Nei giorni scorsi è mancato Gian Franco Roggero, grande appassionato e studioso di cinema, autore del volume Neorealismo. Il cinema della vita quotidiana (DeriveApprodi 2021). Il volume, grazie al suo carattere al contempo formativo e analiticamente approfondito, si presenta come un testo fondamentale per chi voglia conoscere e comprendere quella straordinaria stagione del cinema italiano del dopoguerra. Proponiamo qui oggi il paragrafo dedicato a Ladri di biciclette, il capolavoro di Vittorio De Sica.
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Un giorno Cesare Zavattini dà a Vittorio De Sica un libro, Ladri di biciclette di Luigi Bartolini. Del romanzo nel film è rimasto solo il titolo e l’immagine della bicicletta. In «Bis»[1] Zavattini pubblica il soggetto:
Che cos’è una bicicletta? Roma è piena di biciclette come di mosche; ne rubano decine e decine al giorno e i giornali non vi dedicano neppure una riga in corpo sei […] Se rubassero la bicicletta ad Antonio, i giornali dovrebbero, secondo noi, occuparsi del furto con un titolo su quattro colonne. Per Antonio infatti la bicicletta rappresenta uno strumento di lavoro.
Si cominciò a lavorare alla sceneggiatura. Le idee di Amidei non collimavano con quelle di Zavattini. Il primo racconterà poi: «Su Ladri di biciclette non c’è il mio nome, nel senso che non trovavo giusto in quel momento che un compagno, un comunista, un operaio che vive in una borgata, e al quale rubano la bicicletta, non andasse alla sezione del partito e non gli trovassero una bicicletta. Si ignorava questo tipo di solidarietà, che allora c’era»[2]. Come era già successo in Roma città aperta, per Amidei prevalgono le direttive del partito. Malgrado un tentativo di mediazione di De Sica, viene sostituito da Suso Cecchi D’Amico. Quando vide il film, pare che Amidei abbia esclamato: «Sono stato uno stronzo!». Ma, aggiungo, avrebbe privato tutto il mondo della visione di quel capolavoro che è Ladri di biciclette.
Su «La fiera letteraria»[3] De Sica confessa:
Perché faccio questo film? Dopo Sciuscià ho avuto per le mani trenta o quaranta copioni, uno più bello dell’altro, pieni di fatti, di circostanze fortissime. Ma io cercavo una vicenda meno straordinaria, una vicenda di quelle che accadono a tutti, e specialmente ai poveri, e che nessun giornale si degna di ospitare […] Che cos’è infatti il furto di una bicicletta?
Ci sono difficoltà a trovare un produttore, per diversi motivi: non c’è una storia d’amore, le donne sono marginali, nessun fatto eclatante. Inoltre la storia di un operaio cui hanno rubato la bicicletta a chi vuoi che interessi? Racconta De Sica: «Gli uomini coraggiosi al punto di finanziare il film li trovai in tre amici: l’avvocato Ercole Graziadei, Sergio Bernardi e il conte Cicogna. Furono tre soci straordinari; mi lasciarono fare tutto ciò che volevo e mi dettero tutto il denaro che mi occorreva»[4]. Alcuni produttori americani, che erano interessati al film, proposero come protagonista Cary Grant: per fortuna nostra De Sica rifiutò i soldi e l’idea di quel protagonista.
Proprio la scelta del protagonista è faticosa, alla fine si risolve in modo fortunoso:
A un tratto nella folla dei genitori vidi un operaio che teneva il figlioletto per mano. Gli feci segno di avanzare, lui venne dinanzi esitante, sospingendo il bambino […] No – gli dissi – sei tu che mi interessi, non il bambino. Era Lamberto Maggiorani. Gli feci subito il provino; è come si muoveva, come si sedeva, come muoveva le mani, piene di calli, mani di un operaio, non di un attore, tutto in lui era perfetto. Intanto il bambino non si trovava. Disperato, decisi di iniziare ugualmente il film; si girava in quella specie di teatrino di dopolavoro. Stavo dicendo qualcosa a Maggiorani, quando mi volto, infastidito dai curiosi, vidi uno strano bambino con una faccia tonda, e un nasone buffo, e stupendi occhi vivissimi. Questo me l’ha mandato San Gennaro, pensai[5].
Trovati i soldi e i due protagonisti, parliamo del film. È girato per le strade, con una storia molto semplice che descrive la ricerca da parte dell’operaio Antonio Ricci, accompagnato dal figlio Bruno, della bicicletta che gli è stata rubata. Il tutto nell’arco di una domenica, su e giù per Roma. All’ufficio di collocamento Antonio trova un lavoro da attacchino municipale; unica condizione deve avere una bicicletta, ma la sua l’ha impegnata. La moglie toglie alcune lenzuola dal letto, le impegna a sua volta al Monte di pietà per riscattare la bicicletta. Al mattino Antonio, seguito dal figlio Bruno che lavora in un distributore, inizia la sua nuova occupazione. Mentre attacca un manifesto, un giovane gli ruba la bicicletta. Antonio si reca al commissariato per denunciare il furto, di fronte all’indifferenza dei funzionari capisce che l’unica possibilità è di mettersi a cercarla da solo. Il giorno dopo Antonio, l’amico Baiocco e alcuni netturbini (tutti gli attori sono non professionisti) iniziano la ricerca prima a Piazza Vittorio, poi a Porta Portese, dove di solito vengono portati gli oggetti rubati. Ma la bicicletta non si trova. Sotto un improvviso acquazzone scorge il ladro, che sta parlando con un vecchio. Il ladro si dilegua, ma Antonio raggiunge il vecchio, che nega. Il vecchio si reca in una chiesa, dove le signore della buona società romana distribuiscono un pasto caldo ai poveri dopo una funzione religiosa. Approfittando di un momento di confusione, il vecchio sparisce. Ad Antonio viene allora in mente la «santona» da cui era andato con la moglie, quella gli dice: «O la trovi subito o non la trovi più». Uscito fuori, si imbatte di nuovo nel ladro, che prima si rifugia in un bordello, poi in un quartiere malfamato; grida per attirare l’attenzione degli amici, poi si fa venire le convulsioni. Bruno corre a chiamare un carabiniere che, in mancanza della bicicletta e di testimoni a suo favore, non fa nulla. Ad Antonio non resta che allontanarsi, tra gli insulti della folla. Disperato, nei pressi dello stadio ruba una bicicletta incustodita; alcune persone lo bloccano, ma viene lasciato libero per le lacrime di Bruno. Anche il volto di Antonio è segnato dalle lacrime; Bruno prende la mano del padre e s’incamminano, ripresi di spalle, in mezzo alla folla indifferente dei tifosi, mentre scendono le ombre della sera.
La sceneggiatura è firmata da De Sica, Zavattini, Suso Cecchi D’Amico, Oreste Biancoli, Adolfo Franci, Gerardo Guerrieri. Il lavoro principale e le idee migliori sono di Zavattini, che forma con De Sica uno dei sodalizi più lunghi e produttivi della storia del cinema mondiale. Sono veramente poche le unioni durature tra regista e sceneggiatore: Ėjzenštejn – Aleksandrov, Renoir – Spaak, Carné – Prevert, Rossellini – Amidei, Wilder – Diamond, Visconti – Cecchi D’Amico, Monicelli – Age & Scarpelli, Pontecorvo – Solinas. La coppia De Sica – Zavattini in trent’anni di collaborazione ha realizzato una ventina di film.
Antonio e la sua storia raccontano l’immagine dell’Italia nel 1948: il paese è spaccato in due tra Democrazia cristiana e Fronte popolare, mentre inizia in Europa e nel mondo la guerra fredda. Nel film vi sono episodi e personaggi che riflettono tale situazione: il commissariato di polizia con i reparti della celere che partono con le camionette verso un comizio, la riunione sindacale nello scantinato, le dame della San Vincenzo che offrono un pasto caldo ai diseredati.
De Sica, non convinto del valore del film, va a Torino per mostrarlo a Gromo, che racconta su «La Stampa»[6]:
È un film schietto, semplice, umano e «nostro» come pochi. È uno scorcio di vita romana, dei quartieri popolari, in questi anni difficili. La disoccupazione è l’incubo di molti, di troppi […] Tutto il piccolo mondo delineato in un racconto sempre sobrio e commosso, con al centro questo ragazzino di sette anni, questo piccolo Bruno che, con due occhi sgranati segue il padre negli inizi della grande avventura che darà «da magnà» ogni giorno […] – Ti piace? – Molto.
Antonio Ricci è molto magro, con le ossa che spuntano, ma la cosa che lo rende unico per quel ruolo è la sofferenza profonda del suo viso, che esprime tensione e dubbi, lo sguardo è timido, gli occhi sono buoni, la camminata è incerta. La sua desolazione deriva da un lungo tempo di disoccupazione, in cui ha dovuto impegnarsi anche le lenzuola: ora che un lavoro c’è, gli rubano la bicicletta e ripiomba nello sconforto. Non trova neppure il coraggio di dirlo alla moglie e al figlio. La sua onestà viene esaltata, quando alla fine è conteso tra le regole dei suoi principi morali e la disperazione che gli fa rubare una bicicletta.
Nella sceneggiatura si era prospettata l’ipotesi del suicidio di Antonio (come già per il finale di Sciuscià), ma viene scartata. La fragilità dei sentimenti si manifesta nell’episodio del ragazzo caduto nel Tevere: è spaventato dall’idea che possa essere Bruno, a cui poco prima ha mollato un ceffone. Antonio a volte non ha una personalità spiccata: è la moglie che prende la decisone di impegnare le lenzuola per riscattare la bicicletta; nella trattoria dice a Bruno: «Mangia va, che a tutto si rimedia… a tutto, tranne che alla morte».
Bruno invece è l’alter ego del padre, a suo modo è un protagonista: è franco e deciso, sa come affrontare le situazioni, malgrado la giovane età. Sembra un attore professionista. Sostiene infatti Aristarco su «Cinema»[7]:
Può darsi che il vero protagonista sia Bruno; e del resto De Sica ha una spiccata simpatia per i più piccoli e gli adolescenti […] Ma è indubbio che Bruno nasce, come personaggio, dai suoi rapporti psicologici e umani col padre, e viceversa: e che da questo rapporto deriva la vitalità del film.
Non bisogna dimenticare i personaggi secondari, minori, che compaiono, scompaiono e ricompaiono in situazioni diverse, come il ladro, quelli nello squallore del commissariato di polizia, gli operai alla riunione sindacale, gli attori dilettanti che provano nello scantinato, Baiocco e gli altri netturbini, i seminaristi stranieri, il mondo eterogeneo dei mercati romani, la religiosa attività delle signore bene e dei diseredati al pranzo dei poveri, i clienti della pizzeria, la «santona» e le sue clienti, le «signorine» della casa di tolleranza, gli amici del ladro nel quartiere malfamato, i volenterosi occasionali che rincorrono Antonio. Ognuno, con la sua partecipazione, compone il grande mosaico del film.
Protagonista fondamentale è la bicicletta, che De Sica rende quasi umana: è un oggetto di non grande valore economico, un comune mezzo di trasporto per tanti, uno strumento di lavoro indispensabile per Antonio, un’immagine che perseguita ossessivamente lo spettatore dall’inizio alla fine. Senza biciclette non c’è lavoro. La bicicletta è sempre presente: viene riscattata, scompare, ricompare, scompare di nuovo; molte volte da sola, a decine, intere o a pezzi (campanelli, fanali, pedali, manubri, selle), smontate o verniciate, nuove o usate, nei mercati, a centinaia quelle dei tifosi davanti allo stadio. Ed è proprio questa visione che spinge Antonio a rubarne una, dopo un alternarsi drammatico di suoi primi piani, che rappresentano visivamente la lotta nel suo animo tra i suoi principi morali e la necessità di avere una bicicletta, fonte di sostegno per un lavoro ottenuto dopo molto tempo. «Lei non sa cosa rappresenta per me quella bicicletta», dice Antonio. La bicicletta è dunque un simbolo, un’icona, come il cavallo bianco Bersagliere di Sciuscià.
Altra protagonista è la città di Roma, esaltata e trasfigurata dalla fotografia di Carlo Montuori. Non è però la Roma turistica dei dépliant pubblicitari, delle cartoline illustrate, dei monumenti. È una Roma meno conosciuta, popolare, molto vera. Le sue strade e le sue piazze spesso deserte, scarse le automobili e gli autobus, rade le persone che non siano interessate al racconto, è quasi una città fantasma. Edifici giganteschi di periferia alternati a spazi incolti e sassosi, le rive del Tevere con i suoi ponti, il Monte dei pegni con le panoramiche dal basso all’alto, seguendo il percorso delle lenzuola impegnate. La periferia è disadorna e triste nei suoi palazzi, Trastevere non è quello spensierato dei turisti, i negozi sono pochi, le condizioni del quartiere del ladro miserrime, l’abitazione ai limiti dell’abitabilità. Il manifesto dai colori sgargianti di Gilda con Rita Hayworth crea un contrasto con il grigiore generale di tutto l’ambiente. Sotto un improvviso e violento acquazzone l’incontro fortuito con un gruppo di seminaristi stranieri, che parlano una lingua sconosciuta, rimarca l’indifferenza verso la disperazione di Antonio.
In mezzo al dramma vi sono anche momenti meno tristi, quasi sereni, come il primo giorno di lavoro con Bruno che lucida la bicicletta, con la moglie che cuce il berretto e prepara il panino per il pranzo; la scena del figlio che fa la pipì, quella della trattoria in cui Bruno mangia con le mani, guardato con alterigia dal bambino ricco con forchetta e coltello. È un film sulla solitudine e sulla disperazione di un uomo. Soprattutto, è la storia di un legame tra un padre e un figlio, cementato da una domenica vissuta fianco a fianco.
Sciuscià si conclude con la morte di un protagonista e la disperazione dell’altro, non lascia nessuna speranza. Invece Ladri di biciclette ha una conclusione meno drammatica: lo spettatore può pensare che recupererà una bicicletta, fidando delle parole di Antonio, «A tutto si rimedia…». Forse impegnerà qualche altro oggetto di casa al Monte di pietà, o potrà ricorrere all’aiuto di una sezione del partito, come voleva Amidei. Bazin tuttavia osserva che «il sindacato non è fatto per ritrovare le biciclette ma per modificare il mondo in cui la perdita di una bicicletta condanna l’uomo alla miseria»[8]. Aristarco conclude che siamo certi che una bicicletta, comunque, si troverà.
Il film esalta la teoria zavattiniana del «pedinamento del personaggio», per cui la macchina da presa segue da vicino i protagonisti, quasi un’indagine poliziesca. La trama del film è inesistente, si può raccontare in una riga: un operaio passa la domenica a Roma cercando invano la bicicletta che gli hanno rubato. Il racconto è scarno e piatto, si svolge in non più di tre giornate, senza che venga concesso nulla allo spettacolo: non ci sono storie d’amore, né colpi di scena inaspettati. Antonio non risulta iscritto ad alcun partito, non è un rivoluzionario, non partecipa a cortei, è un elemento comune. Aristarco con espressione felice parla di «semplicità del racconto», ed è la premessa all’osservazione di Bazin:
La riuscita suprema di De Sica è di aver saputo trovare la dialettica cinematografica capace di superare la contraddizione dell’azione spettacolare e dell’avvenimento. In ciò Ladri di biciclette è uno dei primi esempi di cinema puro. Niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena, cioè finalmente nell’illusione estetica perfetta della realtà: niente più cinema[9].
Pietro Bianchi commenta su «Filmcritica»[10]: «È un capolavoro fatto di nulla, tra il primo Clair e il secondo Chaplin, pieno di delicate osservazioni d’ambiente, di trovate d’atmosfera: una elegia nata sotto il segno della grazia, e che sarà difficile ripetere». Definitivo il giudizio di Billy Wilder: «È un capolavoro da vedere con il cappello in mano».
In C’eravamo tanto amati di Ettore Scola (1974) viene raccontato un aneddoto sul film di De Sica: il regista, per far piangere Bruno, gli mise in tasca alcune cicche e gli disse che era un «ciccarolo», cioè uno che raccoglieva le cicche per rivendere il tabacco. Nel 1949 Ladri di biciclette fece incetta di Nastri d’argento: miglior film, miglior regia, miglior soggetto, miglior sceneggiatura, miglior fotografia, miglior colonna sonora. Nel 1950 ottenne l’Oscar come miglior film straniero e una nomination per Zavattini come soggetto non originale. Grande entusiasmo suscitò a Parigi la proiezione per i professionisti del cinema: racconta De Sica che René Clair l’abbracciò, singhiozzando. Con i proventi all’estero, il regista riuscì a pagare tutti i debiti di Sciuscià.
Note [1] N. 11, 25 maggio 1948. [2] In F. Faldini – G. Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano, Feltrionelli, Milano 1979. [3] 6 febbraio 1948. [4] In Faldini – Fofi, L’avventurosa storia, cit. [5] V. De Sica, Gli anni più belli della mia vita, «Tempo», n. 50, 16 dicembre 1954. [6] 17 novembre 1948. [7] N. 7, 30 gennaio 1949. [8] Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1973. [9] Ivi. [10] N. 6-7, giungo-luglio 1951.
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Gian Franco Roggero, farmacista con la passione per il cinema, colleziona libri e riviste sul Neorealismo. Possiede una delle più ricche biblioteche italiane sul tema.
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