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Laboratorio pandemia. Genere, riproduzione, spazio domestico



Mettendo al lavoro il metodo di una critica femminista che parte da Marx per andare oltre, Claudia Borgia e Gabriella Palermo guardano alle trasformazioni della sfera riproduttiva accelerate dalla pandemia. Richiamano un processo complessivo di ristrutturazione della riproduzione che investe lo spazio domestico e il suo esterno, il lavoro salariato e quello non retribuito.

Nella complessità delle trasformazioni in atto, scelgono di indagare due aspetti specifici: «le implicazioni politiche e sociali di una pandemia del tutto scaricata sui cosiddetti lavori essenziali» e «le conseguenze del doppio carico di lavoro sulle spalle delle donne, divenuto estenuante». A partire da qui individuano alcune linea di analisi da sviluppare in avanti.


Immagine: Anonimo


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La ristrutturazione della riproduzione

Questo contributo raccoglie una riflessione collettiva, in un’ottica politica e militante [i], sulle trasformazioni della sfera (ri)produttiva, alla luce della fase pandemica e della sua gestione economica, sociale e politica che sta disciplinando le nostre vite da più di un anno. La riflessione prova a mettere a lavoro l’idea di un «femminismo marxista della rottura» che cala la pratica teorica nella materialità dei rapporti sociali e delle forme di esistenza per portare l’analisi e la lotta continuamente avanti, dentro i processi di trasformazione del capitale. L’occasione della ripubblicazione e rilettura del testo Oltre il lavoro domestico di Lucia Chisté, Alisa Del Re, Edvige Forti del 1979 [ii], è stata in questo senso utile per tracciare un ragionamento sull’oggi. Il testo ha di certo il merito di aver fatto strada al pensiero che tra il lavoro produttivo e riproduttivo, entrambi ugualmente immersi nel processo di valorizzazione, esista non soltanto una connessione ma una assoluta contiguità; inoltre, emerge da quella riflessione quanto il lavoro riproduttivo sia «così intimamente compenetrato con il modo di produzione capitalistico, che si modifica con il modificarsi dei processi produttivi» [iii] e si trasforma di pari passo con le relazioni di potere del capitale.

Nella fase attuale, la riproduzione assume dunque aspetti nuovi e per certi versi inediti, sia nel lavoro domestico che nei lavori di cura fuori dalla casa, come forma di lavoro non retribuito e di lavoro salariato – quasi sempre sottopagato, di sfruttamento massimo, a salari da fame. La riflessione attorno al nodo della riproduzione sociale ci ha condotte a confrontarci con le grandi strutture gerarchiche che organizzano il capitalismo e il suo sistema di disuguaglianze, esplose con evidente chiarezza durante la crisi del Covid-19. Una crisi nella quale i movimenti femministi e transfemministi hanno individuato le nuove forme di disciplinamento e dominio che fanno della gestione della pandemia un laboratorio di sperimentazione e di accelerazione per il capitale: una gestione di classe, fortemente gerarchizzata sugli assi del genere e della razza. Se infatti esiste un merito di questo nuovo virus frutto del capitalismo estrattivo che sta affannando le nostre vite, questo risiede proprio nell’aver reso maggiormente visibili le gerarchie su cui si muove il sistema produttivo e riproduttivo capitalista; gerarchie che chiaramente vivevamo già nella «normalità» e che adesso si sono espresse con estrema forza.

La crisi pandemica sta agendo da forte motore di trasformazione e ristrutturazione del lavoro produttivo e riproduttivo; nella complessità delle trasformazioni in atto, qui ci soffermeremo nello specifico su due fenomeni: da una parte le implicazioni politiche e sociali di una pandemia del tutto scaricata sui cosiddetti lavori essenziali; dall’altra le condizioni del lavoro riproduttivo e le conseguenze del doppio carico di lavoro che grava sulle spalle delle donne, divenuto nel corso di questo ultimo anno ancora più estenuante.


Essenziale è la lotta

A partire da marzo 2020, quando «l’eugenetica neoliberista» a guida Confindustria - intervenuta prepotentemente sulle politiche decisionali dello Stato - doveva decidere quali settori lavorativi sacrificare sull’altare del profitto, il paradigma del lavoro essenziale si è introdotto nella grammatica del discorso della gestione politica della pandemia. Un paradigma che ha agito come una forbice sul mondo del lavoro, condannando alcuni settori al disastro economico e alla bancarotta poiché ritenuti affatto necessari - soprattutto il mondo della cultura e della ristorazione - ed esponendo altri senza remore alla possibilità del contagio nel nome dell’essere essenziali - spesso pur trattandosi di settori affatto indispensabili, si pensi alle grandi fabbriche che si volevano aperte anche durante il lockdown più duro, tra le altre Piaggio o Fincantieri. Tra i lavori classificati come essenziali rientrano soprattutto quelli per la riproduzione sociale; lavori che, durante la pandemia, si sono palesati con maggiore chiarezza come i lavori più precari, sottopagati e sfruttati e la cui forza lavoro ha una forte connotazione di genere e di razza nella maggior parte del mondo, Italia inclusa.

La scelta linguistica non è chiaramente neutra: l’aggettivo essenziali fa riferimento alle priorità di produzione del capitale, alla ragion di profitto, disciplinando e gerarchizzando la società su un principio di essenzialità basato esclusivamente sulle necessità dei ritmi produttivi. La narrazione che ha accompagnato, e continua ad accompagnare, tale principio, si è costruita attorno a due figurazioni: quella degli eroi – volutamente al maschile, poiché termine riferito ad una figura di forza e di potenza capace di sfidare e vincere il male, per cui più raramente si è parlato di eroine – e quella degli angeli. Una narrazione questa, del sacrificio, della vocazione di cura, dell’atto volontaristico di voler donarsi agli altri, frutto di quel dominio e di quel disciplinamento che accompagnano il lavoro riproduttivo associato al lavoro femminile, antesignano per eccellenza dei lavori precari e non retribuiti. Lungo la gerarchia dell’asse del genere, emerge come il lavoro di cura, imposto e registrato come destino biologico, sia in realtà soltanto territorio per un maggiore sfruttamento, riaffermato anche nelle misure governative proposte per l’uscita dalla crisi nel Recovery Plan e nel Family Act. Nel primo, infatti, il problema dell’occupazione femminile viene risolto con l’autoimprenditorialità, nascondendo così l’impoverimento, lo sfruttamento e la precarietà femminile; nel secondo, invece, si avvalora ancora una volta la famiglia tradizionale patriarcale, dispositivo di oppressione di genere, da cui vengono totalmente escluse le donne migranti, poiché la loro fruizione è possibile solo se in possesso di un permesso di lungo periodo o di un contratto di lavoro di due anni [iv].

La decostruzione di tale narrazione è stata opera soprattutto delle donne e dei movimenti transfemministi che, nel lanciare lo sciopero globale per l’8 Marzo 2021, hanno scelto come slogan «Essenziale è il nostro sciopero, essenziale è la nostra lotta». Un’affermazione di rivendicazione politica che ha puntato al ribaltamento del discorso su ciò che è essenziale e su ciò che non lo è, insistendo sull’essere essenziale della lotta, per costruire percorsi di fuoriuscita dalla pandemia creati dalle comunità. In questo senso, lo sciopero transfemminista di quest’anno è stato, più che negli altri anni, una potente risignificazione che parla non soltanto di rifiuto e sottrazione, ma anche di visibilizzazione del lavoro quotidiano delle donne, «rompendo l’isolamento di muri domestici e simbolici» [v]. Lo sciopero dal lavoro produttivo e riproduttivo – ma anche dal consumo, dai generi e dei generi – sperimentato negli ultimi anni dal movimento internazionale Non una di meno, seppur probabilmente con ancora molti limiti, punta ad un radicale cambiamento della società. Un cambiamento in cui il transfemminismo, «lungi dall’essere l’ancella del capitale» [vi] – così come vorrebbe l’avanzata del femminismo liberale per la parità di dominio – diviene lo strumento tramite cui non soltanto rendere visibili le gerarchie essenziali al capitale, ma anche immaginare e costruire futuri alternativi possibili, in cui connettere le istanze delle lotte femministe, ecologiste, antirazziste e anticapitaliste globali.


La violenza di genere nella pandemia

I dati Istat pubblicati nel mese di febbraio 2021 restituiscono con chiarezza lo specchio di un sistema produttivo fortemente sbilanciato nella distribuzione e nel disciplinamento dei carichi di lavoro tra i generi. Tra novembre e dicembre 2020, 101 mila «unità» hanno perso il lavoro, di cui 99 mila sono donne, mentre nel confronto annuo hanno perso il lavoro 132 mila uomini e 312 mila donne. Questi dati ci parlano non soltanto di una fortissima crisi economica ed occupazionale creata dalla gestione della crisi pandemica ma anche di quanto il peso dell’emergenza sia stato scaricato, e pagato a caro prezzo, dalle donne. L’abisso che emerge da questo quadro è infatti dovuto da una parte al fatto che le donne sono in percentuale quelle maggiormente occupate in lavori precari, con contratti part-time, nel lavoro di cura e riproduttivo per l’appunto – senza contare il lavoro nero, escluso chiaramente dai dati Istat. Lavori che non sono rientrati nel blocco dei licenziamenti previsto per la pandemia (e da giugno 2021, quando anche questa misura protettiva giungerà al termine, i dati peggioreranno). Dall’altra, invece, è dovuto al fatto che molte sono state costrette a licenziarsi per l’assenza totale di servizi e di un welfare che permettesse loro di sostenere la condizione del doppio carico di lavoro, intensificato con la crescente sovrapposizione tra produzione e riproduzione create dall’emergenza pandemica. La condizione di «segregazione occupazionale» (ovvero la suddivisione del lavoro sulla base del genere) e di Shecession [vii] - nell’accezione anglosassone che indica la recession (recessione) dei mesi di pandemia scaricata prevalentemente sulle donne - viene aggravata da una relazione tossica con la tecnologia instaurata dalla pandemia e dall’assenza - o inaccessibilità - dei servizi.

Mentre le donne continuavano a lavorare, spesso da casa nelle forme del telelavoro, lavoro a distanza e smartworking – forme di lavoro su cui la pandemia ha agito da fortissimo laboratorio di sperimentazione e accelerazione – contemporaneamente si occupavano del lavoro domestico e di cura, spesso improvvisandosi anche insegnanti per i figli. Il doppio carico di lavoro - divenuto triplo durante la quarantena, a causa della chiusura delle scuole - ha chiaramente significato in alcuni casi la perdita o la rinuncia al lavoro per una vita in affanno, o, in alcuni casi, un calo di produttività rispetto agli uomini (come, ad esempio, nel caso della ricerca, dove la produzione scientifica femminile ha avuto un calo significativo rispetto a quella degli uomini). Inoltre, lo smartworking, che va letto nella sua complessità, si è rivelato nella maggior parte dei casi una forma di sfruttamento intensificato, con forme di automazione estremamente dure, l’estensione quasi totalizzante della giornata lavorativa - in cui le pause diventano ore di lavoro domestico - l’intensificazione dell’individualizzazione e conseguentemente della difficoltà dell’organizzazione tra lavoratrici e lavoratori. Se è vero che «la tecnologia non è mai liberazione dal tempo di lavoro, perché il lavoro non si libera mai se non come risultato delle lotte» [viii], la relazione tra automazione, tecnologia e lavoro deve tornare ad essere al centro delle lotte e dei movimenti che si pongono come obiettivo il ripensamento e il ribaltamento della società costruita nel nome del capitalismo estrattivo, nella sua produzione e riproduzione.


Genere e sanità

Pensare la dimensione sociale della riproduzione significa anche porre la questione dei servizi. Le lotte femministe degli anni Settanta, in particolare quelle che hanno agito (rompendo con il femminismo e il marxismo del tempo), il piano della lotta di classe sul terreno della riproduzione (tra cui il lavoro politico che Chistè, Del Re e Forti raccolgono nel volume richiamato) hanno contribuito notevolmente a spingere in alto la domanda sociale di servizi per la riproduzione di forza-lavoro. Nei decenni successivi a quel ciclo di lotte, si è però assistito ad una progressiva privatizzazione di molti di quei servizi conquistati, e le conseguenze di questo processo sono emerse in tutta la loro drammaticità durante la pandemia. Asili nido, mense e tempo pieno, centri sociali e centri antiviolenza, ma soprattutto consultori, ambulatori, punti nascita, servizi sociosanitari: la crisi pandemica ha scoperchiato il vaso di pandora dei servizi, svelandone l’insufficienza e l’inefficienza. Inoltre, in quanto laboratorio di sperimentazione, la pandemia è stata utilizzata anche come strumento di aggressione ai servizi esistenti, con il tentativo di colpirli per una ristrutturazione dei diritti sin qui conquistati.

Tale processo è emerso in modo più evidente soprattutto per ciò che concerne la salute, rendendo visibili le diverse forme di violenza del capitale attorno al nesso genere e sanità. Di fronte al collasso del sistema sanitario si è trovato ad esempio terreno fertile per limitare fortemente l’accessibilità al diritto all’aborto, i reparti ospedalieri di maternità e ginecologia sono stati convertiti in reparti di terapia intensiva per pazienti Covid (come nel caso dell’ospedale Cervello di Palermo), sono diminuiti i punti nascite, i consultori, gli ambulatori.

L’illusione secondo cui il virus colpisce in modo imparziale cede definitivamente di fronte alle discriminazioni classiste, sessiste e razziste che si manifestano nelle possibilità di accesso alle cure. D’altronde, la medicina e la connessa ricerca scientifica continuano ad essere basate su un cluster maschile, sotto-rappresentando o ignorando gli effetti che un determinato trattamento potrebbe avere sui corpi delle donne. In un recente articolo, l’immunologa Antonella Viola ha sostenuto come la maggior parte degli studi preclinici coinvolgano prevalentemente gli uomini a causa della variabilità degli effetti nelle donne, mentre negli studi clinici si giunge a volte alle fasi più avanzate di sperimentazione senza dati solidi sull’efficacia o sugli effetti collaterali di un farmaco nella popolazione femminile. Il virus Covid-19 «ci ha mostrato chiaramente quanto il genere incida sulla risposta al virus, con gli uomini che corrono rischi maggiori di malattia severa e di morte rispetto alle donne. […] Anche nel caso dei vaccini anti-Covid19, gli effetti collaterali, da quelli più lievi a quelli più gravi, riguardano prevalentemente la popolazione femminile. Ecco perché sarebbe molto importante che negli studi clinici si analizzassero i dati di sicurezza ed efficacia separandoli sulla base del genere, cosa che invece non accade» [ix]. La pandemia ha dunque mostrato il volto di una disciplina medica intrisa di relazioni di potere, da cui i corpi delle donne sono esclusi, marginalizzati o rappresentati come specchio di quelli maschili [x]. Una storia affatto nuova, le cui radici, al contrario, sono antiche e profonde. Nella sua magistrale produzione, Michel Foucault analizzava la clinica, le prigioni, la follia, la sessualità come costruzioni sociali e l’organizzazione dei saperi di tali costruzioni come espressione di rapporti di potere e di tecnologie di controllo. Non fa eccezione la sanità, la cui genealogia è strettamente interrelata alla violenza del sistema patriarcale: ne sono esempio l’uso dell’isteria come dispositivo di disciplinamento, la violenza ostetrica o i metodi di fondazione della ginecologia moderna [xi].

La violenza di genere connessa alla sanità continua ad essere un nodo centrale del sistema patriarcale, non soltanto nella continuità epistemica di alcune discipline, ma anche per l’attacco ai servizi e ai diritti riproduttivi. In quanto lotta per la «determinazione di condizioni materiali e fondamentale volontà politica di far riferimento a una qualità complessiva della vita» [xii], la questione dei servizi si pone immediatamente dentro i processi di trasformazione del capitale. Una lotta che dunque riguarda da una parte la possibilità di ribaltare le attuali modalità di disciplinamento e gerarchizzazione che riguardano le nostre intere esistenze, dai corpi ai territori; dall’altra la possibilità di ripensare a nuove forme di cooperazione e nuove relazioni di cura. Da questo punto di vista, le pratiche di lotta di riappropriazione dei saperi e socializzazione delle cure sanitarie [xiii] praticano immediatamente l’obiettivo dei servizi sanitari svincolati dalle logiche del capitale e di una giustizia riproduttiva che si pone «il ripensamento sociale dei servizi, per un sistema sanitario gratuito, universale e non orientato al profitto, assieme alla fine di pratiche eugenetiche e razziste nella professione medica» [xiv]. Queste pratiche di riappropriazione e socializzazione tracciano un percorso di lotta sul ripensamento della questione dei servizi che si muove su un doppio binario: la necessità di preservare ciò che sino a qui è stato conquistato, ma soprattutto di rivoluzionarne, gestirne e controllarne il funzionamento.


Note sullo spazio domestico

Un altro elemento emerso con forza in questi mesi di pandemia riguarda una rinnovata centralità del domestico. Alla fine degli anni Settanta, il paradigma cosiddetto postfordista ha portato con sé non soltanto il modello della città-fabbrica, ma anche nuove trasformazioni del lavoro produttivo e riproduttivo, con una forte impennata di automazione, frammentazione e individualizzazione del lavoro, distribuite tra lo spazio urbano e lo spazio domestico. Come abbiamo ripetuto spesso nel corso di questo articolo, così come ogni crisi, la pandemia del Covid-19 sta funzionando da grande laboratorio di sperimentazione per il capitale. Ciò non ha riguardato soltanto la grande accelerazione tecnologica e i processi di gerarchizzazione basati sul concetto di lavoro essenziale già richiamati. Ha interessato i rapporti di potere che disciplinano la rigorosa divisione spaziale tra l’urbano e il domestico. Detto altrimenti, nel corso di questo ultimo anno, il capitale ha inglobato, con maggior forza e violenza, la nostra intera esistenza all’interno del suo ciclo di (ri)produzione, così come emerge dalla (ri)organizzazione dello spazio urbano e domestico.

La sfera domestica nella quale siamo stati costrette a rinchiuderci ha fatto emergere la casa come luogo di grandi differenze e disuguaglianze, a causa della distribuzione diseguale della vulnerabilità, della dimensione privata – e spesso violenta – della quarantena e del distanziamento sociale come paradigma di privilegio. Un privilegio poiché per le donne la casa è uno spazio in cui la violenza di genere agisce su diversi livelli, non soltanto in quanto spazio di lavoro di cura non retribuito – e adesso anche di quello salariato – e di sfruttamento patriarcale, ma anche in quanto luogo di violenza domestica [xv]. Se per alcuni le case sono state fortini sicuri in cui proteggersi dal contagio, per molte donne sono state spesso delle prigioni da condividere con compagni, mariti, padri e fratelli violenti. Sempre secondo il rapporto Istat, nel 2020 si è registrata la media di un femminicidio ogni tre giorni e le violenze domestiche subite durante la quarantena sono aumentate notevolmente [xvi].

Oggi la sovrapposizione tra produzione e riproduzione trova il suo centro nevralgico nello spazio domestico, dove, a causa delle restrizioni per la gestione della pandemia, ciò che sta avvenendo è una progressiva cancellazione del confine tra tempo di vita e tempo di lavoro e dove emerge, con tutta la sua violenza, la pluridimensionalità della vita precaria (che tipo di abitazioni? Con quante persone si condivide lo spazio domestico? È possibile suddividere dentro la casa lo spazio dedicato al lavoro e lo spazio dedicato alla vita?). Il modello di produzione e sfruttamento ha invaso le nostre case e totalizzato le nostre esistenze, trasformando le nostre abitazioni in luogo di lavoro, produttivo e riproduttivo.

Se oggi più che mai la casa torna ad essere laboratorio per il capitale, è necessario riportare lo spazio domestico ad essere spazio dei conflitti, ripartire da quello spazio di sfruttamento individualizzato e violento per rompere l’isolamento dentro cui il capitale - e adesso la gestione pandemica - ci stanno costringendo. La lotta per la risignificazione politica dello spazio domestico deve partire necessariamente da un ripensamento e da una re-immaginazione dei processi di cura che rompano con la mercificazione e l’individualizzazione portate avanti dal capitale per costruire invece nuove forme di esistenza, di convivenze e di relazioni che ribaltino la famiglia patriarcale capitalista per la costruzione di nuove «parentele» [xvii]. Sulla base di tale principio è possibile dar corpo ad una comunità di cura basata sulla collettivizzazione di competenze, beni e risorse; sulla socializzazione del lavoro di cura e la protezione reciproca dei corpi dalla violenza nella sua multidimensionalità; sull’organizzazione collettiva del rifiuto della valorizzazione capitalista nella totalità delle nostre esistenze.

Le forme di mutualismo e di organizzazione dal basso che hanno preso corpo durante questi mesi di pandemia sembrano aver tracciato un primo sentiero di lotta percorribile, con pratiche che parlano della possibilità di «trasformazione della cura in una pratica e un principio organizzativo sulla base del quale possono e devono sorgere nuove politiche» [xviii]. Tra queste rientrano di certe le diverse esperienze di mutualismo organizzate dai movimenti e dai presidi autorganizzati nei territori o la costruzione di percorsi collettivi di fuoriuscita dalla violenza domestica. Inoltre, le pratiche di esproprio nei supermercati, come quello organizzato dalle donne a Livorno [xix], sono esemplificative della possibilità di costruire pratiche di riappropriazione collettiva che partono dalla consapevolezza delle necessità e dei bisogni dentro lo spazio domestico.

Nostro compito è dunque far sì che lo spazio domestico torni ad essere spazio di resistenza o rifiuto della valorizzazione capitalista; lo spazio in cui «tornare a rinnovarci e a curare noi stessi, dove guarire dalle nostre ferite e tornare interi» [xx]; in cui sovvertire il dominio e riposizionarsi da oggetti di oppressione a soggetti di resistenza.

Contro un virus del capitalismo estrattivo che sta affannando le nostre vite, abbiamo bisogno di costruire futuri alternativi possibili di fuoriuscita dalla pandemia in cui il paradigma dell’essenzialità del capitale venga ribaltato e costituito invece attorno alla lotta di corpi, saperi, territori, movimenti, tanto nello spazio pubblico quanto nello spazio domestico.


Note [i] Questo articolo raccoglie in nuce le riflessioni portate avanti dal nodo di Palermo di Non una di Meno. [ii] L. Chisté - A. Del Re - E. Forti, Oltre il lavoro domestico. Il lavoro delle donne tra produzione e riproduzione, Ombrecorte, Verona 2020. [iii] Ivi, p. 30. [iv] Non una di meno, Report gruppo lavoro, 4 Febbraio 2021, https://nonunadimeno.wordpress.com/2021/02/04/report-tavolo-lavoro/ [v] C. Aruzza, T. Bhattacharya, N. Fraser, Femminismo per il 99%. Un manifesto, Gius. Laterza & Figli, Bari-Roma 2019, p. 10. [vi] Ivi [vii] https://www.ansa.it/canale_lifestyle/notizie/societa_diritti/2020/10/10/shecession-il-rischio-recessione-delle-donne-per-la-pandemia_d328d807-a4df-4714-b4f1-07b03c049e3b.html [viii] L. Chisté, A. Del Re, E. Forti, op.cit., p. 38. [ix] https://www.lastampa.it/topnews/lettere-e-idee/2021/04/20/news/se-la-ricerca-ignora-la-differenza-di-genere-1.40172989 [x] L. Irigaray, Speculum. L’altra donna, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1975 [1974]. In questo libro, Luce Irigaray sottolinea inoltre come lo strumento principale della ginecologia, lo speculum, sia uno strumento che ingloba in sé i saperi e i poteri di questa tecnologia di controllo ed è appunto metafora del modo in cui l’identità femminile sia stata costruita come specchio di quella maschile. [xi] Si veda in particolare l’operato di James Marion Sims, considerato il fondatore della ginecologia moderna, e al profondo razzismo e sessismo dei suoi studi sperimentali sul corpo delle donne nere. [xii] L. Chisté, A. Del Re, E. Forti, op.cit, p.62. [xiii] Tra le esemplificazioni di tali pratiche di lotta rientrano ad esempio la proposta di ginecologia decolonizzata del collettivo spagnolo GynePunk, o le realtà degli ambulatori popolari autogestiti, come quella dell’Ambulatorio di quartiere Borgo Vecchio di Palermo, in cui Non una di meno gestisce il «reparto» ginecologico offrendo visite, controlli e consulti gratuiti. [xiv] C. Aruzza, T. Bhattacharya, N. Fraser, op.cit, p. 18. [xv] Sulla natura dello spazio domestico si veda, tra le altre, G. Rose, Feminism and Geography. The Limits of Geographical Knowledge, Polity Press, Cambridge, 1993. [xvi]https://www.ilsole24ore.com/art/la-pandemia-violenza-piu-donne-uccise-meno-denunce-ADSwyn3 [xvii] D. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma, 2019. [xviii] Nota di Naomi Klein su The Care Collective, Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza, Edizioni Alegre, Roma, 2021. [xix] https://www.ildesk.it/attualita/livorno-20-mamme-organizzano-esproprio-proletario-questa-spesa-la-paga-il-comune-ed-escono-dalla-coop-senza-pagare-la-merce-nei-carrelli/ [xx] b. hooks, Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1998, p.35.

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