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La rivista «Primo Maggio» (1973-1989)

La raccolta completa



Negli anni Settanta e Ottanta «Primo Maggio» è stata una rivista importante per tante persone impegnate nelle lotte sociali e civili.

È stata una scuola di formazione, una sede di dibattito e riflessione in un periodo storico convulso, ma pieno di passioni e di generosità.

È stata una fabbrica di prototipi mentali. Ideata da Sergio Bologna, storico del movimento operaio ed esponente dell’«operaismo italiano», ha vissuto i primi anni sotto la sua direzione per poi passare, dal 1981 al 1989, a Cesare Bermani, affiancato da Bruno Cartosio. Il suo editore fu Primo Moroni, libraio della Calusca di Milano inventore di un modo nuovo di fare cultura. La sua grafica, originale e rigorosa, fu opera di Giancarlo Buonfino.

Una rivista di «storia militante» che ha affrontato con intuito e preveggenza argomenti complessi come la gestione capitalistica della moneta, il declino della grande industria fordista, l’emergere di nuove figure sociali, la trasmissione della memoria, l’avvento della logistica. Attraverso la riscoperta di pagine straordinarie di storia del proletariato migrante fu capace di creare immaginari e modelli di comportamento, di dare una diversa rappresentazione dell’America, di influenzare gli orientamenti di gruppi politici e correnti di ricerca storiografica in Germania.


Pubblichiamo di seguito, come introduzione alla raccolta completa della rivista, un intervento di Santo Peli che compare nel libro La rivista «Primo Maggio» (1973-1989) edito da DeriveApprodi.


In fondo a questa pagina, è possibile scaricare la raccolta completa in Pdf.


Perché rileggere «Primo Maggio»

Santo Peli


La prima ragione per tornare a parlare dell’utilità di rileggere «Primo Maggio» consiste nel fatto che la sua stessa esistenza, i temi di cui si è occupata, sono in parte ignorati, anche da buona parte di addetti ai lavori; è vero che gli anni Sessanta e Settanta hanno visto una notevole fioritura di riviste militanti, ma tra queste «Primo Maggio» dovrebbe occupare, credo, un posto di rilievo; del resto, all’epoca, arrise alla rivista un successo di vendite del tutto ragguardevole, se paragonato all’attuale stato comatoso nel quale versano le riviste di storia o di dibattito teorico, militanti o no che siano. Infatti «Primo Maggio, nonostante una vita redazionale travagliata, e una distribuzione avventurosa, dopo il primo numero, che esce nel 1973, giunge rapidamente a vendere tra le 3000 e le 5000 copie [1].

L’impressione mia è che la quasi completa assenza della rivista dalle biblioteche, ma anche dalla memoria, sia da mettere in relazione con la radicalità e l’intensità della sconfitta della conflittualità sociale e della centralità operaia che per un decennio ne aveva rappresentato la ragion d’essere; sconfitta che ha molte radici e tempi, ma che possiamo collocare, nella sua fase più visibile e clamorosa, tra il ’78 e l’80.

2) Un secondo motivo di interesse per riprendere in mano «Primo Maggio», parte dall’ipotesi che si sia trattato di una rivista importante nella formazione degli storici della classe operaia della mia generazione, e dunque tornare a rileggerla trent’anni dopo mi è parso un modo di verificare fondatezza o ingenuità di entusiasmi, adesioni e illusioni che vanno confondendosi nel trascorrere del tempo; tra le letture di formazione di chi nei primi anni Settanta si accostava alla storia di classe, mi pare che abbiano comunque avuto un certo peso una serie di questioni e di riflessioni tipiche della cultura operista, da Operai e capitale di Mario Tronti, per giungere a «Classe» diretta da Stefano Merli e a «Primo Maggio». In comune le varie anime dell’operaismo hanno una critica radicale della storiografia tradizionale del movimento operaio, che appariva ben attrezzata per la storia e la filologia delle organizzazioni, ma del tutto muta su quelle vicende e lotte che contraddicevano le teorie centrate sulla preminenza della coscienza di classe, e del partito che ne sarebbe naturale depositario.

Molte delle innovazioni interpretative e dei nuovi campi d’indagine (per esempio la rivalutazione della conflittualità operaia e sociale negli Stati Uniti, il rovesciamento dei rapporti fino ad allora dati per ovvi fra lotte e organizzazione politica e sindacale ecc…) rappresentano, più che originali intuizioni di Primo Maggio, una traduzione operativa di un comune patrimonio dell’operaismo italiano e internazionale fin dai primi anni Sessanta che Mario Tronti ha di recente così sintetizzato:

«Credo proprio che la definizione strategica dell’operaismo sia quella di una cultura e di una pratica del conflitto». [2]

Vi è però una sostanziale differenza, che consiste in questo: mentre le ipotesi teoriche e le pratiche politiche dei «Quaderni rossi» e di «Classe operaia» sono tutte inserite nell’onda montante delle lotte dell’operaio massa degli anni Sessanta, quando «Primo Maggio» nasce, nel 1973, sono già visibili le tappe di una complessiva bruciante crisi; la stagione espansiva della centralità operaia, di una sua egemonia sociale e politica, è ormai, almeno in parte, alle spalle; da cui la scelta, che caratterizza la rivista, di propugnare una storiografia operaia «militante» ritenuta strumento indispensabile per affinare categorie interpretative che si sono rivelate inadeguate a comprendere le ragioni di debolezza del progetto di centralità operaia, non meno che a rovesciare l’impianto della storiografia tradizionale.

In concreto, la storiografia militante che la rivista si propone di praticare concentra l’attenzione su oggetti fino ad allora sostanzialmente ignorati o confinati nel campo delle scelte perdenti, delle debolezze imputate alla mancanza di un partito (come appunto il sindacalismo rivoluzionario italiano, o l’anarco-sindacalismo americano degli Iww). Mi limiterò ad alcuni esempi che illustrano con chiarezza cosa intenda «Primo Maggio» con «storiografia militante».

Prima di proseguire è però doverosa da parte mia una precisazione: nella mia memoria «Primo Maggio» era catalogato soprattutto come la rivista del rinnovato punto di vista sulla storia di classe, e ancor più della scoperta delle lotte, e della storiografia sulle lotte del proletariato americano, oltre che della valorizzazione e dell’uso militante della storia orale; memoria non infondata, ma che aveva rimosso un dato evidente a chiunque riprenda in mano una collezione della rivista: in realtà progressivamente «Primo Maggio», pur continuando a presentarsi nella quarta di copertina come rivista di storiografia militante, concederà uno spazio via via più ridotto alla storia operaia, mentre altre questioni divengono più presenti e più urgenti, quali l’uso capitalistico della crisi, le nuove funzioni di regolazione dei conflitti assunti dalla politica monetaria e dallo Stato, le questioni di schieramento politico rispetto alla crisi dei gruppi, al movimento del ’77, alla lotta armata, alla stretta repressiva che culmina con l’operazione «7 aprile».

Non casualmente la rivista, dal numero 8 si occupa molto di movimenti sociali disseminati sul territorio, adeguandosi in tempo reale alla progressiva scomposizione della struttura della forza lavoro e al mutare, con la composizione di classe, delle caratteristiche e anche del rilievo della lotta di fabbrica; ad esempio, per quanto riguarda gli stati Uniti, dai primi travolgenti interventi storiografici sulle lotte dell’Iww si passa all’analisi del movimento dei disoccupati 1930-1933 (Peppino Ortoleva); e, nello stesso numero, alla cronaca delle lotte per la casa a Milano.

Già nel numero 7, prendendo le mosse dalla crisi dell’Innocenti, Sergio Bologna scrive (p. 86) che essa dimostra «quanto sia ideologico rappresentare l’omogeneità politica di massa della classe operaia come nel ’69, quanto la frantumazione politica di fabbrica sia consolidata, quanto la crisi abbia spaccato la classe tra destra e sinistra operaia».

Progressivamente, dunque, diviene pervasivo lo spessore delle questioni più direttamente politiche che incidono drammaticamente, nella seconda metà degli anni Settanta, sul corpo della rivista, e nel ventaglio dei suoi interessi, non diversamente da quanto avviene nel corpo della classe operaia.

È questa parte della rivista che era stata sottoposta nella mia memoria, se non ad una censura, certo a una parziale rimozione, benché a suo tempo leggessi rigorosamente tutti gli articoli, dagli editoriali di Sergio Bologna ai saggi, faticosissimi almeno per me, di Lapo Berti sulla moneta.

E dunque devo premettere che è fortemente riduttivo, anche se per nulla illegittimo, centrare il mio discorso sulla nozione di storiografia militante portato avanti dalla rivista, isolandolo da un contesto progressivamente molto più articolato e mutevole; ma è su questo aspetto che mi interessa richiamare l’attenzione.


Che cos’è la storiografia militante

Bruno Cartosio, introducendo sul numero 1 della rivista un saggio sulle lotte guidate dagli anarco-sindacalisti americani nel primo quindicennio del Novecento, [3] scrive che «l’insorgenza di nuovi modi di lottare e di nuovi soggetti sociali a protagonisti delle lotte impose allora, come ora, la modifica delle categorie di giudizio necessarie per l’organizzazione del nuovo».

Centrale, nel brano, e nell’impostazione del lavoro storiografico di «Primo maggio», è proprio quel ora come allora; la produttività-legittimità dell’indagine esige questo nesso («molto di quello che loro hanno portato nella fabbrica va riportato dentro la fabbrica e attorno ad essa», p. 44), in quanto la storiografia militante pone al suo centro le lotte, e lotte che hanno per protagonisti «dell’insubordinazione capitalistica» la figura «dell’operaio massa dequalificato, sprofessionalizzato, del disoccupato bianco e nero, del sottoproletariato nero dei ghetti urbani». Si tratta insomma di rintracciare e valorizzare nella storia di classe americana situazioni, comportamenti, modelli d’organizzazione del tutto alternativi al modello europeo e terzinternazionalista, soprattutto in quanto sembrano fortemente anticipatori della situazione italiana degli anni Sessanta e Settanta.

a) Ciò coincide con il porre come indispensabile un nesso tra storiografia e lotte presenti: le lotte presenti e passate reciprocamente si spiegano; sono le urgenze pratiche e teoriche del presente a spingere sulle tracce delle lotte passate utili a rileggere il presente, e viceversa. Per esempio, una rassegna storiografica dal titolo Per la storia degli anarchici spagnoli è introdotta da questa considerazione: si tratta della storia «più vicina alla nostra storia recente, alle scoperte e alle speranze legate alle lotte del 1968-69 e poi ai tentativi di organizzazione e di progetto politico scaturiti da quegli anni» (numero 6, p. 79); e così Marco Revelli introduce un suo saggio notevole, dal titolo Fascismo come rivoluzione dall’alto, affermando che «tentare di leggere con l’occhio di oggi il ciclo di lotte degli anni ’20 non è forse operazione scorretta» [4]; saggio dichiaratamente in risonanza con l’analisi dell’«uso capitalistico della crisi» degli anni Settanta che la rivista va conducendo sul piano della crisi finanziaria e dei mutati rapporti fra politica ed economia.

I tratti fondativi della concezione storiografica di «Primo Maggio» trovano un’ulteriore limpida esemplificazione nell’uso della storia orale, che diviene una delle novità metodologiche di maggior rilievo della rivista, soprattutto grazie alla partecipazione al lavoro redazionale di Cesare Bermani. La fonte orale viene presentata e vissuta come lo strumento più adatto, per sua natura, a permettere una ripresa della parola dal basso, sottraendo la storia del proletariato e delle sue lotte al dominio delle verità ufficiali, e delle distorsioni che le carte di polizia o le memorie di funzionari e dirigenti di partito implicano.

Bermani scrive, paradigmaticamente, che «la storia orale sarà attendibile solo se il ricercatore è anche un militante, e in quanto tale riscuote la piena fiducia del testimone. La storia del e per il movimento operaio e contadino non può che essere una storia scritta da un militante per i militanti» (…) «la funzione che viene ad assumere lo storico di portavoce e generalizzatore di esperienze non è di poco conto se è vero, come è vero, che soltanto se ciò avviene va avanti la scienza operaia, una scienza che è sempre in funzione di un’attività pratica, una scienza che denuncia, trasforma, genera lotta» per cui allo «storico, militante tra i militanti, è demandato il compito di farsi portavoce delle esperienze della classe e di apprestare canali idonei alla loro circolazione e generalizzazione all’interno di essa e nelle sue organizzazioni» [5].

Sullo stesso argomento, Bologna scrive, in una lettera a Bermani, «mi sembra importante sottolineare come la storia orale implichi un rapporto fiduciario che ne fa uno strumento valido solo di una storia militante, di una storia di compagni scritta da compagni. Non ci interessa la fonte orale “in sé” ma la fonte orale come rapporto di militanza» [6].

Ciò che qui viene affermato per la storia orale è in realtà estensibile alla intera concezione di storiografia militante come viene propugnata dalla rivista, fin dall’incipit della quarta di copertina: «storia di lotte, scritta da compagni per compagni».

In sintesi, alla ricerca storiografica sembra dunque competere una funzione di laboratorio, di riflessione che deve prima di tutto rispondere alle urgenze delle lotte in corso.


Questo strettissimo nesso fra lotte presenti e riflessione storiografica rappresenta, dal mio punto di vista, la principale spiegazione del fascino della concezione del lavoro storiografico propugnata da «Primo Maggio»; collocandosi nel punto più lontano da qualunque esigenza di neutralità e di asettica scientificità (liquidate con un certo sprezzo come tipiche della «storiografia accademica»), questa impostazione abolisce d’un sol tratto, per chi vi aderisca, domande ricorrenti tra gli storici (almeno quando sono giovani e idealisti) grossolanamente riassumibili nella questione «a che serve, a chi serve il mio lavoro?».

Legittimità, utilità, correttezza dell’agire storiografico sono qui verificate esclusivamente dal suo essere interno e in risonanza con le lotte in corso. Dunque, nell’accezione proposta da «Primo Maggio», la committenza era indiscutibilmente data, studiare la classe coincideva con lo studio delle sue lotte, della sua alterità, verificando la capacità delle lotte di produrre identità e organizzazione (o studiando i motivi per cui questi passaggi non si erano determinati); dunque studiare la classe, ben più che un mestiere, diveniva un prender parte, pur con vari distinguo e perplessità, alla lotta in corso; né era allora dubitabile, per me e per molti altri, che di lotta di classe si trattasse, e che l’alterità operaia rispetto al capitale fosse, oltre che una realtà, una buona causa.

Questo nesso strettissimo tra ciclo di lotte e lavoro storiografico era appunto ragione di fascino, ma, come spesso accade, coincideva anche con la massima debolezza di questa impostazione. Debolezza ben visibile soprattutto su due piani.

1. Anzitutto, come lo stesso Bologna avrebbe sottolineato di lì a pochi anni, i tempi della ricerca e della riflessione storiografica sono per loro intima natura diversi da quelli delle lotte operaie e del conflitto sociale [7]; ancor più lo sono i tempi in cui la riflessione storiografica può essere metabolizzata, entrare in circolo, interagire effettivamente con i movimenti, con le lotte, con gli ipotetici, e normalmente inconsapevoli, committenti di quelle indagini e di quelle riflessioni.

Non è dunque un caso che pressoché tutti i saggi storiografici presentati su «Primo Maggio» siano caratterizzati dall’essere, più che il risultato di indagini originali, proposte interpretative, riletture, secondo prospettive a volte radicalmente innovative, di questioni ampiamente note e già dibattute; oppure sintesi, rassegne, a volte molto stimolanti, di problemi di storia operaia fino a quel momento del tutto trascurati dalla storiografia nazionale (è il caso, soprattutto, delle incursioni nella storia delle lotte negli Stati Uniti). Ma proprio l’urgenza, il legame strettissimo con l’attualità e la qualità delle lotte in corso abolisce il tempo e lo spazio per progettare, promuovere, mettere in circolo ricerche innovative e originali all’altezza delle ambizioni della rivista.

2. Né è questo il limite maggiore, se è vero che a partire da questa impostazione diventa ineludibile la domanda: che si fa, quando arriva una sconfitta epocale, quando le lotte si frantumano e poi si inabissano? Se storiografia operaia e storiografia militante coincidono, e sono una funzione delle lotte e della costruzione di una «scienza operaia», in assenza di un soggetto collettivo che esprima una potenzialità di lotta, la storiografia militante sarebbe priva di senso e di scopo, e a essa subentra la «storiografia accademica», che si occupa di operai, mestieri, storie e memorie individuali, trattando di storia operaia come di un qualunque altro oggetto. Con tipica, radicale consequenzialità, nel 1984 Sergio Bologna, in uno degli ultimi numeri di «Primo Maggio», constatata la pesantezza della sconfitta politica che si è consumata nel decennio trascorso, scrive: «dobbiamo ammainare la bandiera straccia di “storia militante”, bruciarla. Tanto, sappiamo come vanno le cose: ci sarà sempre qualche raccoglitore di cimeli che le conserverà nel cassetto» [8]. Affermazione particolarmente amara e drastica, che implicherebbe la rinuncia alla possibilità di una qualunque storiografia operaia non accademica. I progetti della storiografia militante si erano fondati sull’ipotesi di una propria immediata utilità, nel dotare le lotte in corso di modelli teorici e di esperienze storiche, in una fecondazione continua. Venuta meno la composizione politica di classe, e poi lo stesso aggregato di forza lavoro che la esprimeva, vengono meno la possibilità e l’utilità di una storiografia operaia militante. Almeno, di quella accezione di storiografia militante.

In realtà, come lo stesso Mario Tronti ha sottolineato qualche anno fa, è facilmente constatabile «la presenza, l’esistenza, nascosta nelle pieghe della cultura contemporanea, di una serie di ricerche, di ricostruzioni, di analisi, di riflessioni, riguardanti la storia della classe operaia. Questi studi sono più diffusi di quanto non si creda. È solo il clima culturale, e il dominio in esso di un punto di vista superficialmente post-operaio, che non li fa vedere» [9].

Di che storie si tratti, se coloro che se ne fanno carico si sentano raccoglitori di cimeli, o piuttosto protagonisti di una battaglia di lungo corso, di resistenza culturale, a queste questioni forse il convegno offrirà qualche risposta.

Resistere alla rimozione delle lotte, della loro legittimità e grandezza, delle potenzialità, delle contraddizioni che hanno innescato, resistere al trionfo dell’esistente come dotato di necessità e di razionalità indiscutibile, rappresenta, a mio avviso, una forma di militanza, che fa della storiografia operaia una pratica comunque dotata di una sua specificità.

Per altro, resta vero che in assenza di un ciclo di lotte, di un movimento chiaramente identificabile, qualunque militanza diviene più difficile da precisare, da definire, e resta potenzialmente sospesa tra un volontarismo individuale e un lavoro intellettuale onesto ma autoreferenziale.

Insomma, secondo me potrebbe non essere inutile tornare a riflettere, anche, sulle possibili declinazioni del concetto di militanza dello storico di classe operaia, o anche, naturalmente, dell’obsolescenza del concetto stesso.



Note [1] Il primo numero vende 1700 copie, il secondo 2300, il terzo 2800, e poi si passa a 4000-5000 copie. [2] Mario Tronti, in Gli operaisti, autobiografie di cattivi maestri, a cura di Guido Borio, Francesca Pozzi, Gigi Roggero, DeriveApprodi 2005, p. 307. [3] Bruno Cartosio, A proposito della storia degli IWW (Note e documenti sugli IWW – «Primo Maggio», numero 1, p. 43. [4] Marco Revelli, «Primo Maggio», numero 5, 1975, p. 63. [5] Cesare Bermani, «Primo Maggio», numero 5, 1975, p. 48. [6] Lettera di Sergio Bologna a Cesare Bermani riportata nel numero di «Primo Maggio» 19-20, 1983-4, p. 6. [7] Sergio Bologna, Otto tesi sulla storia militante, «Primo Maggio», numero 11, inverno 1977-78. [8] Id, n. 21, p. 62. [9] Paolo Favilli, Mario Tronti, a cura di, Classe operaia. Le identità: storia e prospettive, Franco Angeli 2001, p. 375.


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