Recensione a Maranza di tutto il mondo, unitevi! di Houria Bouteldja
Una recensione a Maranza di tutto il mondo, unitevi! di Houria Bouteldja (DeriveApprodi, 2024) di Vincenzo Di Mino che s'interroga sulle proposte politiche dell'autrice decoloniale:
«In conclusione, questo è un libro assolutamente necessario, che indica la strada da percorrere per qualunque progetto critico e/o conflittuale su scala nazionale ed europea: solo immergendo le mani nelle contraddizioni della composizione di classe, accettando il maranza come parte della moltitudine sociale, imparando a parlare la loro lingua spuria, spostando le contraddizioni dal margine periferico al centro dei rapporti di forza e di potere, si potrà dare vita a un processo di riconoscimento e connessione tra sfruttati ed oppressi, e a un rinnovato antirazzismo politico che si nutre di questa forza soggettiva».
Una versione rivista di questa recensione è stata già pubblicato su «il manifesto» del 20 0ttobre scorso.
***
Est-ce que l'état nous protège? Ou l'état s'protège de nous?
J'sais plus si la France, ça s'épouse, si on s'embrasse ou on s'étouffe
J'sais plus si j'dois militer ou au contraire me limiter
Est-ce que mes repas d'mif sont des réunions en non-mixité?
Pour me sentir intégré, j'ai rien trouvé d'autre qu'un défaut
Quand le français perd sa beauté, alors il défigure les autres
(Medine-France)
Passo dopo passo, a ogni tornata elettorale, l’Europa si avvicina sempre di più al grande baratro, giacché le forze di destra, vincenti sul piano politico, costruiscono una propria egemonia sociale. Dentro questa specifica contingenza storica, in cui la guerra è una crudissima realtà, l’ordine economico improntato all’austerità esce rafforzato dalla connessione con le politiche (e le retoriche) securitarie, xenofobe e scioviniste che accomunano la quasi totalità dello spettro politico, aumentando a dismisura le diseguaglianze esistenti, e alimentando i fenomeni di esclusione, di marginalizzazione e di stigmatizzazione di alcune specifiche categorie di soggetti sociali. Più che piangere sulle virtù del compromesso socialdemocratico, argomento ormai stantio, diventa necessario guardare oltre, ovvero immergersi dentro la composizione sociale colpita dagli effetti della macchina economica e che non trova spazio dentro quella della rappresentanza, sempre più vuoto simulacro.
Muovendosi sul tessuto sociale con gli spessi occhialetti dell’ideologia, si è di frequente portati a cercare simulacri di soggettività sociale, veri e propri manufatti di laboratorio che tanto più avvicinano alla realtà desiderata, quanto più allontanano da quella che è la composizione sociale effettiva. Di conseguenza, lo stupore che si prova davanti al reale deve essere pari alla voglia di mettere le mani dentro questa stessa composizione, non per classificarla ma per provare a parlare una nuova lingua insieme ad essa. Le esperienze di analisi e ricerca che si muovono su questo terreno irto e frastagliato, con gli strumenti messi a disposizione dalla cassetta degli attrezzi della ricerca e del pensiero decoloniale, specie negli ultimi anni, hanno offerto preziose istantanee sulla dimensione materiale di questa composizione sociale che può essere considerata a tutti gli effetti parte della più estesa composizione di classe. Specie in ambito francese, questo tipo di analisi offrono uno spaccato sociale molto meno pacificato di quello che si immagina. Inoltre, permettono di riattivare quelle linee di faglia del conflitto tanto facilmente individuabili dal punto di vista sociologico quanto politicamente abbandonati da anni, se non per essere fatti oggetto di propaganda elettorale o, peggio, idealtipizzati come spazi naturali del conflitto ma, allo stesso tempo, mantenuti a debita distanza dall’effettiva costruzione di percorsi conflittuali. Oltre gli stereotipi esistono, infatti, legami e alleanze, tra segmenti di questa caleidoscopica composizione sociale che parlano una lingua simile ad un urlo di guerra ai dioscuri che reggono la struttura sociale ed istituzionale.
Maranza di tutto il mondo, unitevi! della militante decoloniale - e già fondatrice del Parti des Indigènes de la République -, Houria Bouteldja, squarcia prepotentemente il velo sulla materialità della composizione di classe attuale, sulla sua storia e sulle potenzialità come vettore di un diffuso desiderio di autonomia ed indipendenza che in essa risiedono. Una scommessa, quella dell’autrice, che si rivolge a quei due segmenti che compaiono nell’originale titolo del volume apparso in Francia a marzo del 2022 presso La Fabrique - quindi alle soglie delle elezioni presidenziali che videro la vittoria di Emmanuel Macron grazie al «solito» apporto in chiave antifascista del blocco sociale liberal-progressista e di alcuni segmenti di quello radicale -, ovvero beaufs et barbares, indicati all’unanimità (specie i primi) come causa principale della crescita delle forze neofasciste e, più mediaticamente considerate come antigovernative. Beaufs e barbares segnano invece il perimetro della soggettività, e segnalano la presenza di un problema politico all’interno del campo sociale antagonista: il white trash inglese, concetto che rende tanto terminologicamente quanto a livello simbolico e di immaginario il concetto dispregiativo francese di beauf, è espressione effettiva di quella composizione sociale, trasversale al ceto medio e a quello medio-basso, che ha subito gli effetti prolungati di un quindicennio di continue crisi economiche, di forme di governo improntate all’austerità, di tagli su quel che restava dei servizi pubblici. A questo variegato universo soggettivo, quello del proletariato bianco e dei migranti di ultima generazione, in poche parole, è stato reso difficoltoso l’accesso all’ascensore sociale - ovvero alla possibilità di un miglioramento della propria condizione economica attraverso il mercato del lavoro, inteso come elemento di stabilità simbolica ed economica, quanto l’accesso allo spazio politico; su di essi è piovuta la scure dei tagli degli istituti di welfare, la giungla del lavoro precario, intermittente e sottopagato, e lo stigma da parte del mondo progressista per la loro condizione sociale. Questa è la chiave di lettura principale per accedere al cuore delle argomentazioni di Bouteldja: è proprio questa soggettività marginale e marginalizzata sotto tutti gli aspetti - politico, geografico, economico, culturale - che lentamente sta affilando gli strumenti per aprire le falle interne alla struttura di potere esistente, in virtù di una loro dimensione «barbara», ovvero renitente al dominio e propensa a costruire altre forme di affetti e di comunità che si muovono in direzione opposta rispetto ai legami sociali vigenti, strutturati completamente dal rapporto sociale capitalista e dal rapporto giuridico dello Stato.
Lo Stato razzista integrale, ovvero del Giano Bifronte capitale-razza
Uno degli elementi di forza che hanno caratterizzato l’emergenza del pensiero post-coloniale prima, e di quello decoloniale poi, è stato l’aver fatto emergere il legame stretto, genetico e originario tra capitale e razza, tanto nelle evidenze della storia globale delle dominazioni coloniali, quanto nell’analisi delle micropolitiche razziali e razziste. Il mercato del lavoro e quello della sicurezza sociale sono stati (e continuano a essere) vettori privilegiati della costruzione di un razzismo strisciante, le cui mutazioni (sia per quanto riguarda l’offerta di lavoro che per l’erogazione delle prestazioni minime dovute alla cittadinanza) hanno segnalato i differenti passaggi che hanno scandito la trasformazione dell’esclusione razziale in inclusione differenziale, seguendo tanto la linea del colore quanto quella della differenziazione sociale dovuta alla posizione occupata nella struttura sociale, al reddito o al livello di istruzione. Anna Curcio ha analizzato l’insieme di questi passaggi, utilizzando il concetto di «management della razza» come cartina di tornasole che rende visibile la trama razzista che ha caratterizzato per intero la storia dell’Occidente, sia nelle forme più violente ed evidenti del razzismo biologico ed eugenetico (legato esemplarmente ai nomi di Lombroso e De Gobineau, ad esempio), che in quelle più subdole le quali, rubricate nominalmente e mediaticamente come «leggi sulla cittadinanza», limitano o escludono tout court l’accesso allo spazio pubblico ai migranti di vecchia e nuova generazione, con politiche che combinano linee razziali e linee geografiche del colore. L’insieme di questi processi di razzializzazione, infatti, caratterizza sia il mercato del lavoro, in cui la razza è merce a buon mercato destinata alle soglie occupazionali più basse (o, detto in altri termini, espone i soggetti razzializzati allo sfruttamento più becero, specie nei settori della logistica di magazzino o in quella del commercio al dettaglio sulle piattaforme di consumo), sia lo statuto stesso del migrante nei dibattiti mediatici e in quelli politici, percepito in maniera ambivalente come vittima dei «trafficanti di uomini» nelle varianti liberal-conservatrici, o come nuda carne da accogliere e restituire alla vita activa nelle versioni liberal-progressiste (Curcio, 2024). Nelle parole di Bouteldja, questi sono gli elementi che hanno segnato la storia e l’evoluzione di quello che, con un approccio fondamentalmente gramsciano, può essere chiamato «Stato razziale integrale», e che è il prodotto della diffusione del suprematismo razziale generato dalla connessione tra Stato e società civile e politica. Utilizzando la storia della Francia come punto di osservazione privilegiato delle differenti mutazioni di questa macchina della sovranità, l’autrice evidenzia come, primariamente, essa sia fondata non solo su un movimento «reattivo» di chiusura alle istanze sociali e di separazione razziale palesata da strumenti legislativi e polizieschi, ma soprattutto su un movimento «positivo» di ricezione delle istanze stesse, volte fondamentalmente ad assimilare ed integrare forzosamente i segmenti sociali esclusi, tramite il lavoro e le istituzioni assistenziali. Il passaggio dallo Stato razziale naturalista allo Stato razziale integrale può essere letto - e Bouteldja lo fa scandendo le tappe storiche - come passaggio dall’egemonia dal segmento conservatore della borghesia a quello liberale e progressista, votato ad una maggiore integrazione delle altre soggettività sociali attraverso il lavoro, e che trovò legittimazione attraverso la progressiva estensione del suffragio universale. Pur mantenendo ferme le barriere tra una classe e l’altra, questo segmento della borghesia strutturò ulteriormente la propria egemonia cementando un blocco sociale, quello della bianchezza, facendo forza sull’arma culturale e politica del colore della pelle, a dispetto della propria posizione sociale. Il campo politico della Bianchezza, utilizzando la soglia del colore come elemento di discrimine, riuscì a mantenere la rotta del comando fino all’emergenza delle lotte anticoloniali del dopoguerra, che cementarono progressivamente un campo politico antagonista, sebbene frastagliato e (spesso) invisibile. Ma, ciononostante, gli stessi segmenti progressisti del blocco sociale bianco cavalcarono l’onda dell’antirazzismo, abbracciando il multiculturalismo come dispositivo in grado di depotenziare e rubricare a mera testimonianza la presa di parola delle lotte anticoloniali prima, e di quelli dei migranti e dei giovani di seconda e terza generazione poi. L’inclusione differenziale, operata tramite la costruzione egemonica del multiculturalismo come dispositivo discorsivo che, nel momento in cui negava le identità culturali e le prese di parola singolare come rivendicazioni identitarie e le annegava nel calderone dell’identità unica nazionale, ovviamente vincolata alla bianchezza, ebbe il proprio exploit dopo la vittoria della nazionale ai mondiali di casa del 1998, grazie alla diffusione dell’immagine della squadra - a questo punto specchio ideale della società francese - da Blancs, Blacks e Buer, ovvero da differenti identità sociali che trovarono la loro unità sotto la bandiera tricolore (Riolo, 2013). Fu immediato, per le stesse élite dominanti, abbracciare il sogno della dimensione europea come forma di superamento delle differenti identità nazionali, sotto l’egida di un mercato comunitario che, spinto dalla globalizzazione, sembrava viaggiare a gonfie vele, e che accentuò le divisioni razziali, tanto da essere considerato (ed analizzato) come Superstato razziale. La crisi del sogno europeo, aperta dalla lunga stagione (non ancora chiusa) della guerre globali condotte dall’Occidente in nome della democrazia, e accentuata dalla stagnazione economica e dalla differenziazione culturalista tra la frugalità dei paesi nordeuropei e la prodigalità di quelli meridionali-mediterranei, ha riaperto i tagli suturati dal welfare di matrice socialdemocratica e keynesiana, facendo riemergere le vecchie e mai sopite fratture di natura razzista all’interno delle società europee, e di quella francese in particolare. L’associazione, prodotta ad hoc, tra comunità musulmane e terrorismo di matrice religiosa (ancora più forte e feroce in seguito agli attentati parigini del novembre del 2015) e voto per i partiti euroscettici o nazionalisti da parte di sempre più ampi settori delle classi popolari bianche, contribuì a costruire lo stigma con cui si intitola il libro: i maranza della traduzione sono, alla fine dei conti, quei soggetti che non credono nella forza irresistibile della democrazia rappresentativa e in quella seducente del mercato, non parlano la lingua dei diritti perché ne sono materialmente esclusi. Soggetti alla deriva, esposti alla loro riduzione a folk devils per i maître à penser dell’opinione pubblica, merce di scambio per la distribuzione delle scarse risorse indirizzate verso le cosiddette fasce deboli della popolazione, e, soprattutto, parti del milieu sociale su cui vengono scaricati i costi della gestione emergenziale dell’economia. Il blocco sociale bianco, fondamentalmente, torna a trovare la propria legittimità sociale attraverso il razzismo, localizzando il problema lungo la linea razziale del colore, ovvero invitando direttamente (questo fanno i partiti neofascisti che sono al governo o nelle sue stanze nella maggioranza dei paesi Europei, specie in quelli più importanti!) o indirettamente, attraverso sofisticate politiche di accoglienza ed esclusione, il proletariato bianco a combattere il proprio omologo nero, a cui viene imputato il furto delle risorse primarie, del lavoro e del welfare. Paradossalmente, come enunciato dall’ex ministro dell’interno francese Darmanin in un’intervista rilasciata all’emittente FranceInter qualche settimana fa, esiste un spirito di discriminazione e di razzismo strutturale interno alla società francese che agevola la polarizzazione degli schieramenti e porta i «petit blancs» a votare il Front National e il «petit beur» a scegliere Mélenchon, processo alimentato dalle stesse politiche pubbliche: ciò che risulta paradossale, infatti, non è tanto la presa di posizione di un personaggio di tale spessore, ma il tono moralista, tipico di un esponente del campo politico della bianchezza (che ha rafforzato le misure repressive a carico degli attivisti e trattato le emeutes delle periferie come veri e propri teatri di guerra), ovvero di un amministratore del senso comune egemone.
I convitati di pietra nelle foto della classe
Secondo punto di analisi del libro di Bouteldja è la critica impietosa, ma cionondimeno realista, della sinistra francese (ma si potrebbe estenderla a quella italiana), in tutte le sue declinazioni. L’opera del Partito Comunista Francese o del Partito Socialista Francese, nel corso del Novecento, è stata indirizzata al rafforzamento del ruolo della classe operaia all’interno della società e delle istituzioni, opera di certo meritoria. La domanda da porsi però è la seguente: a quale prezzo? La torsione nazionalista delle scelte dei comunisti francesi, infatti, rafforzò il blocco sociale borghese, strutture statali comprese, puntando ad una integrazione meramente verticale tra classe e Stato, disperdendo il potenziale conflittuale della composizione sociale multietnica derivante dalla circolazione di soggetti, agevolata dalla dimensione imperiale prima, e quella di vettore post-coloniale poi. I tornanti storici dei rapporti che i comunisti francesi intrattennero con gli eventi algerini fu sin da principio tormentata. Innanzitutto, dal punto di vista storico, l’emergenza della questione coloniale e del diritto all’autodeterminazione dei popoli - enunciato da Lenin in pieno 1915 e poi tradotto durante il biennio 1919-1921 in tentativo di rivoluzione nel cuore dell’Europa, tra Germania, Ungheria e Italia e nella fondazione dell’Internazionale - diventa la posta in palio di una feroce battaglia ideologica e politica tra differenti gruppi di potere, e, con la nefasta affermazione del fascismo mussoliniano e del mito hitleriano del Reich, l’appendice di scelte politiche che la contingenza riteneva d’urgenza, condizionando le scelte del gruppo dirigente nazionale. La politica frontista, culminata nella vittoria delle sinistre alle elezioni del 1936, mostrò i primi segnali di ambiguità nella costruzione della Nazione come corpo unico comprendente anche i possedimenti coloniali, e nel rubricare con le parole di Thorez le lotte come processi di una «nation in formation». Non è tanto la lettura in termini di state-building che salta all’occhio, ma è l’assunzione di un habitus coloniale, seppur declamato con parole inscrivibili all’interno del frame geo-storico determinato dalle polarizzazioni globali dell’epoca, che in poche parole attribuisce e distribuisce le garanzie della triade repubblicana «Liberté- Égalitè-Fraternitè» in base al colore della pelle. È dunque manifesta la trama del discorso sugli stadi storici di sviluppo di una formazione sociale su base nazionale, che concepisce il riconoscimento in termini negativi della razza e dell’assimilazione della classe operaia algerina a quella francese, sottoscrivendo le lotte indipendentiste a quelle più generali della soggettività operaia francese e dislocandole in un altrove storico e storicista da raggiungersi dopo il compimento della missione storica e «rivoluzionaria» sul suolo della madrepatria. L’Algeria e gli algerini furono oggetti enunciativi usati come termometro delle trasformazioni sociali e poi come indice del disordine repubblicano, dispositivi retorici e narrativi volti ad implementare il paternalismo e l’attendismo della dirigenza comunista, così determinata a raggiungere una credibilità di governo - costata morti durante la guerra - tanto da sottovalutare l’invariante coloniale, non solo nelle strutture statali, ma anche nell’assunzione di una superiorità politica e morale nella determinazione delle linee di lotta dei comunisti algerini stessi. Considerando lo spazio coloniale come estensione spaziale di quello domestico, essi appiattirono le proprie posizioni su quelle dell’opinione pubblica - ancora scossa dalla batosta vietnamita orchestrata da Giap di Diên Biên Phu - non avendo avuto il coraggio di sacrificare «le tout à la partie» e alimentando indirettamente una guerra tra gli operai e i poveri francesi e quelli algerini (Ruscio, 2019). In maniera simmetrica operò il Partito Socialista durante le manifestazioni antirazziste degli anni Ottanta, culminati nella Marche pour l’Egalité del 1983, la cui energia fu presto riassorbita dalle agenzie amministrative e dal depotenziamento della questione razziale. In questo senso, le scelte delle forze di sinistra contribuirono a strutturare una società politica interna al campo sociale bianco, in cui l’antirazzismo veniva declinato secondo principi pietisti e morali, come mera questione di accoglienze e non come effettiva ricerca di autonomia e indipendenza da quest’ultimo. Sostanzialmente, l’internazionalismo comunista nel corso del tempo si tradusse in mera aspirazione idealista e ideologica, effettuata dal comodo perimetro dell’esagono francese, incapace di riconoscere la dimensione razziale della questione di classe dentro e fuori i luoghi di produzione. Successivamente, l’ubriacatura neoliberale contribuì ad aumentare lo iato ideologico e materiale tra organizzazioni politiche e composizione sociale. Nel caso delle mobilitazioni dei Gilets Jaunes del biennio 2018-2020, che furono un’emergenza improvvisa e incredibilmente radicale con cui i ceti medi, la forza-lavoro operaia e il proletariato bianco presero parola, il giudizio delle sinistre fu tranchant: davanti alle ambiguità, esse si ritirarono nelle loro roccaforti metropolitane, trasformando questo campo sociale in una prateria per i neofascisti lepenisti, che ne approfittarono nelle elezioni del 2022 e anche in quelle avvenute questa estate. Lo scontro strumentale aperto nel campo sociale bianco, specialmente nell’ultimo trentennio, tra fasciamo ed antifascismo è strumentale e vuoto, così come è stato vuoto l’appello decennale da parte dei comunisti e dei sindacati per l’unità della classe operaia. Quest’ultimo si riduceva però all’unità degli operai bianchi, individuando nella forza-lavoro migrante un nemico dell’integrazione e dei progetti di governo; cum grano salis, lo stesso meccanismo avveniva nelle fabbriche italiane, in cui gli esclusi erano gli immigrati meridionali, ovvero i soggetti del colonialismo interno alla nazione e allo stesso colore della pelle, che venivano esclusi, marginalizzati e segnalati alle autorità di fabbrica per la loro provenienza geografica e la loro disposizione conflittuale aliena al compromesso ed alla mediazione. Non esistono, però, occhialetti ideologici per chi parla di trasformazioni sociali, perché lo spazio sociale e topografico dei maranza, la sua composizione sociale striata che comprende barbari e beaufs, petit blancs e petit beurs, è invece ciò che può rendere ingovernabile la società. Entrambi poli della attuale composizione di classe, sebbene separati dal discorso mediatico e da quello politico, sono soggetti a parte attiva ed intera delle mobilitazioni sociali che hanno attraversato la Francia e l’Europa anche in forma problematica e contraddittoria, e non possono essere surdeterminati dagli effetti ideologici derivati dai processi di stigmatizzazione sociale. Facendosi parte attiva di questi processi, i comunisti francesi (ma anche quelli italiani), come elementi egemoni nel campo della sinistra bianca, hanno rafforzato la società politica bianca, costruendo di conseguenza la loro egemonia attraverso il rafforzamento del loro blocco elettorale, isolando le minoranze bianche e razzializzate e integrando sempre di più la classe nei meccanismi di governo. La triade repubblicana Liberté-Egalité-Fraternité, irrorata dagli straccioni di Valmy, dagli schiavi insorti di Haiti, dai comunardi morti sulle barricate, dagli internazionalisti del Reseau Jeanson che aiutarono finanziariamente e anche attivamente gli insorti algerini, nelle mani delle sinistre ha invece rafforzato il progetto dello Stato razziale integrale, scaricando allo stesso tempo il risentimento e la fragilità del proletariato bianco nelle mani della destra. Lo sciovinismo genetico e diffuso, nelle mani dell’opinione pubblica, è trasformato in complottismo a buon mercato, da offrire ai beaufs come surrogato di una protezione dagli effetti della crisi. Il caso del neofascista Alain Soral, citato da Bouteldja, è un esempio della dimensione ambigua e, nuovamente, paradossale, che la riflessione sugli effetti della governance bianca prende, perché lo stesso Soral invitava a riconoscere nella mascolinità egemone, sia dei soggetti proletarizzati che di quelli razzializzata, un elemento per fermare le derive femministe della società francese, alimentando una alleanza tra queste soggettività colpite dall’ideologia gender liberale e globalista! D’altra parte, l’antirazzismo di stato, suffragato da pubblicazioni editoriali, spettacoli, manifestazioni sportive, discorsi ufficiali, corsi accademici e raffinate disquisizione parasociologiche, elevando l’integrazione e l’assimilazione a panacea nei confronti di tutti i mali, istituisce allo stesso tempo una vittima - il barbaro razzializzato o maranza - e un nemico - il proletariato bianco -, scomponendo la composizione sociale e rafforzando il campo sociale bianco.
Per l’autrice, sostanzialmente, ogni avvicinamento al campo politico egemone da parte delle minoranze e dei marginali ha rappresentato un rafforzamento della struttura classista e razzista della società: l’antirazzismo ha segnalato un problema che, politicamente, è stato tradotto in forme di controllo e segmentazione quasi «igienica» delle periferie dei grossi aggregati urbani, o culturalmente nella ricerca della specificità identitaria (ribaltando e risignificando la presa di parola anticoloniale) con cui segnalare le differenze antropologiche e culturali tra le diverse soggettività. Il progetto post-illuminista dell’integrazione e dell’assimilazione (i cui effetti sono osservabili alle altezze politiche italiane nelle discussioni sulle proposte di ius scholae ora e di ius soli qualche anno fa), eludendo o, peggio ancora, escludendo i nodi della classe e della razza - ma anche del genere - costruiscono un campo sociale in cui le problematiche strutturali derivanti dall’impossibile pacificazione sociale, che è alla base di entrambi i progetti, vengono trasformate in emergenze sociali temporanee, da risolvere con la forza della repressione o, al contrario, utilizzando le spinte microfasciste che attraversano tutta la società, per rafforzare proprio il campo politico della bianchezza, che lega trasversalmente liberali e progressisti dentro un progetto antipopolare e razzista nei confronti dei proletari bianchi, dei barbari e dei maranza.
Questi convitati di pietra nelle foto ufficiali della democrazia e della classe, invece, sono l’orizzonte egemone della composizione di classe di oggi. Più che agitare lo spettro del fascismo per le solite corazzate frontiste, come fa l’intero spettro politico organico al campo liberal-capitalista (che necessita del fascismo per avere una propria legittimità sociale perduta da tempo immemore e sempre più poco credibile), è oggi necessario tornare a sporcarsi le mani dentro le macerie ambigue prodotte dalle contingenze politiche ed economiche.
Dall'antirazzismo politico al blocco sociale decoloniale: orizzonti di autonomia di classe
Se la forza analitica del libro risiede nelle caustiche rasoiate con cui ha praticamente demolito i miti del liberalismo e del progressismo, mettendo a nudo le caratteristiche intrinsecamente razziste del campo della Bianchezza, la forza politica della proposta dell’autrice risiede nella capacità di rischiarare un orizzonte conflittuale facendo leva sull’elemento più problematico: quello della connessione tra i due segmenti della composizione di classe, o, adattando uno dei termini chiave dell’opera di Stuart Hall, l’articolazione tra due momenti connettivi ed organizzativi differenti all’interno di un orizzonte di movimento comune. Torna, a questa altezza, la problematicità ambivalente della scelta di tradurre in italiano con «maranza» i due specifici termini francesi, per sottolineare ulteriormente non solo il posizionamento marginale che occupano beauf e barbari nella gerarchia sociale, ma anche quello che occupano a livello topografico: la periferia, ovvero la cassa di risonanza simbolica ed immaginaria di un certo tipo di scommessa politica sulla soggettività, che a sua volta incrocia la storia presente e passata di riots e rivolte su entrambe le sponde dell’Atlantico (Watts, Los Angeles, Brixton, Parigi, Marsiglia) e anche nei Sud del Mondo (Buenos Aires, Rio de Janeiro). Sgomberando ulteriormente il campo da ipostasi teoretiche o, peggio ancora, fascinazioni pauperiste per gli ultimi letterariamente intesi, ciò che rimane è la classica figura marxiana del lumpenproletariat, o quella gramsciana del subalterno, le cui potenzialità intrinseche sono imbrigliate dalla lingua e dalla storia madre dei governanti, che, conseguentemente, barrano l’accesso alla capacità di parlare e agire tipiche della costruzione, tutta occidentale, della soggettività. Ciò che Bouteldja fa, mandando all’aria il tavolino su cui colonialismo e decolonialità à la page siedono insieme, è provare a legare le differenze che separano entrambi i segmenti di classe all’interno di un discorso tutto politico sulla costruzione di nuove forme di sovranità popolare, ovvero di un doppio contropotere, bianco e indigeno, con cui saturare e destrutturare la macchina della sovranità statale bianca.
Barbari, in questo contesto, sono gli esclusi dal patto sociale repubblicano francese, ma allargando lo sguardo all’Europa, gli esclusi tout court dai (pochi) benefici garantiti dalla cittadinanza e dalla circolazione europea. Ecco perché risulta suggestivo, sebbene da maneggiare con estrema cura, il progetto di una «Frexit» decoloniale che l’autrice avanza nella parte finale del libro. In controtendenza con quelle politiche dei movimenti sociali alternativi ed antagonisti, che hanno trovato nello spazio europeo il terreno di un’ unità minima d’azione per provare a condizionare le scelte governamentali, la proposta di Bouteldja insiste sulla dimensione territorializzata della composizione di classe e sulle possibilità di un processo di trasformazione con cui legare ciò che la macchina capitalista ha sempre separato. Con questo orizzonte di senso, che corrode causticamente lo statuto pienamente liberale dell’attuale costituzione materiale europea, l’autrice prova a restituire dignità a quella vasta fetta di composizione sociale che non ha mai digerito le scelte «progressiste» della governance europea e che, abbandonata dai propri referenti politici tradizionali, ha abbracciato le sponde del nazionalismo e del neofascismo, in grado di offrirgli una struttura di senso micro e macropolitica con cui essi potevano spiegare tanto gli eventi quanto contestarli: i maranza delle periferie italiane, ovvero i migranti e i proletari che guardano con interesse alle formazioni euroscettiche come la Lega, parlano una lingua simile agli elettori del Front National che hanno trasformato la banlieue rossa - elemento tipico della mitologia comunista francese - in brodo di coltura del razzismo e dello sciovinismo, e agli operai e ai proletari delusi che Anthony Cartwright descrive nei suoi libri, soggetti traditi dalla socialdemocrazia liberale che hanno spinto in massa la scelta della Brexit per difendere ciò che restava delle loro garanzie sociali e, strumentalizzati dai fascismi, della loro «identità». È chiaro che questo magma soggettivo è estremamente problematico e ambiguo, ma solo partendo da esso, dai suoi bisogni e dalle sue richieste diventa possibile destrutturare la natura coloniale della costruzione della cittadinanza, sia sul suolo nazionale che su quello europeo. Vi è, infatti, un passaggio da non ignorare, sia sul piano metaforico che su quello pratico. Imparare a parlare la lingua della sovranità, infatti, significa dare una dimensione immediatamente pratica alla progettualità, ovvero provare a mettere effettivamente in discussione i rapporti di forza entro cui le alleanze tra soggettività sono inscritti. Il terreno della doppia sovranità bianca ed indigena apre la porta a dispositivi di soggettivazione legati all’esercizio pratico di questo contropotere: in termini fanoniani, infatti, la dimensione del conflitto si lega strettamente all’emergenza della soggettività, che trasforma la propria volontà di potenza sotterranea in forza concreta, ovvero in esercizio di critica costante al potere costituito (Arnall, 2020). Agitare così lo spettro del «blocco storico decoloniale», forzando la lettura gramsciana e facendole prendere una piega leninista, a questa altezza, per Bouteldja significa costruire un assemblaggio connettivo tra le differenti sezioni della composizione di classe, nei termini della conquista di una egemonia concreta di questo blocco all’interno del tessuto sociale dello Stato razzista integrale. E questo progetto non può che passare per la produzione di spazi di autonomia in cui integrare il rifiuto dell’assimilazione coatta al milieu sociale della bianchezza con la costruzione della sovranità come elemento relazione tra sfruttati ed oppressi, pur nelle loro specificità. Un passo verso questa direzione, ad esempio, è stato fatto nella costruzione del Front Populaire durante la recente tornata elettorale, che sebbene abbia prodotto risultati effettivi discutibili, cionondimeno ha posto le basi per una progettualità ri-compositiva che, per esperire completamente la propria potenza, deve rifuggire dalle tentazioni frontiste in senso stretto, ovvero dallo svuotamento della propria egemonia concreta, costruita dalla presenza effettiva dentro la composizione sociale, a favore della fantasie governiste delle sinistre istituzionali (e di quelle che lo aspirano ad essere) calate dall’alto, prive di legittimità materiale. Lo spettro della sovranità, così, può dispiegare un orizzonte di possibilità conflittuali a venire, senza sminuire le difficoltà e le pieghe che possono incontrarsi lungo il cammino dell’autonomia. L’antirazzismo politico, che viene a coincidere con lo spazio dell’autonomia soggettiva, può essere considerato il punto minimo di questo programma: la parola che usa Bouteldja per caratterizzare questo processo di unità conflittuale tra i due poli è «indipendenza», operatore semantico che funge da sintesi disgiuntiva effettiva sul terreno della pratica politica. La prima caratteristica della ricerca dell’indipendenza è la messa a valore dei linguaggi e delle espressioni culturali dei maranza. In termini nuovamente gramsciani, ciò che cementa l’indipendenza è la ricerca di autonomia culturale, sebbene all’interno di rapporti di potere sfavorevoli.
La principale lingua del maranza, barbaro o petit blanc, è quella della strada, è il rap, che funge non solo da cerniera identitaria tra i differenti segmenti soggettivi, ma proietta anche un’immagina minacciosa della soggettività stessa nei confronti del blocco maggioritario bianco. La lingua poetica del barbaro, per dirla con Louisa Yousfi, è la lingua dello straniero, dell’escluso, dell’irriducibilità, che traduce in lirica l’arte della guerra concettuale ed etica che ciascun banlieusard è costretto ad imparare per sopravvivere (Yousfi, 2022). La dimensione della strada garantisce autenticità e legittimità agli enunciati, perché espressione di un’estetica dell’antagonismo concreto e non dell’opportunismo mainstream (Hammou, 2012). La rivendicazione dell’autonomia culturale, attraverso queste pratiche, rafforza ancor di più il sentimento comunitario che lega le diverse generazioni dei maranza/barrbari/petit blancs, e si pone come forma di rifiuto dell’esistente, anche solo da punto di vista materiale: ciò che conta, infatti, è l’appropriazione e la sovversione - in questo senso linguistica, estetica e comunicativa - dell’arsenale del nemico, per sottrarsi al colonialismo ontologico che pervade e struttura la società tutta intera. Così, queste espressioni culturali, radicate nelle identità particolari, allo stesso tempo sradicano la stessa appartenenza identitaria del blocco maggioritario, favorendo la proliferazione di queste lingue minori che paventano l’indipendenza, e contribuiscono all’emergere di un milieu comune in cui assemblare le differenti emozioni e le differenti progettualità.
La soggettivazione del blocco sociale decoloniale, così, non può prescindere dalla messa in comune anche degli affetti, ovvero dalla politicizzazione delle emozioni e delle indignazioni che passano lungo la linea di divisione amico/nemico e che vengono risignificate attraverso il prisma della colonialità/razza, della classe e del genere. Un antirazzismo politico all’altezza di questo discorso, infatti, non può fare a meno di risignificare la propria dimensione emotiva, lasciando quanto più spazio alla rabbia del colonizzato che non deve più rappresentare solamente la voce della vittima, riducendo la rabbia a pura espressione reattiva, ma a passione progettuale, strategica: l’odio degli sfruttati è ciò che lega le diverse figure dei maranza, e può rendere possibile l’erosione delle basi sociali del colonialismo statale bianco.
I barbari dei margini, per concludere, sono i soggetti con cui bisogna fare i conti, con cui bisogna sporcarsi le mani, con cui bisogna sbattere la testa, non tanto per la loro condizione da vittima sacrificale (elemento amato dagli umanitaristi liberali di tutte le risme e tutte le posizioni), ma proprio per la posizione strategica che occupano: tanto più cresce l’odio ai margini dagli spazi coloniali, tanto più possono essere destrutturati i rapporti di forza esistenti. Inoltre, tanto più i barbari acquistano centralità nella strategia politica antagonista, quanto più l’autonomia e l’indipendenza che emergono da queste lotte torneranno a materializzarsi in dispositivi di contropotere efficaci. La forza di questa soggettività indigena, di questa macchina di soggettivazione decoloniale, trova il suo posto nella critica feroce e tagliente che Bouteldja fa nei confronti di questa Europa, rilanciando invece l’idea di una doppia sovranità popolare, bianca e indigena, contro le politiche aristocratiche della governance europea. Maneggiando con cura il suggestivo programma di decolonizzazione dell’Europa attraverso il ritorno alla sovranità nazionale, emerge però quello che è un orizzonte non solo plausibile ma ancora più cogente dentro il regime di guerra regionale e globale: la costruzione di un contropotere dentro e contro il partage politico, un contropotere diffuso e fondato sulle alleanze tra i soggetti di classe, che sappia trarre la propria linfa dal protagonismo dei barbari e dalla voglia di riscatto dei beauf.
In conclusione, questo è un libro assolutamente necessario, che indica la strada da percorrere per qualunque progetto critico e/o conflittuale su scala nazionale ed europea: solo immergendo le mani nelle contraddizioni della composizione di classe, accettando il maranza come parte della moltitudine sociale, imparando a parlare la loro lingua spuria, spostando le contraddizioni dal margine periferico al centro dei rapporti di forza e di potere, si potrà dare vita a un processo di riconoscimento e connessione tra sfruttati ed oppressi, e a un rinnovato antirazzismo politico che si nutre di questa forza soggettiva.
Bibliografia
G. Arnall, Subterranean Fanon. An underground theory of radical change, Columbia University Press, New York 2020
H. Bouteldja, Maranza di tutto il mondo, unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024
A. Curcio, L’Italia è un paese razzista, DeriveApprodi, Bologna 2022
K. Hammou, Une histoire du rap en France, La Découverte, Parigi 2012
L. Yousfi, Restare barbari, DeriveApprodi, Bologna 2023
D. Riolo, Racaille Football Club. Fantasmes et réalités du foot français, Éditions Hugo et Compagnie, Parigi 2013
***
Vincenzo Di Mino (1987), laureato in Scienze della Politica, è ricercatore indipendente in teoria politica e sociale.
Comments