volontà di superare l’interpretazione marxista secondo cui il potere si identifica con la produzione e lo Stato è ridotto a semplice funzione dei processi di accumulazione del valore. Alla fine degli anni ʼ70 il concetto di governamentalità di Foucault (l’insieme delle tecniche disciplinari, biopolitiche, di controllo) sembra aver raggiunto lo scopo: non solo esautora e marginalizza il potere sovrano, ma pretende di contenere le relazioni che spiegano il funzionamento dei meccanismi di potere nelle società contemporanee, irriducibili all’azione sia della produzione che dello Stato. Agamben, qualche anno dopo, corregge questa pacificazione teorica e politica che elimina la sovranità, coniugando governamentalità e potere sovrano, biopotere e Stato, ma facendo di queste categorie delle realtà trans-storiche, delle invarianti che attraversano i secoli sempre uguali a se stesse. Sia l’uno che l’altro escludono il capitalismo, la sua dinamica, le sue contraddizioni, a meno che non si assuma la «teologia economica» dei padri della chiesa cattolica come una efficace alternativa alla critica dell’economia politica (cosa francamente abbastanza ridicola) o si identifichi il funzionamento del capitalismo con i primi capitoli del Capitale di Marx – che Foucault utilizza per un breve periodo per spiegare l’azione disciplinare.

In sintesi, la mia tesi è semplice: lo Stato e la sua sovranità, il monopolio della forza che si manifesta pienamente nella guerra, ma anche il suo potere amministrativo, dovrebbero essere integrati ai concetti marxiani di capitale e di produzione. Cerchiamo di spiegare meglio questo rapporto che sfugge a Foucault come ad Agamben e che, al contrario, è alla base della congiuntura attuale.

Possiamo approssimare il problema ponendoci la domanda: come definire la situazione apertasi con la crisi finanziaria del 2007/8? La sua condizione negativa è data dalla fine del neoliberalismo e dal tramonto della sua governamentalità, il che comporta la subordinazione delle tecniche disciplinari, biopolitiche, alle necessità del regime di guerra che ha la facoltà di utilizzarle, sospenderle o semplicemente cancellarle.

Che l’economia possa essere regolata dal mercato e dalla concorrenza – anche se giuridicamente definiti e attivati da uno Stato che interviene con la stessa intensità e frequenza dello Stato keynesiano –  come sostengono gli ordoliberali tedeschi, è stata l’ideologia degli ultimi quarant’anni. Buona parte del pensiero critico ha dato credito a tale ideologia, riconoscendo la teoria secondo cui mercato e concorrenza corrispondano a qualcosa di reale.

Fernand Braudel – che non era un pensatore marxista –  ci ha insegnato che il capitalismo «è sempre stato monopolista», che la concorrenza serve a eliminare gli avversari e che il mercato nel capitalismo non esiste: c’è un «contro-mercato» controllato da pochi soggetti il quale, proprio grazie alla concorrenza, sfocia sempre e comunque nel monopolio.

Scriveva Braudel che i capitalisti «hanno mille modi per distorcere il gioco a loro favore, attraverso il credito», la moneta, il potere politico, ecc., «che abbiano a disposizione i monopoli o semplicemente la potenza necessaria per cancellare, nove volte su dieci, la concorrenza, chi ne dubiterebbe?». Sicuramente gli ordoliberali, i neoliberali, Foucault, Dardot e Leval, tutti gli allievi o gli ammiratori del filosofo francese, i media, i politici, ecc.

Come spiegare che la fine della governance neoliberale attraverso il mercato ci abbia regalato la più grossa concentrazione monopolistica della storia del capitalismo e della storia dell’umanità? (vedi articolo precedente) Con il semplice fatto che la centralizzazione economica (come quella politica) non si è mai fermata. Anzi, nel neoliberalismo ha conosciuto un’accelerazione folgorante, velata dall’ideologia del mercato e della concorrenza. Mercato e capitalismo non sono la stessa cosa, ci dice Braudel, e confonderli  ha creato  e continua a creare un’enorme confusione. Si compie un errore simile identificando capitalismo e neo liberalismo.

La condizione positiva per cogliere la situazione contemporanea è data invece dall’accavallarsi degli eventi: crisi finanziaria, populismi, nuovi fascismi, guerre civili, guerra, genocidio. Giovanni Arrighi la definirebbe come una «fase di transizione egemonica» o di «caos sistemico». Per cercare di essere meno generici, potremmo avventurarci a dire che la fase politica aperta dalla crisi finanziaria del 2007/2008, decretando la fine dei «cicli egemonici» (à la Braudel, Wallerstein, Arrighi), presenta i caratteri dell’«accumulazione originaria» di Karl Marx e dello «stato di eccezione» di Carl Schmitt. Per cui abbiamo un «Karl und Carl» differente da quello di Mario Tronti, un po’ più operativo.

Due osservazioni a proposito: per avere un’immagine del capitale e del suo rapporto con la sovranità, che assume un ruolo decisivo proprio in questo periodo, partiremo non dall’inizio, ma dalla fine del primo libro del Capitale, cioè dall’accumulazione originaria. Marx la descriveva come l’epoca di formazione delle classi e dello Stato (assoluto) dentro e attraverso l’esercizio della grande violenza delle guerre civili, delle guerre di conquista e dei genocidi. Il rivoluzionario tedesco pensava, a torto, che una volta affermatasi la produzione capitalista, questa avrebbe sempre riprodotto le sue proprie condizioni. Il che è vero in modo limitato (riproduce le sue condizioni di esistenza dentro un modo specifico di accumulazione fino a quando questo non entra in crisi) o falso, perché il passaggio da un modo di accumulazione a un altro, ad esempio dal fordismo al neoliberalismo, non è sorto in maniera spontanea e immanente dalla produzione e dal consumo fordisti e dallo Stato keynesiano. La macchina Stato-Capitale è dovuta passare per l’organizzazione di una rottura, di una discontinuità rappresentate dal decennio ʼ69-ʼ79 che ha implicato l’intervento del potere sovrano e della forza armata dove era necessario. È il politico non solo statale, cioè la guerra, i colpi di Stato, le rivoluzioni, la lotta di classe e i loro esiti, che decidono la nuova configurazione dei rapporti di capitale, dei rapporti di potere e della forma Stato. La prima divisione del lavoro è sempre politica e non economica perché deve produrre i dominanti e i dominati, perché deve dividere tra proprietari e non proprietari.[1]  La proprietà privata è un presupposto del capitale, ma a creare e garantirla è lo Stato. L’organizzazione della produzione e la divisione del lavoro propriamente detta, quelle che troviamo nel Capitale, arrivano in seguito per normalizzare rapporti di forza definiti dallo scontro politici tra le classi.

La seconda osservazione riguarda il concetto di stato di eccezione in virtù del quale si possono sospendere le norme giuridiche, produttive, democratiche per cui lo Stato, l’uso della forza e la guerra regnano e decidono. Lo stato di eccezione deve però essere distinto – a differenza di ciò che pensa Agamben –  dall’emergenza. Il «Patriot Act» di Bush o le misure imposte dallo Stato durante il Covid sono casi di emergenza. Riserviamo il concetto di stato di eccezione a epoche di rotture radicali che segnano il passaggio da un ordine economico-politico del mondo a un altro: la Rivoluzione francese che segna la fine dall’ancien régime (feudale); le due guerre mondiali che sono state un’ unica e lunga guerra civile e, dentro queste guerre, la Rivoluzione sovietica (o cinese) che insieme hanno definito un nuovo ordine mondiale – la guerra fredda; gli anni ʼ70 che determinano il passaggio dal fordismo al mal definito neoliberalismo; o, ancora, la situazione attuale che annuncia la fine di quest’ultimo e pre-annuncia il «nuovo» che uscirà proprio dallo scontro in corso.

Sarebbe forse più corretto utilizzare un altro concetto di Schmitt come complementare all’accumulazione originaria: il «Nomos della terra», evento storico dove la conquista, la guerra, l’appropriazione – come nell’accumulazione originaria marxiana –  generano e istituiscono un nuovo ordine e un nuovo potere; il suo realizzarsi non ha bisogno di norme, queste saranno istituite successivamente. Il Nomos è evento, luogo e momento di discontinuità dove si decide, tramite l’esercizio della forza, la forma dello Stato, delle classi sociali, dei rapporti di forza. Senza l’accumulazione originaria, cioè senza il Capitale, il «Nomos della terra» sarebbe un qualcosa solo di storico-politico; invece, soprattutto a partire dalla fine del XIX secolo, ma già dalla Rivoluzione francese, è diventato in maniera indissolubile economico-politico – cosa di cui Schmitt è perfettamente consapevole: egli infatti vede nella lotta di classe ormai irriducibile a partire dalla rottura operata tra il 1830 e il 1848, la ragione principale della fine dello Stato come lo desiderava, autonomo e indipendente dalla «società».

Il diritto non nasce nella zona di indifferenza tra «interno e esterno» determinata dalla sospensione del sistema giuridico (Agamben), ma da conflitti tra forze che vedono vincitori e vinti. Quindi in nessun caso il campo di concentramento può essere definito il «Nomos del moderno», la sua «matrice nascosta» perché, così come l’emergenza, è «solo» uno degli elementi di strategie che distruggono un ordine e ne fanno nascere un altro. Ciò che diventa regola, gestione quotidiana del potere, è l’emergenza e non il Nomos della terra che resta un’eccezione. La pandemia non definisce un nuovo ordine del mondo, la guerra che è scoppiata subito dopo sì. Agamben si è agitato molto durante la pandemia ed è praticamente sparito con la guerra, proprio perché riduce il Nomos della terra al problema del diritto, confrontato al dato di fatto della violenza armata, dello scontro di classe. Quello che ci interessa capire è, nel «vuoto giuridico» dello stato di eccezione, quali forze combattono tra loro per una nuova egemonia economico-politica o anche, se possibile, per la rivoluzione impossibile.

A fondamento sia dell’accumulazione originaria che dello Stato di eccezione/Nomos della terra, troviamo una conquista, una presa di possesso che è sia di potenza per lo Stato che di profitto per il Capitale. È tramite l’appropriazione, il possedere che Stato e Capitale comunicano. Qui sia Karl che Carl ci dicono che prima di produrre bisogna prendere, appropriarsi, espropriare (terra, esseri umani, risorse, mezzi di produzione, ricchezza, ecc) e dividere ciò che si è preso tra proprietari e non proprietari. La produzione non crea le classi, né l’istituto della proprietà, né è capace di organizzare l’espropriazione dei mezzi di produzione stessi e delle risorse necessarie al suo svolgersi. Al contrario presuppone il prendere, l’espropriare, e il dividere tra proprietario e non proprietari, tra dominanti e dominati. Per esercitare la grande violenza necessaria al prendere e al dividere, ciò che diventa dirimente è l’uso della forza, la guerra e la guerra civile. Ma anche prima di produrre il diritto bisogna prendere e dividere. Mentre per Marx la violenza è «essa stessa una potenza economica», in Schmitt, che diventi una potenza giuridica, è ambiguamente affermato – dico ambiguamente perché il vero stato di eccezione non può essere un momento disciplinato dal diritto, un momento in cui quest’ultimo, per salvare se stesso e lo Stato, ammette le violenza, annettendola all’ordinamento; la definizione in corso di un nuovo Nomos della terra passa ancora attraverso la forza che diventa sia nuova potenza economica che giuridica.

Nell’accumulazione originaria descritta da Marx troviamo, come del resto nei suoi scritti storico-politici, molti paralleli, mutatis mutandis, con la nostra situazione: molteplicità di soggetti (rapitori e mercanti di schiavi, avventurieri, pirati, rentiers, finanzieri, capitalisti, contadini, militari, mercanti., ecc.); molteplicità di modi di produzione e di sfruttamento (la schiavitù, il lavoro servile, il lavoro salariato, lo sfruttamento finanziario e creditizio, ecc.); molteplicità di forme di violenza (genocidio degli indigeni, l’espropriazione delle terre comuni in Europa e «libere» nel nuovo mondo, la guerra di conquista, d’assoggettamento, la guerra civile, le guerre tra imperialismi, ecc). In questa fase di violenza dispiegata, il ruolo centrale è giocato dallo Stato – «la borghesia nascente non può fare a meno del suo intervento costante» per cui «tutti i metodi di accumulazione originaria sfruttano, senza eccezioni, il potere dello Stato» –  non solo dal punto di vista militare come detentore del monopolio della forza – «brutale» dice Marx –, ma anche da quello economico in quanto gestore del credito e del debito pubblico e politico/legislativo, capace di sfornare leggi speciali – «legislazione sanguinaria» contro i contadini ridotti a mendicanti dalle espropriazioni.

Dal testo emerge un’affermazione marxiana molto importante che va però prolungata fin dentro la nostra attualità: è lo Stato che precipita violentemente il passaggio da un ordine a un altro (qui dal feudalesimo al capitalismo) e abbrevia, tramite l’uso della forza, la fase di transizione.[2] 

Lo svilupparsi del capitalismo introduce un cambiamento radicale nel rapporto Stato/Capitale. Se è vero che sono sempre stati in un rapporto di dipendenza reciproca, a partire dalle fine del XIX secolo e in modo particolare dall’inizio del XX, la relativa autonomia dello Stato dall’economia (Poulantzas) e di quest’ultima dallo Stato viene assottigliandosi e le due realtà si integrano in una sola macchina a due teste.

 

Come è nato e come è morto il neoliberalismo

La definizione che abbiamo dato della situazione attuale (accumulazione originaria e stato di eccezione) ci permette di fugare tutte le ambiguità e le confusioni che il concetto di neoliberalismo ha suscitato. Dall’esperienza della sua nascita e del suo rapido declinare possiamo forse trarre qualche insegnamento per la situazione che stiamo vivendo.

Grazie alla mia veneranda età ho potuto vivere e vedere con i miei occhi l’alternarsi di fasi di governamentalità e di momenti in cui si scatena la violenza dell’accumulazione originaria e lo stato di eccezione. Le due guerre mondiali avevano affermato un nuovo Nomos della terra, con l’egemonia americana in Occidente, sovietica in Oriente. Rapporti di potere inediti sono stati successivamente stabilizzati e normalizzati nel nord del mondo da una governamentalità keynesiana, a volte socialdemocratica. La nuova accumulazione del capitale a guida statunitense è entrata in crisi già alla fine degli anni ʼ60. La macchina Stato-Capitale degli Usa ha immediatamente lanciato una nuova accumulazione originaria e il suo Stato di eccezione che ha imperversato sul pianeta dal 1969 al 1979, determinando il passaggio dal fordismo al post-fordismo. La vittoria riportata dalla macchina Stato-Capitale in quel decennio ha aperto la strada a una nuova forma di governamentalità, il neoliberalismo, che ha accompagnato l’accumulazione centrata sul credito e la finanza, fino a quando anche quest’ultima è crollata (2008). Il susseguirsi della crisi finanziaria, il populismo, la guerra e il genocidio hanno decretato la sua fine. Ci troviamo ora dentro la grande violenza propria dei momenti in cui si stabilisce un nuovo ordine (se le grandi potenze ci riescono, perché la cosa non è scontata!).

Cerchiamo di vedere più da vicino quello che è successo nel decennio ʼ69-ʼ79, così da avere un’idea più precisa della forma e della funzione dell’accumulazione originaria e del Nomos della terra all’origine della nuova globalizzazione cominciata negli anni 80, che ora si sta sgretolando sotto i nostri occhi. Il ciclo di lotte mondiale che sfocia nel ʼ68 impone un cambiamento di strategia politica della macchina Stato-Capitale americana, che cerca – all’inizio a tentoni, poi sempre più sicura del suo progetto –  di definire una nuova forma d’accumulazione, prima sconfiggendo e successivamente modificando la composizione di classe, costruendo uno Stato che sia una critica in atto dello Stato keynesiano, poiché le masse erano riuscite, grazie alle risoluzioni del XX secolo, a ritagliarsi spazi di contro-potere al suo interno. L’opera di distruzione non può che cominciare dal luogo in cui il soggetto politico era più forte: il Sud del mondo. Gli Usa, guidati da Kissinger, organizzano una serie esemplare di colpi di Stato in Sud America tramite i militari fascisti. Lo Stato e il suo potere di dichiarare la guerra civile, di imporre lo stato di eccezione e di utilizzare i fascisti, si manifesta anche dentro il capitalismo maturo, come diritto sulla vita e sulla morte di migliaia di comunisti e socialisti. Nel Nord l’integrazione relativa della classe operaia nel sistema, operata grazie al salario e al consumo, ha richiesto più semplicemente una sconfitta politica – vedi gli esempi dei governi Thatcher o Reagan. Vengono sospese le norme giuridiche, produttive, sociali e le tecniche che avevano governato dal dopoguerra al ʼ68. Senza che si tocchi la costituzione formale, né il diritto, è sconvolta e profondamente modificata la costituzione materiale. I rapporti di forza, radicalmente modificati a favore del Capitale, creano le condizioni per modificare di fatto le norme giuridiche, le norme produttive e le tecniche di potere che non emergono in maniera immanente dalla produzione fordista e dallo Stato keynesiano, ma devono essere costruite con l’uso della forza armata del fascismo e la forza politica dello Stato. L’oggetto principale della violenza sono i processi di soggettivazione rivoluzionaria. Le nuove norme non possono agire in una situazione di «caos» determinata da una lotta di classe dispiegata come in America Latina. Per imporle bisogna prima stabilire l’ordine nelle soggettività; solo dei soggetti vinti saranno disponibili ad assumere nuovi comportamenti, nuovi modi di lavorare, nuove modalità della loro riproduzione.

Come nel passaggio di Marx sulll’accumulazione originaria, anche negli anni ʼ70 è lo Stato che precipita violentemente il passaggio da un ordine politico-economico a un altro e abbrevia, tramite l’uso della forza, la fase di transizione[3] . Non sono i capitalisti che, negli anni ʼ70 hanno bombardato la residenza presidenziale di Allende e imprigionato e torturato miglia di militanti socialisti e comunisti – o che hanno assassinato quadri dei Black Panthers, che hanno organizzato la strategia della tensione in Italia, ecc. –, ma una volta acquisita la vittoria sulla rivoluzione, nei governi sudamericani gli economisti neoliberali siedono insieme ai militari fascisti. Solo dopo aver normalizzato completamente la «situazione» creata dai colpi di stato («sovrano», dice Schmitt, «è colui che decide in modo definitivo se questo stato di normalità regna davvero»), i neoliberali potranno governare da soli imponendo nuove norme e comportamenti. Dopo il ristabilimento del comando della macchina Stato-Capitale, la situazione sarà normalizzata costruendo un nuovo consenso dei vincitori che passa per l’economia del debito e per il consumo a credito e non più per il salario e il welfare.

Il risultato politico più importante della nuova accumulazione originaria e dello stato di eccezione sarà, come sempre nel capitalismo, una nuova configurazione della proprietà privata non più fondata sul capitalismo industriale ma sulla finanza: il nuovo principio della distribuzione della ricchezza non vede più al suo centro i produttori, ma i proprietari di azioni, obbligazioni e asset finanziari.

Solo dopo che la macchina Stato-Capitale ha seminato la morte politica comincia il neoliberalismo come governamentalità dei nuovi rapporti di forza tra le classi. Soltanto ora il biopotere (discipline, biopolitica, potere pastorale) si dà come compito la «gestione della vita» delle soggettività vinte e governa le loro esistenze sottomesse e assoggettate. Il modello di potere descritto da Foucault (biopotere) non ha più come fondamento la violenza dello Stato, la sovranità, ma l’economia. Anche qui è poi vero che capitalismo ed economia coincidono? Il capitalismo contemporaneo perfettamente incarnato dalla predazione finanziaria, dalla grande violenza dell’appropriazione dell’accumulazione originaria e dalla guerra di classe tra proprietari e non proprietari non ha molto da spartire con l’economia dove degli uomini antropologicamente equipaggiati per lo scambio, per evitare di battersi l’un l’altro armati, preferiscono competere nella produzione e nel commercio, secondo le leggi asettiche della political economy scozzese. Il biopotere fa sua propria questa immagine pacificata della concorrenza e del mercato: non mira a reprimere ma favorisce, incita, sollecita l’attività dei governati; non lavora per la guerra, ma per la pace. Il suo modello è dato dal potere pastorale che non conosce né violenza, né nemici: «Il potere pastorale non ha per funzione principale di fare del male ai nemici, ma di far il bene a quelli su cui veglia. Fare del bene nel senso materiale del termine, cioè: nutrire, offrire sussistenza».

Questa vera e propria ideologia che oppone la governamentalità biopolitica al potere sovrano, cancellando i contendenti della lotta di classe (sia il potere della macchina Stato-Capitale che il potere della rivoluzione) è penetrata fino dentro il pensiero critico, per esempio, della cosiddetta Italian Theory, debitrice sia della governamentalità che del biopotere. Agamben, Negri, Esposito adottano, in modo diverso, questi concetti, ma sembrano ignorare che il loro presupposto, in Foucault, è l’abbandono della guerra di classe come modello delle relazioni sociali. Il rapporto di potere non è più né giuridico, né guerriero, ma di governo. Non di deve cercare né nel contratto, né nella violenza e la lotta. Il rapporto amico-nemico imposto della rivoluzione mondiale scatenata dalla rottura sovietica e riprodottosi fino agli anni 60/70, è diventato una innocua, pacifica, consensuale, relazione tra governanti e governati: il massimo che si può pretendere è di «non essere più governati» in questo o quel modo. È questa la ragione che sta al fondamento del fallimento di tutte queste teorie incapaci di anticipare la guerra, la guerra civile e il genocidio, cioè di comprendere la natura del capitalismo. 

Queste narrazioni pacificatrici sono state spazzate dalla crisi proprio dell’economia, fondamento del biopotere. In maniera rapidissima ricompare in tutta la sua orribile forza ciò che non si era mai ritirato: il potere sovrano sulla vita e sulla morte, segno che una nuova accumulazione originaria si appresta a creare le condizioni politiche di un nuovo ordine mondiale. Il liberalismo classico è stato annientato dalla Prima guerra mondiale, ma il capitalismo ha continuato a riprodursi alleandosi con il fascismo e il nazismo. Il neoliberalismo è morto, ma il capitalismo continua con la guerra, la guerra civile e rinnovando le alleanze con nuovi fascismi, facendosi carico oggi della grande violenza del genocidio.


Un nuovo concetto di produzione?

Da quanto abbiamo detto si deduce che l’accumulazione originaria e la sua grande violenza – come anche lo stato di eccezione o Nomos della terra e soprattutto la lotta di classe – devono far parte integrante del concetto di produzione, costituiscono i suoi presupposti che ogni volta decidono sulla sua forma. In questo modo si esce definitivamente dalle ambiguità e dai limiti, anche marxiani, del concetto di produzione che spesso rischiano di far cadere in un imbarazzante economicismo i suoi epigoni. La violenza, la guerra, la guerra civile e il genocidio non sono un incidente dell’accumulazione del capitale, ma suoi elementi strutturali, fondativi.

Negli anni Sessanta e Settanta sono stati fatti diversi tentativi per arricchire e ampliare il concetto di produzione, cercando di superare i limiti economicismi del marxismo dell’epoca: l'economia libidica (Lyotard), l'economia degli affetti (Klossowski), il discorso del capitalista (Lacan), la produzione desiderante (Deleuze e Guattari), la biopolitica (Foucault), l'ontologia spinozista dell’Essere come produzione di Negri. Tutte queste teorie sembrano fare un passo avanti dal punto di vista teorico (poiché il capitalismo funziona anche attraverso i desideri e gli affetti), ma dal punto di vista politico fanno due o più passi indietro, poiché hanno contribuito a pacificare il capitalismo separando la produzione dalle guerre e dalle lotte di classe.

Il capitalismo nasce da una grande violenza, da massacri, genocidi, espropriazioni, guerre, assoggettamenti. La macchina Stato-Capitale si rinnova, si riproduce e si impone tramite una barbarie che non fa che crescere lungo i secoli, proporzionalmente allo sviluppo delle forze produttive del lavoro e della tecnica che, se non sono indirizzate all’emancipazione dalle rivoluzioni, convergono nella distruzione non solo del capitale variabile o fisso, come recita il marxismo della crisi, ma della specie umana e del suo mondo.

La furia sanguinaria da cui sono presi i nostri governanti non è né un tratto psicologico, né una malattia mentale, né niente di nuovo. Si ripete con regolarità sconcertante e averla esclusa dalla definizione del capitalismo e del capitale è semplicemente idiota e suicida. Aver ridotto il capitalismo a mercato e il potere a disciplina, governo e biopolitica, credendo che l’uno e gli altri avessero finalmente decapitato il moderno Leviatano – che regge con una mano il simbolo del potere politico e con l’altra il simbolo del potere economico piuttosto che religioso – quando invece continua, imperterrito, a decidere della vita e della morte, è uno degli esiti più disastrosi della teoria critica del post sessantotto. La verità del suo mortifero esercizio è oggi facilmente verificabile, ma il confronto con il reale della guerra di classe sembra impossibile da assumere in un Occidente ormai al suo definitivo tramonto. Il profitto capitalista e la potenza dello stato si alimentano a vicenda, ma nei periodi in cui l’accumulazione originaria continuata agisce in sintonia con lo Stato di eccezione, il potere sovrano di dare la morte, di prendere e di vedere primeggia necessariamente. Un potere non più identificabile unicamente con lo Stato, ma che rinvia piuttosto alla forza politica della macchina Stato-Capitale che decide e guida la strategia. Il rovescio di questa situazione è ciò che, dal punto di vista degli oppressi, si può definire il momento leninista, ovvero il momento nel quale l’impossibile può realizzarsi (sempre se si danno le condizioni soggettive per farlo).

 

Che cos’è la democrazia?

 La democrazia è esistita solo per un brevissimo periodo, in Occidente, grazie alla lotta di classe e alle rivoluzioni del XX secolo. Sparite quest’ultime, è ritornata ad essere quella che è sempre stata per i liberali: democrazia per i proprietari – Marx ricordava che la costituzione materiale in Occidente è la proprietà –, democrazia per la guerra e il genocidio, democrazia per i fascismi.

C’è un elemento che manca nell’accumulazione originaria marxiana ed è il fascismo, che, effettivamente, emerge solo con l’imperialismo: il capitalismo monopolistico, a differenza del capitalismo concorrenziale, «non sviluppa più una tendenza al socialismo, ma caso mai, alla barbarie fascista», suggeriva Hans Junger Krahl.

Una delle caratteristiche più peculiari del fascismo storico è che, a differenza dei comunisti e dei rivoluzionari, non deve prendere il potere perché gli è offerto su un piatto d’argento dalle classi dominanti terrorizzate dalle proprie crisi, che rendono ogni volta attuale l’abolizione della proprietà privata – unico vero valore dell’Occidente. Il fascismo e il nazismo sono degli elementi indispensabili per l’esistenza e la riproduzione della macchina Stato-Capitale quando mobilitano accumulazione originaria e stato di eccezione.

La cosa si sta producendo, mutatis mutandis, oggi. La «Repubblica delle banane» francese è un caso esemplare a questo proposito. Il presidente Macron, quando era stato eletto la seconda volta, non aveva più la maggioranza e governava tramite decreti esautorando completamente il parlamento. Dopo aver perso anche le elezioni europee, il suo progetto era di traghettare i fascisti al potere come avevano fatto i suoi avi nel XX secolo perché sono la soluzione ideale all’epoca delle catastrofi capitaliste: applicano le politiche del capitale come i liberali, ma con una governance «illiberale».

Prendiamo in considerazione le cosiddette posizioni antisistema dei fascisti italiani che al governo ci sono già. Una volta al potere hanno abbandonato immediatamente il sovranismo, diventando ligi esecutori degli ordini dell’Europa e servi dell’atlantismo; nel mentre si sono impegnati a svendere la «patria» ai fondi pensione americani. Il governo ha promesso a Bruxelles 20 miliardi di privatizzazioni entro il 2027. Meloni ha venduto la rete telefonica nazionale agli americani di KKR; quote dei depositi di Sace; il 3% di Leonardo al maxi-fondo USA Black Rock che ha già raggiunto il 9% di Eni e costituisce già l’azionista più importante della Borsa di Milano; Vanguard è entrata nel Monte dei Paschi. La privatizzazione delle Poste non è che è un regalo a questi fondi di investimento, a cui è riservata una quota del 70% delle azioni vendute! E si prepara a fare lo stesso con le Ferrovie. La finanza americana considera l’Italia l’anello debole per entrare in Europa e depredarla – l’80% dei soldi investiti nei titoli dei fondi finiscono negli USA per comprare titoli americani e sorreggere la loro economia iper-indebitata. L’Italia è utilizzata anche per continuare a smantellare l’industria tedesca, sempre sospettata di rapporti con la Cina – ad esempio, l’operazione di Unicredit contro CommerzBank, è finanziata dagli americani. L’8 marzo del 2023, durante la visita di Netanyahu a Roma, i fascisti hanno firmato un accordo per appaltare una parte consistente della nostra cybersecurity agli israeliani in cambio di commesse militari. In poche parole Israele ci osserva e ci scruta come e quando vuole. I fascisti, grandissimi patrioti, spalancano i confini alla finanza «straniera» per impoverire la «madre patria», mentre li chiudono a qualche migliaio di migranti o li deportano in Albania. Per ligio servizio reso ai padroni americani, Giorgia Meloni è stata premiata dall’Atlantic Council – il cui nome è tutto un programma.

Il governo ha anche tolto risorse a sanità e scuola pubblica allo scopo di favorire la privatizzazione di tutti i servizi pubblici che è proprio la politica dei fondi americani; ha impoverito il paese, soprattutto i pensionati, fatto votare leggi liberticide contro scioperi e manifestazioni, inventato anche il reato di resistenza passiva. Non ha tassato gli enormi profitti di banche, assicurazioni, multinazionali dell'energia e della farmaceutica e delle Gafam. Ha incrementato l’evasione fiscale legalizzata, anche chiamata ottimizzazione fiscale, altra condizione indispensabile al capitalismo finanziario. Questo enorme trasferimento di ricchezza verso le tasche dei padroni ha svuotato i conti pubblici e ora i fascisti chiedono «sacrifici». Per i prossimi 7 anni, dopo essersi schierata contro l’austerità quando era all’opposizione, Meloni impone tagli per 12 miliardi l’anno alla spesa pubblica per rientrare nei parametri stabiliti dal nuovo patto di stabilità europeo (anche questo aspramente criticato prima di salire al potere).

I fascisti sono più liberali dei liberali in politica economica e fiscale. Il solo terreno su cui tengono le promesse fasciste è la repressione di ogni dissenso e di ogni differenza. I colleghi francesi non riescono ancora ad accedere al potere per via elettorale? Ci pensa Macron, convinto che scogliere il parlamento e convocare nuove elezioni politiche fosse il modo migliore per spianare la strada a questi alleati più che sicuri – ma che possono sempre partire per la loro strada, come hanno fatto i nazisti. Che sfiga! Hanno perso sia i fascisti che Macron e la prima forza politica è risultata essere stata la sinistra. Da subito il presidente non riconosce i risultati delle elezioni. In una situazione d’accumulazione originaria e Nomos della terra, dove conta solo la forza, è possibile fare solo ciò che conviene alla macchina Stato-Capitale. Le norme democratiche sono di fatto sospese e dipendono dal volere del «sovrano» democratico Macron, che nomina un governo dove è rappresentata tutta la destra, dalla repubblicana ai fascisti, cioè le forze che sono uscite sconfitte dalle elezioni. Il governo esiste solo grazie all’astensione dei fascisti che lo tengono in pugno e che, mostrandolo pubblicamente, se ne vantano. Aperta la strada politica al potere fascista, mancava quella economica. Eccola: il nuovo governo deve coprire i buchi di bilancio del precedente governo dei banchieri che ha dispensato miliardi pubblici alle imprese e ai ricchi con enorme generosità. Ora bisogna tagliare 60 miliardi di spese dello Stato e si potrà fare soltanto al prezzo di una austerità dello stesso valore (2% del Pil) di quella imposta alla Grecia dalla magnanima Europa.

Il nazismo non è cresciuto tra le due guerre a causa dell’inflazione, come racconta lo storytelling democratico dei tedeschi, ma a causa dell’austerità imposta dalla crisi del 1929. Tutte le condizioni sono riunite perché i fascisti, bocciati dal «popolo» nelle elezioni, salgano prossimamente al potere. Voilà la democrazia!


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Maurizio Lazzarato vive e lavora a Parigi. Tra le sue pubblicazioni con DeriveApprodi: La fabbrica dell’uomo indebitato(2012), Il governo dell’uomo indebitato(2013), Il capitalismo odia tutti(2019), Guerra o rivoluzione (2022), Guerra e moneta (2023). Il suo ultimo lavoro è: Guerra civile mondiale? (2024).

 


 

 


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