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La rivoluzione urbana degli Ottanta. L’ascesa delle mega-città e il dominio delle città globali



In stretta connessione con le trasformazioni della produzione e del lavoro e allo sviluppo delle tecnologie di comunicazione, tra gli anni Settanta e Ottanta muta la forma della città. Inizia a profilarsi il «millennio urbano» e si annuncia un terzo ciclo dell’urbanizzazione, questa volta a scala non più europea come i due precedenti, ma planetaria. In questo saggio, uscito nel volume Anni Ottanta (curato da E. Laurenzi e F. Violante, manifestolibri 2023), Agostino Petrillo analizza la produzione teorica di quel decennio, in cui nasce quella lunga transizione al cui interno – sostiene l’autore – il nostro presente ancora si colloca.


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Gli inizi

Il primo a capire fu Stephen Hymer, un economista canadese. Intuì già nella sua tesi di dottorato che gli sviluppi dell’economia e i progressi delle tecnologie delle comunicazioni avrebbero reso presto possibile uno sganciamento dai vincoli territoriali delle tre funzioni fondamentali dell’impresa: produzione materiale, amministrazione e direzione. In lavori successivi, pubblicati negli anni Settanta, egli sottolineò come le relazioni tra Stati-nazione e multinazionali stessero gettando le basi per una nuova divisione internazionale del lavoro. Il disegno da lui abbozzato prevedeva che la struttura della rete planetaria delle città, che all’epoca era solo in formazione, avrebbe seguito da presso le linee del reticolo espansivo delle imprese multinazionali. A causa della crescente internazionalizzazione le attività legate al funzionamento di queste imprese si sarebbero diffuse per il pianeta, con la creazione di nuovi centri di produzione, non più necessariamente collocati nei paesi del Nord del mondo. L’aspetto anticipatore della visione di Hymer è che egli aveva compreso come la divisione tradizionale dell’impresa in tre livelli di management: il livello della produzione, il livello intermedio dell’amministrazione e del coordinamento dei managers, e il livello superiore di definizione degli obiettivi e della pianificazione, vista la dispersione planetaria della produzione che diventava ormai possibile, avrebbe dato luogo a una concentrazione dei differenti livelli di management in città diverse. Ed era chiaro che la produzione materiale sarebbe stata allocata principalmente lì dove i livelli salariali erano più bassi. «Convertitosi» nel corso dei suoi studi al marxismo, Hymer temette che tutto il terzo mondo sarebbe divenuto una riserva di lavoro a basso costo in condizioni semi-schiavistiche. La fine della centralizzazione spaziale dell’impresa equivaleva inoltre a dire che un giorno potere, reddito, autorità, livello di consumi nelle singole realtà urbane sarebbero derivati non più dal loro essere collocate in una determinata realtà statuale, ma dalla rete delle città, e della distribuzione delle attività che ne derivavano.

Hymer morì giovane (1974), prima di vedere realizzarsi il mondo che aveva intravisto nascere, ma il suo lascito intellettuale rimane, ed è attualissima principalmente l’idea che il regime delle grandi imprese multinazionali avrebbe lentamente sgretolato la gerarchia urbana preesistente, e avrebbe creato al tempo stesso tutte le condizioni per uno sviluppo urbano accelerato in regioni del mondo che non avevano una tradizione di città[1].


Megacittà

Cominciava così a profilarsi il «millennio urbano» di cui oggi tanto piattamente e ambiguamente si parla[2], e si annunciava un terzo ciclo dell’urbanizzazione, questa volta a scala non più europea come i due precedenti, ma planetaria.

Veniva dunque sconvolta la geografia economica precedente, organizzata secondo una rigida divisione tra Nord e Sud del mondo, in cui le città più importanti, più avanzate e più ricche erano anche quelle più popolose, secondo il modello della Megalopoli tratteggiato da Jean Gottmann[3]. Si schiudeva una nuova wilderness in cui demografia, economia e progresso tecnologico imboccavano spesso sentieri divergenti e si profilava la crescita vertiginosa di grandi e grandissime agglomerazioni urbane nei paesi arretrati. Una trasformazione radicale degli assetti preesistenti, che avrebbe obbligato gli studiosi per tutti gli anni Ottanta a ordinare nuove gerarchie, a leggere le ragioni dell’ascesa di sorprendenti megacittà dietro intrecci complessi e implicazioni, a dare forma a una tassonomia urbana che classificasse le città non più in base a criteri economici e demografici, ma in base al ruolo che svolgevano, all’area in cui erano collocate, ai loro legami nazionali e sovranazionali. Città nuove crebbero e spesso crebbero in luoghi privi di una tradizione urbana.

Tra gli esempi più clamorosi del rapidissimo sviluppo di nuovi centri urbani rimane emblematico quello di Shenzen. Nel 1979, quando diventa una delle tre «zone economiche speciali» della Cina, la cittadina ha 30.000 abitanti, fino agli anni Cinquanta era un villaggio di pescatori, e nel giro di quarant’anni diventerà una megacittà di oltre 15 milioni di abitanti[4]. La storia di Shenzen è certo una storia particolare, di successo, legata in particolare all’industria informatica, ma la storia delle megacittà è molto più contrastata e controversa, basterebbe pensare agli scompensi presenti nella altrettanto veloce crescita di Dacca o Lagos, che sono oggi ai vertici del ranking mondiale delle città dal punto di vista demografico, ma presentano enormi squilibri sociali, per avere una idea di quale sia stato il prezzo umano di questa iperaccelerata ascesa. Megacittà scomposte, di rado pianificate, in cui le élites tecnologiche globalizzate risiedono in quartieri esclusivi e protetti, circondate da una serie interminabile di quartieri miserabili. E’ come se solo determinate parti della città fossero toccate dagli effetti della globalizzazione, fossero integrate nella rete planetaria. Ci sono dunque anche megacittà che hanno una modestissima rilevanza economica, che sono «solo grandi». Grandi attrattori di giovani, di migranti interni, che ne affollano le immense periferie, misere e in gran parte autocostruite, e che raramente vi trovano le possibilità di lavoro e di emancipazione che erano andati a cercare.


Un cambio di paradigmi

Di fronte a un mutamento di tale portata, gli studi nel corso degli Ottanta si sono quindi venuti a trovare in una vera e propria impasse, da cui è scaturito il grande rinnovamento di paradigmi che ha caratterizzato il chiudersi del decennio e l’inizio dei Novanta. Infatti in quel periodo si è fatta strada l’idea che le città e le loro dinamiche di ascesa/declino, successo/insuccesso potessero essere comprese solo indagandole sotto il profilo dei loro legami transnazionali, delle relazioni che hanno tra loro e che le legano in un transnational network, in una rete planetaria.

Per avere una formulazione più completa e strutturata dei problemi si è dovuto attendere il lavoro di John Friedmann, con l’ipotesi delle World Cities, che ha proposto una serie di riflessioni riguardo il nuovo ruolo ricoperto dalle grandi città nel processo di globalizzazione. Egli ha messo in evidenza che le modalità con cui avviene l’integrazione delle grandi città nell’economia globalizzata, l’ampiezza di questa stessa integrazione e le funzioni specifiche che esse svolgono nella nuova divisione spaziale del lavoro sono decisive per le trasformazioni che investono sia le relazioni tra metropoli che la loro vita interna[5]. L’analisi friedmanniana ha voluto sottolineare che ci sono delle città-chiave per il capitalismo globalizzato, che fungono da base per l’organizzazione e l’articolazione della produzione e dei mercati. Queste funzioni di «orientamento» e di controllo, noi diremmo di «comando», condizionano profondamente i settori interni della produzione e dell’impiego. Ma proprio in quanto accentrano le funzioni di direzione e di organizzazione del capitale internazionale e divengono luoghi di accumulazione, le città finiscono per esercitare anche un’attrazione irresistibile sui migranti. Questi i motivi secondo Friedmann del concentrarsi nelle città «di importanza mondiale», appunto le World Cities, di contraddizioni estreme, dato che nella loro struttura sociale si evidenzierebbero alcune delle più stridenti contraddizioni del capitalismo attuale, prima fra tutte la tendenza a un crescente dualismo, a una polarizzazione sociale e spaziale. Capitali planetarie che sono il cuore di un capitalismo senza più core si potrebbe dire con un piccolo gioco di parole.


Città globali

L’altro contributo decisivo dell’epoca è quello di Saskia Sassen sulle «Città globali». Da quanto abbiamo finora osservato risulta evidente il grande debito che la Sassen ha con le analisi di Friedmann/Hymer, di cui però viene fornita una versione che tende ad autonomizzarsi rispetto all’ipotesi principale. Il merito principale della Sassen, oltre a quello di avere svolto sul tema un enorme lavoro di ricognizione e di approfondimento, è infatti quello di avere sottolineato che il decentramento della produzione non si accompagna a un decentramento del controllo, che al contrario viene riaccentrato. Nel transnational network delle città che riorganizza l’economia planetaria non c’è parità di poteri. E’ un controllo che nel capitalismo contemporaneo si esercita attraverso la produzione dei servizi indispensabili al suo funzionamento. Non a caso la Sassen ha insistito sul ruolo che nelle capitali planetarie giocano i servizi, ma anche le banche, la finanza, l’innovazione e il sapere[6]. Già Friedmann aveva messo l’accento sulla funzione di gestione dell’economia svolta dalle World Cities, ma nella concezione della Sassen si può affermare che il controllo sia legato a una determinata prassi, a una serie di operazioni che vengono a concentrarsi in determinati luoghi e non in altri, per un complesso di motivi che solo in parte sono tecnici, ma che hanno anche importanti risvolti di tipo politico. Nonostante il funzionamento per «reti», a dispetto dell’illusione dell’orizzontalità, le leve del controllo globale vanno concentrandosi in determinati nodi, in luoghi specifici che sono centrali per il funzionamento dell’economia mondiale. Il lavoro di «amministrazione» del sistema di produzione globale e del mercato finanziario globale passa per questi luoghi chiave. E le città globali devono in qualche modo reimporre continuamente il loro «privilegio» rispetto agli stati, come dicevano gli storici tedeschi dell’Ottocento. Vi è una «consapevolezza», una intelligenza, una politicità in questo modus operandi, che non è riducibile ai parametri della generica governance, ma schiude orizzonti di intenzionalità e di concentrazione del potere ancora in buona parte da esplorare.

La Sassen è stata spesso criticata per un certa rigidità del suo modello, che avrebbe in sé una logica eccessivamente deterministica e presupporrebbe un’autonomia delle città rispetto agli stati e al loro retroterra nazionale che rimane da dimostrare, e che parrebbe negli ultimi anni ridimensionata proprio da un «ritorno dello Stato», da una sua ritrovata importanza. Inoltre si è spesso rimarcato che la prospettiva delle Città globali non ammetterebbe che spazi ridottissimi per l’affermarsi di possibili forme di critica interna o di antagonismo. Ma la mia impressione è che la ricostruzione della metropoli e del ruolo che essa gioca nel capitalismo attuale fornita dalla Sassen sia uno strumento formidabile, e che essa suggerisca al tempo stesso degli elementi critici, mostri molto bene quali sono i punti deboli del sistema. Non solo la competizione tra metropoli in sempre più accesa concorrenza, ma anche la conflittualità che si sviluppa all’interno delle stesse capitali mondiali.


Linee di conflitto

Nelle città globali ha infatti luogo una polarizzazione sociale estrema, in cui mondi diversi convivono giustapposti, in cui intere zone delle più importanti città del mondo vengono abitate da migranti, marginali, disoccupati. Nonostante le enormi ricchezze che vi circolano le metropoli sono segnate da vere e proprie linee di frontiera interne, e sono ben lontane dal potere assicurare il benessere alla maggioranza dei loro abitanti. Il conflitto è iscritto nelle modalità stesse di costruzione delle strutture di potere e di controllo che le caratterizzano.

E tutte le città globali sembrano presentare strutture sociali analoghe, che contemplano la presenza da una parte delle nuove élites, composte in particolare da operatori della conoscenza e dell’informazione, dall’altro i nuovi paria del lavoro precario e dell’economia informale. Queste élites condizionano e determinano lo sviluppo stesso delle città, dimostrano una consapevolezza del loro ruolo che influenza le politiche urbane. Esistono delle analogie formali anche nel modo in cui queste città si presentano: una mescolanza di quartieri eleganti in cui si concentrano le sedi centrali delle grandi banche, i grandi edifici di architettura internazionale, in cui lavorano i professionisti dello high-tech, i burocrati e gli impiegati di alto livello e i quartieri della miseria, i ghetti del lavoro intensivo e irregolare, le zone dello spaccio e della prostituzione. Per funzionare Manhattan ha bisogno del Bronx.. Infatti le élites che vi risiedono hanno bisogno di lavoro poco pagato, di baby-sitters, di guardiani, di pony express e di lavoratori senza difesa sindacale. Proprio per questa ragione risulta impossibile eliminare questa umanità che non è solo «residua», ma occultamente produttiva, se non addirittura uno dei motori delle Città globali[7]. Vi è una implicazione tra gli estremi che popolano la città. I «paria» non sono unicamente vittime, sono soggetti attivi: creano problemi, si moltiplicano al di là di quanto sarebbe strettamente necessario per il funzionamento delle città, elaborano strategie di difesa e di sopravvivenza, danno l’impressione di poter esigere una redistribuzione della torta[8].


Conclusione

Gli anni pandemici hanno contribuito a conferire nuovo slancio al modello delle Città Globali, riaccentrando gli investimenti, sostanzialmente confermando il «potere delle città», e accrescendo il loro raggio di azione. New York, Londra, Tokio, Parigi e e Singapore continuano a essere i siti che attraggono in maniera sproporzionata capitali e investimenti. Le prime 35 città del transnational network concentrano circa il 50% degli investimenti mondiali e sono decisive per quanto riguarda l’organizzazione delle catene internazionali delle merci e della logistica[9]. Gli ultimi anni hanno altresì ribadito il consolidarsi di modelli di megacittà nel Global South segnati da profonde disparità e squilibri, spesso sull’orlo del disastro ambientale, e tuttavia capaci a modo loro di funzionare e riprodursi, per ora apparentemente senza grandi esplosioni sociali che le minaccino. Anzi questi modelli di megacittà inquinata, divisa e ineguale sono in grado di competere con le città di tradizione europea, mettendone in discussione valori e organizzazione sociale. Non è chiaro quale sarà il modello a prevalere nel corso del «millennio urbano», in cui fattori non solo politici ed economici ma anche ambientali giocheranno un ruolo decisivo. Le analisi che ci giungono dal passato su questo ci dicono poco, sono di limitato aiuto, dato che, pur avendo colto chiaramente i tratti principali del futuro che noi oggi viviamo, rimangono però mute, non sono n grado di suggerirci in che direzione stiamo procedendo, quale potrà essere il nostro destino. Una teoria compiuta dell’urbanesimo planetario è ancora di là da venire.

Le difficoltà di un bilancio retrospettivo della produzione teorica degli Ottanta risiedono quindi nel fatto che il nostro presente è ancora in una lunga transizione, che nasce delle trasformazioni in quel decennio per la prima volta intraviste: noi siamo ancora completamente dentro il cambio d’epoca, immersi nel salto tra il modello di urbanizzazione europeo e quello del Global South, tra il declino delle vecchie centralità e l’emergere di realtà urbane completamente diverse dal passato. Il processo di riorganizzazione delle economie planetarie è tuttora in corso, le tendenze alla concentrazione e alla competizione tra le stesse Città Globali prevalgono rispetto agli aspetti di cooperazione, e le disuguaglianze si accentuano all’interno delle stesse capitali mondiali, basterebbe pensare alla situazione sociale di Londra o di New York. Il «millennio urbano» che si sta sempre più nettamente delineando, e che fu per la prima volta intravisto negli Ottanta, accelera dunque verso la sua piena realizzazione, ma ha per molti abitanti di mega-città e Città Globali finora i tratti di un ben miserabile miracolo. Con questo dovranno fare i conti la teoria e la politica del XXI secolo.




Note [1] S. Hymer, Le imprese multinazionali, Einaudi, Torino 1974; ma cfr. anche J. Dunning – C. Pitelis, The political economy of globalization: Revisiting Stephen Hymer 50 years on, «Transnational Corporations», 19 (3), 2010, pp. 1-29. [2] Per un tentativo di lettura critica del concetto rimando a A. Petrillo, La periferia nuova. Disuguaglianza, spazi, città, FrancoAngeli, Milano 2018, pp.147-ss. [3] J. Gottmann, Megalopolis. The urbanised Northeastern seabord of the United States, The Twentieth Century Fund, New York 1961 (trad. it. a cura di L. Gambi, Megalopoli. Funzioni e relazioni di una pluri-città, 2 voll., Einaudi, Torino 1970). [4] A.a.V.v., The story of Shenzen. Its Economic, Social and Environmental Transformation, Un-Habitat, Nairobi 2019. [5] J. Friedmann, The World City Hypothesis, «Development and Change», n.17, 1986, pp. 69-83. [6] S. Sassen, The Global City: New York, London and Tokyo, Princeton University Press, Princeton N.J. 1991, trad. it. Città globali: New York, Londra e Tokio, Utet, Torino 1997. [7] M. Samers, Immigration and the Global City Hypothesis: Towards an Alternative Research Agenda, «International Journal of Urban and Regional Research», 26 (2), 2002, pp.389-403. [8] L. Benton-Short – M. Price, a cura di, Migrants to the Metropolis. The Rise of Immigrant Gateway Cities, Syracuse University Press, Syracuse N.Y. 2008. [9] D, Chakravarty – A. Goerzen – M. Musteen – M. Ahshan, Global cities a multi-disciplinary review and research agenda, «Journal of Wolrd Business», n.56, 2021, pp.1-16.



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Agostino Petrillo, architetto e filosofo, professore associato al Politecnico di Milano. È direttore del corso di perfezionamento in Cooperazione internazionale allo sviluppo. Collabora a riviste specializzate – «Sociologia urbana e rurale», «Mondi migranti», «Filosofia politica», «Territorio», «Archivio di studi urbani e regionali» – e al quotidiano «il manifesto». Traduce articoli e saggi di numerosi studiosi tra cui Foucault, Maffesoli, Mike Davis, Loic Wacquant. Tra le sue pubblicazioni: I confini della globalizzazione. Lavoro culture cittadinanza (manifestolibri 2000); Max Weber e la sociologia della città (Franco Angeli, 2001); Città in rivolta. Los Angeles, Buenos Aires, Genova (ombre corte 2004); Villaggi città megalopoli (Carocci 2006); Peripherein: pensare diversamente la periferia (Franco Angeli 2013).

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