top of page

La strategia della composizione (prima parte)



Il contributo di Hugh Farrel riflette in termini strategici sulle traiettorie di autonomia delle lotte radicate nei territori. Lo fa cercando di individuare una polarità terza rispetto alle opzioni della centralizzazione politica e del ripiegamento localistico delle sperimentazioni interstiziali fini a se stesse. Prendendo esempio dalla resistenza contro la Cop City nella Foresta di Atlanta, da elaborazioni come quelle di «Endnotes» e «Mauvaise Troupe», l’autore tenta di delineare un orientamento pratico che non sia né l’ideologia riformista delle «utopie concrete», né l'isolamento del gesto della rivolta. Il testo, qui introdotto da Michele Garau, ha attivato un dibattito in diversi circuiti internazionali. Pubblichiamo oggi la prima parte dell’articolo.


* * *


Nota introduttiva

Michele Garau


Il testo di Hugh Farrel pone un nodo essenziale che è al centro della strategia rivoluzionaria del presente. Questo nodo compare in una manciata di testi ed elaborazioni teoriche degli ultimi anni: è il rapporto tra destituzione e autonomia, o meglio tra rivolta e autonomia come pezzi della destituzione, cioè di un evento rivoluzionario per come è immaginabile dopo il salutare declino del movimento operaio in tutte le sue filiazioni. Senza la pretesa di condensare qui le molte analisi che hanno affrontato con profondità questi punti, indichiamo i problemi più rilevanti che sono esposti nello scritto.

Come dirimere l’opposizione tra distruzione e durata. Fuori dal recupero di una dialettica storica che dovrebbe autogenerare le acquisizioni dell’emancipazione, com’è che un accumulo sequenziale di rivolte può trasformarsi in rivoluzione (Clover)? I termini del confronto con Phil A. Neel presente nel testo vertono su tale interrogativo. È giusto affermare – come fa Neel – la tendenza negativa, distruttrice e non programmatica del comunismo nelle insurrezioni rispetto all’immediatezza delle lotte parziali e alla marginalità di un’autonomia interstiziale, improntata alla sussistenza di piccole comunità libertarie. Esiste però anche – si sottolinea – un’altra possibilità di autonomia, alimentata dai conflitti territoriali e incarnata dagli spazi di vita e organizzazione che nascono al loro interno. La strategia della composizione corrisponde a questo secondo genere di autonomia.

Da una parte c’è la potenza destituente delle rivolte, dall’altra la costruzione collettiva di comunità in secessione che sopravvivono all’erompere dell’evento insurrezionale, all’interruzione puntuale della temporalità continua del governo? Questo è uno schema rigido che vede da una parte ciò che destituisce e dall’altra le stratificazioni materiali e tecniche di risorse collettive che vanno oltre la sospensione della normalità. È la tesi del collettivo «Mauvaise Troupe»[1], per il quale il consolidamento di esperimenti collettivi radicati su territori che le lotte hanno trasformato, comporta un superamento della fase puramente destituente di tali divenire rivoluzionari. Questione reale. Allusivamente riprendendo, senza render loro giustizia, le riflessioni di Kieran Aarons sui diversi registri della destituzione e sulla temporalità della rivolta attraverso il pensiero di Furio Jesi, potremmo dire però che il tempo della destituzione non è né quello del mito né quello della festa crudele[2]. In altre parole, e oltre le allusioni: il processo destituente convoca una temporalità e un ritmo che sono terzi sia rispetto alla continuità amministrata del governo sia rispetto all’epifania della rivolta come evento singolo. Quest’ultima è fragile ed esposta alla sconfitta, ma niente è possibile senza di essa. Un’altra temporalità è quella che ridefinisce i soggetti, dissolve le identità preesistenti e in cui, praticamente, comunità collettive e rivolte si nutrono reciprocamente.

La composizione come problema e come strategia. Il nodo è quello del particolare e del generale. Lo scritto di Hugh Farrel dialoga con le tesi di «Endnotes»[3]in modo proficuo, ad esempio. Il vortice di soggettività disperse che l’universo di totalizzazione del movimento operaio lascia orfane, nell’epoca anarchica di un capitalismo senza più fantasmi egemonici, dà luogo a un disorientamento e a un campo di sperimentazione. Le politiche dell’identità sono «non movimenti», muovono da questioni parcellari e frammentate che, nel loro apice di intensità, trascendono sé stesse e sconvolgono anche il proprio incasellamento di partenza. Nelle rivolte le schegge nel mosaico postmoderno di identikit plurali si autonegano, come nelle vecchie stagioni rivoluzionarie si auto-negava la classe. Ma qui non c’è nessun passaggio dialettico che si svolga da solo, e nessuno se ne illude. Allo stesso tempo neppure la strategia di sommare una lotta all’altra – razzializzati più sfruttati più donne più precari più studenti più estremisti etici più… – porta da nessuna parte, proprio perché il picco dei conflitti vede i soggetti protagonisti, dai contorni già precari, sfumare ulteriormente. Una sollevazione di automobilisti contro il costo della loro circolazione obbligata diviene il sito di emergenza di un popolo che non esisteva (un populismo estatico,lo hanno definito alcuni); l’ondata di rivolte seguite alla morte di George Floyd acquista una composizione che, al momento di massima radicalità, non è neppure più maggioritariamente nera; infine le proteste contro le misure d’emergenza sanitaria per contenere il Covid-19 accennano a diventare e potevano diventare, piaccia o non piaccia ai cittadini responsabili del «benecomunismo» nostrano, indisponibilità di massa a lasciarsi governare.

Quindi il punto è: come l’aspetto costruttivo di quest’anarchia ontologica può essere trasformato in strategia, transcrescenza della frammentazione in qualcosa d’altro, nuova forma di unità e campo di sperimentazione nella molteplicità? Il suggerimento è la disponibilità a cambiare, a lasciare sospeso il punto da cui si parla: quindi non solo far comunicare le lotte, le forme di vita quanto mai dissimili che attraversano una lotta, ma modificare la propria posizione di partenza, lasciarsi trasformare con metodo dall’esperienza. Alcuni compagni anarchici che hanno partecipato, nella propria città, alle lotte contro il green pass, raccontano così il loro approccio:


Ci siamo posti in aperto contrasto con un certo elitarismo morale e metodologico della sinistra, oltre che in aperta discussione anche con persone dei nostri giri. Queste piazze sono prive di riferimenti ideologici tradizionali, e le manifestazioni No green pass vengono snobbate e criticate aspramente. Questi nuovi approcci alla politica, privi di riferimenti ideologici, sono la controprova che il mondo sta cambiando alla velocità della luce e non è snobbandoli o prendendo le distanze che potremo far parte del cambiamento che vorremmo vedere in atto[4].


Cosa differenzia la composizione dalle opzioni politiche di convergenza già usate e abusate? Se la composizione delle traiettorie di lotta diviene strategia, come disinnescare una ricaduta in direzioni, convergenze, accorpamenti politici che riducono all’unità e programmano gli obbiettivi politici generali oltre il tessuto concreto di tali conflitti? Perché comporre non significa, ad esempio, porsi alla testa di uno spettro di gruppi e movimenti per dar loro una linea radicale, degli obiettivi, delle finalità intermedie e una prospettiva politica predefinita? Ancora una volta, qui non ci sarebbe nulla da comporre, ma l’arsenale della centralizzazione politica in tutte le sue incrostazioni: articolare dall’esterno pezzi di un edificio che ha come mattoni i discorsi compatibili, partendo da soggetti radicali e non da azioni radicali, da rivendicazioni e da nuclei ideologici, non dalla virtualità di quel disordine dei soggetti a cui si è fatto riferimento. Questo può dare una netta impressione di potenza rispetto alla dispersione di forze, esperienze, percorsi, che una composizione lenta e precaria è in grado di dispiegare fin da subito, ma ha un punto debole intrinseco che è quello, nel presente, della dialettica politica in quanto tale.

Quando il soggetto che si vuole costringere o convincere fa saltare in aria questa dialettica, quando scompaiono i canali e le simmetrie che permettono ai movimenti sociali di dialogare con il governo – anche violentemente – in uno spazio regolato e riconosciuto di discorso, qual è lo step successivo? Il movimento francese contro la riforma pensionistica ci sta, tra le altre cose, mostrando qualcosa a riguardo[5]. Similmente, l’episodio di fine marzo a Sainte-Soline ci indica come il consolidamento di due fronti simmetrici in un conflitto, in cui il movimento si configura come la controparte di un potere che vuole disporre di un territorio per i suoi progetti di devastazione, porta la lotta a un confronto militare in cui la repressione ha strumenti, tattiche e capacità offensive oltremodo superiori a quelle delle parti in lotta. Il movimento a un certo punto perde il suo vantaggio strategico in quanto il suo «comporsi», una volta consolidato, diventa facilmente leggibile dalla repressione. Insomma, ciò che molte lotte territoriali ci mostrano è il fatto che non viene superata l’impasse di un confronto dialettico e antagonistico con lo Stato, per cui anche quando raggiungono alcuni risultati e parziali vittorie, si arenano in questo confronto simmetrico.

Dall’altra parte non è mischiando insieme antagonismo e mediazione, scontro e consenso che si otterrà qualcosa di nuovo, proprio perché le due soluzioni appartengono allo stesso repertorio fondamentale. La temporalità coinvolta da una strategia della composizione, da un processo destituente, è forse diversa, più profonda e più lenta. Non riguarda un patto programmatico, una convergenza sociale o politica, ma piuttosto una «composizione strategica dei mondi»[6]. Che la politica come discorso pubblico, la raggiungibilità e la trasparenza siano una sua prerogativa, come ci è stato ricordato, non è affatto ovvio[7].


* * *



Riflusso

Stiamo vivendo un momento di terrificante riflusso sociale. Le protezioni statali minime messe in atto all’inizio del Covid hanno lasciato il posto a nuovi sfratti e a un ampio consenso politico a favore di aumenti dei tassi di interesse volti a domare l’inflazione e a ricostruire la stabilità del mercato. Tuttavia, poiché gran parte di questa instabilità inflazionistica è determinata dal nuovo potere d’acquisto della classe operaia, ciò significa che una rinnovata stabilità del mercato è inesorabilmente legata al ripristino della precarietà dei poveri, alla riduzione della loro quota di consumo e alla rottura della fiducia nella possibilità di trovare lavoro che ha alimentato le «grandi dimissioni»[8], a loro volta prodotte dal mercato del lavoro eccezionalmente rigido del periodo del Covid.

Proprio come la fiducia dei poveri, alimentata dalla crisi, deve essere addomesticata, così la memoria recente delle vaste lotte contro la polizia guidate dai giovani neri deve essere dipinta con panico delirante sulla minaccia della Critical Race Theory[9] e sulla campagna «Defund the Police»[10], entrambi fantasmatici come una mitica ondata di criminalità. «Defund the Police», che era apparso un messaggio moderato al limite dell’irrilevanza durante la «George Floyd Uprising», ora è percepito come intollerabilmente estremista grazie alla collusione di 10.000 teste parlanti che hanno chiacchierato per tutto il 2022, anche se la polizia statunitense ha continuato a uccidere persone a un ritmo crescente[11]. Poiché un buon panico ne genera un altro, gli stessi hanno poi alimentato una rinnovata isteria sul grooming[12], che offre la minima foglia di fico per una rinnovata spinta di sterminio diretta contro le persone Lgbt – in particolare trans. Spinta da personaggi come Elon Musk (che sta lavorando proprio per ripristinare condizioni di speculazione redditizia), questa spinta è stata così sfacciata che non ha mollato il colpo neanche quando uno dei suoi soldati ha ucciso cinque persone nel «Club Q», un bar gay del Colorado.

In questo periodo di paura e riflusso, il movimento per la difesa della foresta di Atlanta – insieme ai recenti sforzi per la difesa del villaggio di Lützerath contro la sua distruzione da parte del gigante minerario RWE – si distinguono come luminose eccezioni. Sebbene l’obiettivo apparente di entrambe le lotte sia la protezione di particolati territori, esse sono anche riuscite a sfidare le condizioni più generali del nostro attuale periodo di reazione. Anche se in questa sede mi concentrerò sulla lotta di Atlanta, la logica di composizione delineata di seguito può contribuire a illuminare anche altre insurrezioni ecologiste in tutto il mondo.

Sui 600 acri contestati dal movimento, 380 sono destinati allo sviluppo di un centro di addestramento di una polizia urbana contro-insurrezionale, inclusa la riproduzione di un quartiere nero, mentre i rimanenti 40 acri, che sono attualmente un parco municipale, sono stati ceduti a uno studio di effetti sonori per il cinema. Lo slogan del movimento è quindi diventato: No cop city/No Hollywood dystopia.

Mentre lo spettro del definanziamento della polizia è diventato un anatema nello spettro politico statunitense, il movimento «Defend the Forest» onora e riattualizza la sollevazione per George Floyd, bloccando la costruzione di un complesso di addestramento che mira ad alzare il morale delle truppe e ad aggiornare le tattiche di un apparato di polizia surclassato nel 2020.

Il movimento non si basa tanto su manifestazioni quanto su rave party nella foresta e su un insieme di accampamenti differenti. Le manifestazioni si tengono ancora abbastanza spesso davanti agli uffici delle aziende coinvolte nel progetto e nel centro di Atlanta, dove un gruppo di studenti delle scuole elementari manifesta spesso in solidarietà. Gli accampamenti permettono ai diversi gruppi di partecipare a modo loro, rendendo al contempo il movimento più difficile da identificare per le autorità. I giovani di Atlanta e non solo si muovono nella foresta, a volte si fermano per poche notti, mentre altri vivono lì da più di un anno. La rivista «Rolling Stone» ha recentemente intervistato un giovane che ha lasciato il suo lavoro d’ufficio nel Midwest alla fine delle «grandi dimissioni» per trasferirsi nella foresta. Il suo ragionamento suona come un’ovvietà per la sua generazione: «È semplice. Il lavoro è un inferno. La foresta è bellissima. Proteggere ciò che ci sostiene e distruggere ciò che ci uccide è la cosa più importante che ci sia»[13].

L’occupazione della foresta non è certo utopica, con frequenti conflitti all’interno e tra gli accampamenti. Alcuni vicini contrari alla «Cop City», ad esempio, sono comprensibilmente infastiditi dagli osceni slogan anti-polizia vergati su un parcheggio occupato dal movimento, dal momento che anche i loro figli utilizzano la foresta. Tuttavia, l’impossibilità di ricorrere alla mediazione delle istituzioni ha costretto i partecipanti a sviluppare abitudini e pratiche di compromesso e risoluzione dei conflitti. Inoltre, la foresta è diventata un rifugio dall’ondata di reazione che sta investendo il Paese. In un recente articolo di David Peisner, un partecipante transgender ha spiegato in questo modo la «sovrarappresentazione» delle persone queer e trans nell’occupazione della foresta: «Essendo emarginate e in difficoltà negli altri spazi, è più probabile che vengano in u posto come questo. Inoltre, le persone trans hanno contribuito a costruire questa comunità, quindi è ovvio che abbiano cercato di renderla accogliente per altre persone trans»[14].

Pur rimanendo lacerata da contraddizioni e difficoltà, la foresta di Atlanta è diventata un’immagine inversa della situazione politica nazionale, un’eccezione in questo periodo di riflusso. Una delle evidenze del movimento, spesso citata per spiegare il suo successo, è che è «decentralizzato e autonomo», il che lo rende più difficile da controllare o cooptare e crea spazio per molteplici modalità di impegno. Tuttavia, Peisner ha ragione nel sottolineare che questa assenza di struttura crea un particolare tipo di rigidità e inerzia. Cita un difensore della foresta di nome Wiggly, il quale riconosce che in un movimento come questo «il modo in cui ti muovi è il modo in cui impari a muoverti»[15]. Il decentramento e l’autonomia non sono principi di per sé sufficienti a spiegare la resilienza, la creatività e l’intelligenza collettiva caotica del movimento. In effetti, le parole di Wiggly descriverebbero altrettanto bene la sbandata dell’America verso il declino e la crisi; in un’epoca già anarchica, il decentramento e l’autonomia sono caratteristiche della maggior parte delle forze politiche e difficilmente sono sufficienti come orizzonte liberatorio. Sotto l’impegno del movimento a rimanere «decentrato e autonomo» si nasconde un altro principio attivo, emerso nelle lotte territoriali e nei conflitti situati in tutto il mondo: la composizione. Di seguito, attingerò alcuni elementi dall’analisi del collettivo «Endnotes» e dei suoi interlocutori, per definire alcune coordinate del nostro presente incerto e così interrogare il «problema della composizione» su scala epocale. Poi tornerò alle lotte territoriali per comprendere la composizione dal punto di vista opposto, come una strategia di organizzazione situata e distintiva della nostra congiuntura contemporanea.


Orfani

In Avanti barbari![16], il loro magistrale bilancio dell’epoca del Covid e sulle ribellioni contro la polizia, «Endnotes» offre una griglia per comprendere il vasto flusso di sollevazioni popolari e di ansiosa e sanguinosa reazione che segnano il nostro anarchico presente. Per «Endnotes» la precarietà, il collasso della legittimità politica e il vortice di confusione intorno alle identità e alle lotte, si dispiegano «sul terreno di un capitalismo stagnante». Una torta che ha smesso di crescere non soltanto provoca una terrificante competizione per accaparrarsi porzioni sempre più striminzite, ma mina anche la possibilità di formulare rivendicazioni progressiste: sulla possibilità di uno sviluppo sociale guidato dal mercato, il compito storico del movimento operaio di garantire una relativa stabilità ai lavoratori, l’aspirazione delle comunità nazionali a condividere un futuro migliore. I mostri si moltiplicano, facendo a gara per addossare le colpe a migranti e persone trans, sia come parte della competizione diretta per le fette di torta disponibili, sia per canalizzare la confusione e la paura verso nuovi obiettivi di panico diffuso.

In tale contesto i movimenti insurrezionali sono bambini sperduti, orfani della tradizione organizzativa della sinistra storica e privati della legittimità passata del movimento operaio, esaurita in decenni di concessioni ai padroni e di accettazione della crescente precarietà del lavoro. Più in generale, questi movimenti sono irretiti in una «confusione di identità», in quanto i vari settori della società competono per le risorse e perdono lentamente coerenza, come dimostra il vuoto di leadership nera che le organizzazioni ufficiali di «Black Lives Matter» non sono riuscite a colmare. Tuttavia, «Endnotes» sostiene che questa confusione, e più in generale questa condizione di orfani, sono anche produttive, in quanto creano un campo di sperimentazione che è difficile governare e rappresentare. Senza una tradizione o una leadership a cui attingere, i movimenti esistono in una modalità permanentemente improvvisata, creativa, ingovernabile e intrinsecamente instabile. Ciò pone quello che «Endnotes» chiama il «problema della composizione», in virtù del quale i movimenti contemporanei non possono assumere alcuna base automatica e condivisa, e quindi devono affrontare nuove sfide. I movimenti devono produrre le proprie basi organizzative e strumenti inediti per saldare insieme le frazioni sociali sempre più eterogenee prodotte da un presente precario. Quando questo processo diventa consapevole, la composizione si tramuta in strategia.

In Hinterland, la sua indagine sul «campo del conflitto di classe», Phil Neel propone una soluzione peculiare al problema della composizione, una soluzione particolarmente adatta ai massicci flussi di movimento oggi regolarmente prodotti da un ordine globale destabilizzato. Egli sostiene che le forze reazionarie sono spinte da «giuramenti di sangue», in cui miti razziali e tradizionalisti nutrono nuove comunità escludenti destinate a offrire sicurezza in mezzo alla stagnazione e alla destabilizzazione generalizzate. In contrapposizione a ciò, i partecipanti ai movimenti insurrezionali non avanzano alcuna pretesa di esclusività, ma fanno invece un giuramento inclusivo all’insurrezione stessa, un «giuramento d’acqua» al «“partito dell’anarchia” di Marx, che sembra non cercare altro che un’ulteriore erosione, la crescita del diluvio»[17].

Questo quadro possiede una forza sia esperienziale che etica, in quanto risponde al problema della composizione a un livello epocale. Chiunque abbia partecipato a un movimento rivoluzionario del XXI secolo conosce l’euforica solidarietà che Neel evoca, ma anche la mancanza di un orizzonte più ampio che orienti tale solidarietà. Scrivendo in assenza di questo orizzonte o, più ottimisticamente, nella sua infanzia, Neel sottolinea comprensibilmente una «fedeltà all’agitazione stessa», in un modo che ci orienta eticamente verso comunità inclusive e un progetto negativo basato sulla distruzione del mondo capitalista già fallito[18].

In ogni modo i «giuramenti d’acqua» ci dicono davvero poco sul modo in cui organizzarci, e rappresentano soltanto una cristallizzazione etica di quelle sequenze di rapida erosione che avvengono durante vasti movimenti e rivolte. Queste sequenze insurrezionali difficilmente costituiscono la maggior parte delle nostre vite, anche nei contesti di stagnazione capitalistica e crescente instabilità. Pensare soltanto a partire da questi momenti, al loro interno, costituisce una trappola che deforma la realtà, coinvolgendoci in una politica dell’urgenza e del sacrificio. Neel teme da parte sua il contrario: che al di fuori di queste sequenze rivoluzionarie in cui il «giuramento d’acqua» può estendersi costantemente, la pratica rivoluzionaria finisca per distorcersi. Neel critica gli sforzi per sostenere spazi anti-capitalisti a lungo termine: «non esiste vera “autonomia” nel mondo del capitale, solo fedeltà alla sua distruzione»[19]. Si spinge oltre, comparando con ambivalenza questi spazi, che si mantengono al di là di esplosioni sociali puntuali, alle «enclave nazionaliste o proto-nazionaliste dei movimenti populisti della campagna globale»[20]. Suggerisce così uno slittamento verso forme di comunità esclusiva che si riavvicinano a quelle fondate sui «giuramenti di sangue».

Neel prende così di mira l’attaccamento anarchico ai «momenti di riproduzione su piccola scala, tramite squat e occupazioni». Questi sono spesso degli sforzi di mentalità conservatrice per mantenere uno spazio di libertà limitato da parte di gruppi che sono già costituiti attraverso il filtro dell’ideologia, di una sottocultura condivisa, o a esperienze di partecipazione ai movimenti sociali. Lo scopo è in questi casi quello di perseverare, di sopravvivere in una forma localistica o ideologica. Purtroppo Neel confonde questi esperimenti limitati da parte di piccoli gruppi con una forma di lotta – i conflitti territoriali – che si sviluppa nell’epoca contemporanea con la stessa facilità delle insurrezioni rapide ed erosive di cui si è principalmente occupato.



Note [1] Mauvaise Troupe, Remaining Ungouvernable, relazione alla conferenza «Undercommons and Destituent Power», in rete: https://illwill.com/remaining-ungovernable. [2] K. Aarons, «A Dance without a Song»: Revolt and Community in Furio Jesi’s Late Work, in South Atlantic Quarterly, n. 1 2023. In rete: https://read.dukeupress.edu/south-atlantic-quarterly/article/122/1/47/342400/A-Dance-without-a-Song-Revolt-and-Community-in. [3] Il testo originale si trova, in rete, qui: https://endnotes.org.uk/posts/endnotes-onward-barbarians; mentre in italiano qui: http://teatrodioklahoma.net/2021/10/22/avanti-barbari/. [4] Trasmissione di Radio Cane: Busto Arsizio: Assemblea popolare No Green Pass, in rete: https://radiocane.info/busto-arsizio-assemblea-popolare-no-green-pass/. [5] Sortir de l’antagonisme d’État, in rete: https://lundi.am/Sortir-de-l-antagonisme-d-Etat. [6] Adesso, Comitato Invisibile. [7] Manifeste conspirationniste, Seuil, Paris 2022. [8] Con «Great Resignation» si intende un fenomeno economico in cui i dipendenti abbandonano volontariamente e in massa il loro posto di lavoro, come avvenuto a cavallo della pandemia di Covid-19 per un’importante percentuale di forza lavoro giovanile, tra i 18 e i 35 anni (40 milioni di persone nel 2022 negli Usa, meno di due milioni in Italia). Si veda: https://ilbolive.unipd.it/it/news/trasformazione-lavoro-numeri-great-resignation (N.d.T.). [9] Critical Race Theory è una categoria di matrice accademica, nata negli anni Settanta, per indicare gli studi incentrati sul ruolo del razzismo sistemico negli assetti istituzionali e nel retaggio colturale della storia degli Usa. Tra il 2020 e il 2021 diviene lo spauracchio di una campagna della destra conservatrice statunitense, ripresa da Fox News e dallo stesso Trump. Si veda, in rete: https://www.huffingtonpost.it/entry/critical-race-theory-usa_it_60ed4b95e4b01ba8eecee1b6/. [10] Campagna di definanziamento dei dipartimenti di polizia partita nel 2020 a Minneapolis a seguito dell’omicidio di George Floyd (N.d.T.). [11] Police Shootings Database, «Washington Post», in rete: https://www.washingtonpost.com/graphics/investigations/police-shootings-database/. [12] Termine gergale usato per indicare l’adescamento sessuale di un adolescente, un minorenne o un giovane da parte di un adulto. In una viscerale campagna reazionaria da parte del Partito Repubblicano l’appellativo di groomer viene utilizzato per stigmatizzare qualsiasi discorso pubblico, in particolare nei programmi scolastici, che affronti le tematiche della diversità sessuale o di genere (N.d.T.). [13] Jack Crosbie, The Battle for Cop city, «Rolling Stone», 3 settembre 2022. [14] David Peisner, The Forest for the Trees, «The Bitter Southerner», 13 dicembre 2022. [15] Ivi. [16] Il testo originale si trova, in rete, qui: https://endnotes.org.uk/posts/endnotes-onward-barbarians; mentre in italiano qui: http://teatrodioklahoma.net/2021/10/22/avanti-barbari/. [17] Phil A. Neel, Hinterland, Reaktion Books, London 2018, p. 155. [18] Ivi, p. 169. [19] Ivi, p. 156. [20] Ivi, p. 175.


* * *



Comments


bottom of page