Giorgio Agamben e la forma-di-vita

Lorenzo Mizzau riflette sul libro di Evelina Praino, L'uso di sé (Orthotes 2023) che ripercorre l'opera di Agamben cercando di individuare una exit strategy etica dal neoliberalismo attraverso il concetto di forma-di-vita.
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Perché il fine sia l’origine, la nascita di una comunità-specie realizzata, la nascita continua della presenza coerente, l’affermazione dell’essere inoggettivo, la soggettività vivente al di là dell’avere. Dell’avere un Io, dell’avere una madre, un padre, dell’avere dei figli, dell’aversi, del possedere.
Affinché abbia fine la perdita, infine.
Giorgio Cesarano
Talvolta un istinto sicuro ci mette di fronte a una circostanza brutale: la vita ci sfugge tra le mani. O, meglio, ci è già sfuggita. Ha lasciato il suo luogo proprio, o, forse, è stata trascinata via.
Lo testimonia l’imbarazzo che proviamo quando, alla richiesta di un vecchio amico di metterlo al corrente dei fatti salienti della nostra vita recente, non possiamo che rispondere con un piatto resoconto, in tutto e per tutto simile a un CV. In occasioni simili, nasce in noi il sospetto che il curriculum vitae (letteralmente: il corso-di-vita) abbia sostituito in ogni aspetto il corso della nostra vita.
Ma non è solo la nostra vita a sfuggirci: altrettanto sfuggente, in pieno capitalismo cibernetico, è la vita degli altri, la vita del mondo. Al punto che la FOMO, fear of missing out, la paura di rimanere tagliati fuori dal mondo e di perdersi l’essenziale, potrebbe oggi nominare il tratto centrale del soggetto neoliberale. Ciò che, nella FOMO, siamo terrorizzati di mancare, è forse anzitutto l’appuntamento con noi stessi. Ma ciò significa che, nella FOMO, il soggetto neoliberale diventa qualcosa come il luogo di un appuntamento mancato: il luogo della vita che manca la vita, che si sottrae a sé – il luogo della vita privata. È qui che si palesa un’ambivalenza sottile: che rapporto c’è, infatti, tra la vita privata e la vita pubblica? Non è forse, la vita privata, ciò che rimane quando alla vita è sottratta la sua intrinseca qualità politica? Non è, forse, ogni vita privata, una vita mutilata, spogliata di sé – una nuda vita?
All’alba della rivoluzione microelettronica che avrebbe inaugurato la svolta cibernetica del capitalismo, Guy Debord, con la consueta, profetica chiarezza, riconosceva senza mezzi termini proprio nella vita quotidiana il campo di battaglia e, insieme, la posta in gioco della vera politica. «La vita privata – si chiedeva Debord –, è privata di che? Semplicemente della vita, che ne è crudelmente assente». A sessant’anni dalla sua formulazione, questa caustica diagnosi non sembra aver perso nulla della sua attualità. Tanto che la disinvoltura con cui Giorgio Agamben ha posto in apertura al suo L’uso dei corpi (2014) un’enigmatica postilla sulla fatale attrazione di Debord per il nucleo genuinamente politico che la sua vita privata doveva, ai suoi occhi, custodire, non può davvero sorprendere.
Tale nucleo, il segreto punto di coincidenza di privato e politico, quotidiano e storia, prassi e teoria è infatti ciò che Agamben, nel - e oltre il - ventennale progetto di Homo sacer (1995-2015), ha chiamato «forma-di-vita»: il luogo insospettato dove risiede l’«arcano della politica», un arcano «così intimo e vicino che, se cerchiamo di afferrarlo, ci lascia fra le mani soltanto l’inafferrabile, tediosa quotidianità».
Ma che cos’è una forma-di-vita? A ben guardare, la monumentale produzione che Agamben ci ha consegnato nel corso di mezzo secolo, non è che una esemplare variazione su questo tema. È questa l’ipotesi da cui Evelina Praino, in L’uso di sé. Archeologia della forma-di-vita (Orthotes, 2023), prende le mosse.
Lettrici e lettori di Agamben, ormai, saranno familiari con le latenze, le deviazioni, le interruzioni e le riprese che segnano lo sviluppo e il precisarsi del suo arsenale teorico e politico. Tanto più notevole è, allora, l’esercizio di Praino, che, dagli anni Settanta e Ottanta agli anni Dieci, attraversa l’intera parabola del pensiero agambeniano seguendo il fil rouge della forma-di-vita. Con l’Uso di sé, mentre le opere di Agamben si trasformano in un vero e proprio archivio, la forma-di-vita si precisa come la più feconda tra le sue linee di attualizzazione.
Fin dalle prime pagine del libro, appare a chiare lettere il compito che Praino si pone. Troppo spesso l’impresa di Agamben è stata derubricata come «impolitica». E troppo spesso, d’altro canto, si è circoscritto alle sole pagine di Homo sacer (1995-2015) il tratto politico del suo pensiero (p. 20). Ma, così facendo, il rischio è di mancare il nucleo del pensiero agambeniano. In effetti, ciò che Agamben, mettendo a punto la nozione di forma-di-vita, ha inteso revocare in questione, è precisamente ciò che la tradizione dell’Occidente ci ha trasmesso sotto il nome di politica. In gioco, nella forma-di-vita, è propriamente la dislocazione della vita e della politica al di là (o, piuttosto, al di qua) della separazione e della sacertà a cui l’Occidente le ha condannate. Occorrerà, allora, come fa Praino, ripercorrere da cima a fondo l’immenso archivio di Agamben, scovando le tracce della forma-di-vita proprio là, dove meno si penserebbe di andarle a cercare: nelle sue zone più opache, più «impolitiche». Occorrerà, in altre parole, indagare la sua opera «oltre Homo sacer», come recita l’Introduzione.
Già in Stanze, del 1978, Praino vede in azione il peculiare ingranaggio che, in Il potere sovrano e la nuda vita (1995), Agamben avrebbe posto al cuore della macchina ontologico-politica dell’Occidente: il bando sovrano. Tale archi-relazione assume, qui, i lineamenti inconfondibilmente heideggeriani di un «differimento originale della presenza» che coinvolge, insieme, essere e linguaggio. È l’operazione spettrale attraverso cui il linguaggio e l’essere, svanendo e occultandosi, lasciando soltanto la traccia di sé, istituiscono il piano di significazione a cui è assegnato il vivente. Al centro della significazione, dunque, vi è un paradosso. Che ne è, infatti, del vuoto di significazione, del «nascondimento dell’essere» che ne rende possibile la manifestazione e il significato? Non è forse il linguaggio, «la casa dell’essere», una casa infestata?
Che l’ontologia occidentale, in quanto appende la possibilità del linguaggio a un vuoto di significazione, sia propriamente, secondo il motto di Derrida, una «hauntologia», è precisamente l’ipotesi che Agamben non cesserà mai di giocare contro la tradizione politica e metafisica dell’Occidente, verificandola – come dimostra Praino – lungo l’intero corso della sua opera.
Solo che non basta esibire il Nulla che si annida nell’Essere, la Traccia che si nasconde nella Voce, la Morte che alberga nella Vita. Decostruire la metafisica non è sufficiente per oltrepassarla. Occorre, piuttosto, smantellare la macchina che la governa, destituirla. Per Agamben, l’«errore» della metafisica – scrive Praino – sta proprio «nell’aver pensato di superare il problema della negatività attraverso la sua esposizione». È per questo che il progetto di Agamben va inquadrato come «una ricerca che, a partire dall’origine della politica occidentale, per cui un’esperienza primaria è sempre intrappolata nella significazione, la liberi, sfuggendo entrambi i termini della relazione» (p. 28).
In questo modo, orientando «i molteplici studi di Agamben intorno a un asse ontologico-linguistico» (p. 250), Praino ha buon gioco nel mostrare che, se, nella prospettiva agambeniana, la politica dell’Occidente ha potuto rovesciarsi in una tanato-politica, è soltanto perché la sua grammatica, la sua logica è già una tanato-logica. La «comunità della morte» – che, giusta la diagnosi di Roberto Esposito, denomina l’esito ultimo, il margine impolitico della politica moderna – si regge, dunque, su ciò che potremmo chiamare una communicatio mortis: un fatale commercio con la morte, veicolato dalle nostre strutture comunicative. «Il linguaggio – dichiarava Agamben a Sofri nell’85 – è il comune che lega gli uomini. Se questo comune è concepito come un presupposto, diventa qualcosa di irreale e inattingibile, di cui il singolo non può mai venire a capo, che lo si concepisca come nazione, lingua o razza. Qualcosa, cioè, che è già stato e, come tale, può esistere nella forma di uno Stato. L’unica esperienza politica autentica sarebbe invece quella di una comunità senza presupposti, che non può mai decadere in uno stato».
Tale esperienza politica, finalmente slegata dal mortifero meccanismo della presupposizione, è la forma-di-vita: una vita per la quale, nel suo modo di vivere, ne va del vivere stesso; una vita che, nel suo linguaggio, ha messo in gioco la sua politica e il suo essere. Insomma, la vita di un vivente che, proprio nella misura in cui non è legato a una comunità da questa o quella proprietà, può accedere al vero comune che è «la pura comunicabilità» (p. 131) attraverso la peculiare operazione di destituzione che Benjamin, in una celebre lettera a Scholem, chiamava «la purissima eliminazione dell’indicibile nel linguaggio».
Una simile eliminazione non apre, però, a qualcosa come un continuum linguistico senza salti, come tale altrettanto mitico e mortifero della fondazione «sigetica» della comunicazione e della comunità su un non-comunicabile. Qui, piuttosto, «il negativo del linguaggio diventa […] il suo limite estremo»: pur non potendo significare-su questa o quella cosa, il linguaggio «comunque significa: testimoniando del suo esserci, infatti, esso significa, indicandola, la propria presenza» (p. 249).
Che la forma-di-vita, eludendo il meccanismo linguistico di presupposizione e, con esso, il bando sovrano, sia, a rigore, imprescrittibile, ciò rappresenta il vero scoglio di ogni lettura di Agamben che metta al proprio centro l’etica. Come si può, infatti, descrivere la forma-di-vita senza, perciò, inscriverla nel linguaggio e assegnarla al suo regime di separazione? Come può la forma-di-vita darsi una veste linguistica, venire a linguaggio, senza, perciò, separarsi da sé?
Gli strali della critica politica, non a caso, convergono perlopiù su questo delicato punto: Agamben sembra, qui, lasciare la sua ultima parola all’anarchismo mistico. Che le cose non stiano così, è provato oltre ogni dubbio dalla conclusione di Praino. Certo, la forma-di-vita non può mai darsi, come un semplice denotato, nella significazione. Eppure, la si può esporre, esibire in un paradigma, in un caso esemplare. Casi esemplari, forme-di-vita, sono, allora, Majorana, Hölderlin, Pulcinella e Pinocchio, su cui Agamben, dopo aver «abbandonato» Homo sacer, ha concentrato i suoi sforzi di narratore. Non è in virtù di cosa Pulcinella o Pinocchio sono o fanno, che la loro esistenza è forma-di-vita. Piuttosto, «a rendere esemplari le loro figure» sarà il «modo specifico», il come essi abitano il loro accadersi e il loro accadere al mondo: in altre parole, «il loro modo etico di fare uso di sé» (p. 260).
Come vita esemplare, la forma-di-vita si dimostra così lo sfuggente complemento, simmetrico e opposto, del bando sovrano. La separazione di zoé e bíos, che è in questione nel bando sovrano, si regge, infatti, sulla topologia dell’eccezione, che, isolando e escludendo vita dall’ordinamento, la include sempre di nuovo come vita nuda, abietta, uccidibile. Viceversa, osservava Agamben nel primo Homo sacer, l’esemplificazione dà luogo a qualcosa come una «inclusione esclusiva»: un caso singolare che, secondo il paradosso di Russel, nel momento stesso in cui esibisce la propria appartenenza a una classe, ne cade fuori.
Con l’esposizione di vite esemplari come quella di Pinocchio, dunque, Agamben spezza l’incantesimo dell’eccezione, con cui il bando sovrano irretisce il vivente. Tale esibizione non dice propriamente nulla sulle forme-di-vita che, in essa, si esprimono. Piuttosto, costituisce la forma in cavo da cui, talvolta, possiamo sentire risuonare qualcosa come una lingua nuova, liberata: la lingua delle forme-di-vita, dei paradigmi. Ciò che in essa risuona è un appello e una testimonianza, che, forse, solo i versi di Kavafis, tanto cari ad Agamben, sono in grado di raccogliere: «Forse tanta pena, tanto sforzo / per intendere per me non mette conto. /Più tardi, in una comunità migliore / certo qualcuno come me / apparirà, farà – liberamente».
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Lorenzo Mizzau è dottorando e docente di filosofia politica e dei media presso la Leuphana Universität Lüneburg. La sua ricerca ruota intorno al rapporto tra governamentalità neoliberale e processi di estetizzazione della politica. Per DeriveApprodi ha tradotto Dal rifiuto del lavoro alla moltitudine. La filosofia sovversiva di Toni Negri (2025).
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