Su Territori in lotta di Paola Imperatore (Meltemi, 2023)
Marco Rizzo recensisce il libro di Paola Imperatore Territori in lotta. Capitalismo globale e giustizia ambientale nell'era della crisi climatica (Meltemi, 2023) in cui l'autrice, partendo da alcuni casi di lotte sul territorio italiano, s'interroga a partire dalle questioni che i movimenti e le comunità si pongono, riscattandone la ntura altamente politica.
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I.
Sino a pochi anni fa non avevo mai visto un parco naturale, non ero mai stata in montagna, non sapevo da che pianta nascesse una zucchina, in che ecosistemi nascessero i funghi e in quali habitat vivessero le volpi. Eppure, sentivo crescere dentro di me una coscienza ecologista. Questa coscienza non nasceva da una passione per la bellezza di una «natura» che sentivo il bisogno di difendere, ma è nato in città, leggendo delle lotte in Valsusa, della gente alluvionata che decideva di alzare la testa, dei bambini e delle bambine del quartiere Tamburi a Taranto a cui venivano chiuse le scuole per i fumi dell’Ilva. Quello che mi muoveva non era l’idea di preservare una supposta natura incontaminata, se mai ci possa essere ancora qualcosa di incontaminato, ma la percezione che queste storie e queste battaglie riguardassero in primo luogo il tema della giustizia. […] Proprio perché riguarda il diritto stesso a respirare, a mangiare, a bere acqua, in sostanza a vivere, la natura è il terreno più politico che ci possa essere, e per questo non può che essere un campo di battaglia (pp. 9-10)
Con queste parole di cristallina onestà e di assunzione di responsabilità civica inizia il volume di Paola Imperatore Territori in lotta. Capitalismo globale e giustizia ambientale nell’era della crisi climatica (Meltemi 2023). Si tratta di un testo prezioso perché soddisfa due esigenze non sempre facili da conciliare. È uno strumento di conoscenza su vari frammenti di storia italiana contemporanea, una conoscenza situata ma al contempo equilibrata e onesta; è anche, però, un piccolo deposito di saperi della lotta, una cassetta degli attrezzi disponibile ad essere interrogata e maneggiata per ciò che ancora resta da fare. Un’estesa serie di interviste e l’osservazione partecipante di una militante in ricerca sono gli strumenti scelti per un’indagine rigorosa che (pur pagando qualche pegno all’«accademichese» e ai suoi anglismi) risulta chiara e accessibile anche al comune cittadino e ai militanti e attivisti di movimenti e comitati, che potranno positivamente riflettere sulla propria esperienza e imparare da altre simili. Le oltre 40 presentazioni sostenute nel giro di un anno dalla pubblicazione del volume, sono lì a dimostrare che di uno studio come questo si sentiva il bisogno. In questa recensione cercherò di presentare la ricchezza di temi che il volume mette in gioco, invitando alla lettura integrale e ancor di più all’organizzazione di momenti di discussione pubblica nelle realtà in cui questo testo non è ancora arrivato.
«Compresse tra le narrazioni che le hanno dipinte come Nimby (acronimo di “Not in my backyard”, ovvero “Non nel mio cortile”, ndt) e analisi che si sono soffermate sulla categoria del conflitto, si è perso di vista il fatto che le lotte territoriali sono state in questi decenni un freno al degrado ecologico e alla crisi climatica». (pp. 163-164). Muovendo da alcuni casi di studio privilegiati e sparsi lungo la penisola (il movimento No Tav Terzo Valico tra Piemonte e Liguria, il Comitato No Grandi Navi a Venezia, i movimenti contro la distruzione delle Alpi Apuane, la Campagna No Snam lungo la costa Adriatica, l’opposizione al TAP in Salento e la lotta No Muos in Sicilia) il saggio di Paola Imperatore consegue pienamente l’obiettivo di riscattare la natura altamente politica di queste lotte, formulando interrogativi di peso sul significato di parole come democrazia, sviluppo, comunità e territorio, a partire dalle questioni che questi movimenti e le comunità che ne sono protagoniste più o meno consapevolmente pongono:
I territori su cui questa ricerca si è soffermata non sono i grandi centri finanziari, ma sono spesso aree marginali, sono i lembi di un centro economico-finanziario che si trovano nei piccoli paesi in via di spopolamento del sud Italia, attraversano le aree appenniniche – ancora sospese nell’attesa di un’incerta ricostruzione post-terremoto, sono le valli avvelenate e sventrate del nord Italia. Non sono delle eccezioni, rappresentano piuttosto una più ampia tendenza a fare dei territori marginali delle aree di sacrificio […]. Questa condizione di marginalità – che ha radici storiche, sociali ed economiche profonde e complesse – viene sistematicamente sfruttata attraverso il processo di «stigmatizzazione territoriale» per giustificare nuovi e invasivi interventi sul territorio che, seppur presentati come possibilità di riscatto dalla marginalità, ne costituiscono in realtà un elemento rafforzante. Questo processo implica non solo una sottrazione di risorse e di spazi di decisionalità connessi al territorio, ma anche un «furto di paesaggio» (landscape grabbing) che coinvolge la sfera emotiva, cognitiva e sentimentale degli abitanti di un luogo, nonché il loro legame col territorio, fondamentale per avere delle coordinate e collocarsi nello spazio e nella sua storia. (pp. 41-42)
Fin dai primi capitoli del saggio siamo spinti a prendere coscienza che studiare il business delle grandi opere e dell’industria estrattiva significa fare i conti con uno dei gangli vitali dell’odierno capitalismo: un paradigma differente da quello della grande fabbrica fordista ma enormemente remunerativo, e tanto più intrapreso (anche in tempi di PNRR) in un paese come l’Italia, che sconta da tempo un processo di deindustrializzazione. Il movimento No Tav Terzo Valico sintetizza bene il carattere impoverente di questo modello con uno slogan quanto mai efficace: «Un utile per alcuni, un lusso per pochi, un danno per molti, a spese di tutti». L’immaterialità dei flussi finanziari globali sembra avere infatti il suo rovescio nell’intensificarsi dell’estrazione di profitto dai territori, espropriando le comunità locali del potere di decidere in autonomia il proprio modello di sviluppo, in nome del ricatto occupazionale, di un sempre più astratto interesse generale, di un sempre più vuoto e ricorrente «non c’è alternativa». Paola Imperatore ha il pregio di definire con chiarezza e forza di prove un punto dirimente: la critica alle grandi opere è anche una critica alla dipendenza da esse che si vuole imporre a un territorio. Dandole nuovamente la parola:
Le grandi opere non portano lavoro nel territorio, né generano un indotto in grado di invertire i processi di impoverimento del territorio. Nei territori marginali che stanno già subendo un processo di deindustrializzazione, l’imposizione di nuovi progetti non interviene sulle cause di quella marginalità, ma ne riproduce le medesime dinamiche facendo leva sul ricatto occupazionale, fortemente avvertito in queste aree. […] Questo ci dice che le grandi opere non sono una risposta ai profondi processi di abbandono e depauperamento dei territori, ma semmai ne sono parte attiva e costitutiva.
Infatti questo modello di sfruttamento del territorio produce un saccheggio delle risorse della collettività, innescando una dipendenza del territorio da industrie e attività che assorbono gran parte dei flussi economici locali e che finiscono con l’assumere i tratti di una monocultura. Questo legame di dipendenza – spesso fondato su un altro dispositivo narrativo che è quello della vocazione del territorio che tenta di associare il territorio ad una sua naturale predisposizione economica, sia questa industriale, turistica o altro – impedisce alla comunità locale di immaginare altre relazioni socio-ambientali, intrappolandola dentro uno schema estrattivista che inevitabilmente svuota il territorio delle sue risorse, dei suoi abitanti e dei suoi significati (pp. 77-78).
Un impoverimento che si riproduce con gli stessi caratteri nella grande infrastruttura come nella monocoltura turistica veneziana che ha svuotato la città dei suoi abitanti (e anche per questo avversata dal comitato No Grandi Navi) o in un’industria estrattiva come quella del marmo delle Alpi Apuane. Proprio in quest’ultimo caso, a fronte di miliardi di euro di fatturato delle aziende, solo 28 milioni di euro annui vanno ai comuni della zona, senza contare i danni in termini di inquinamento e di dissesto idrogeologico (8 alluvioni negli ultimi vent’anni). L’indagine del contesto apuano e delle contraddizioni materiali e culturali connesse a una produzione a lungo patrimonio identitario della città di Carrara mette in crisi la narrazione secondo cui di fronte ai posti di lavoro esistenti o promessi (e il più delle volte destinati a rimanere tali, o a dissolversi nel nulla a grande opera finita) le ragioni dell’ambiente dovrebbero se non tacere, al massimo sussurrare senza disturbare. Eppure, proprio nell’industria del marmo nel Nord-Ovest della Toscana, il binomio crescita della produzione/maggiore occupazione si sfalda con numeri impietosi: a fronte di un’estrazione di marmo sestuplicata da 200.000 a 1.200.000 tonnellate all’anno, il numero di lavoratori impiegati si è ridotto dell’80 % tra 1950 e 2005, e continua tuttora a diminuire. Si deve tristemente aggiungere, anche in virtù di un tasso di incidenti e morti sul lavoro particolarmente alto: solo tra 2015 e 2018 si sono contati nel distretto 8 incidenti mortali, e 2 feriti al giorno rilevati all’Asl.
Altro elemento trasversale a molte di queste mobilitazioni è la denuncia dello spreco di risorse pubbliche che si accompagna a questo tipo di modello di sviluppo, in particolare a causa dei costi per la realizzazione di queste infrastrutture che lievitano puntualmente e di non poca entità rispetto al progetto iniziale - spesso, peraltro, senza nemmeno apportare nuove e pur temporanee opportunità di occupazione per la popolazione locale, dal momento che il personale altamente specializzato di cui si necessita per la realizzazione delle grandi opere non può che essere reperito perlopiù al di fuori. Una realtà che rappresenta un punto debole per l’immagine di queste aziende rispetto al territorio che percepisce la loro presenza come intrusiva. Queste se ne rendono conto e tentano perciò di correre ai ripari elargendo sovvenzioni private e piccoli servizi atti a fidelizzare e a nascondere il carattere nocivo del loro operare, anche tramite campagne mirate di greenwashing in risposta ai movimenti ecologisti.
II. Il valore civico che risiede nei tanti piccoli (ma a volte non così piccoli) comitati, movimenti, associazioni, reti di comunità in lotta contro questo tipo di sviluppo regressivo risiede tuttavia in qualcosa di più, e di preliminare: l’esperienza gioiosa della ritrovata comunità da opporre alla galoppante virtualizzazione e privatizzazione delle esistenze. Come dichiarato in un’intervista: «Eravamo abituati, anche per via della politica degli ultimi anni, ad essere egoisti, frenetici, individualisti e competitivi. Questa esperienza ci ha cambiato, ha cambiato anche i nostri rapporti sociali» (p. 63). Nei presidi permanenti come pure nella resistenza agli espropri e all’arrivo dei mezzi di avvio delle grandi opere le forme di vita e le forme di militanza possono incontrarsi, sovrapporsi e contaminarsi a vicenda. Si va qui a rompere la separatezza che sussiste normalmente tra la sfera pubblica e l’esistenza privata: i rapporti umani quotidiani tornano a ripoliticizzarsi, umanizzando al contempo quelli politici e andando così a ridefinire il contorno di quelle che sono le proprie famiglie intese come nuclei affettivi. Un’esperienza trasformativa che in molte realtà si rivela anche essere un formidabile terreno di protagonismo ed emancipazione femminile, come ben emerge dalle parole raccolte da un’attivista No Muos: «In Sicilia, nei paesi come questi, la donna ha ancora quel ruolo di mamma e casalinga (per cui) il fatto che [i comitati di mamme] si muovevano e venivano lì alle 5 del mattino lasciando a casa i figli, e che il marito portava a scuola i figli è stata anche una rivoluzione. Anche se perdiamo questa lotta, comunque a Niscemi c’è stata una rivoluzione sociale che nessuno si aspettava. Non è il fatto che si blocchi o si faccia (il MUOS), ma il fatto che si è sedimentata la capacità di vedere oltre a ciò che la società ti impone». (p. 68)
La capacità di generare nuovi attori collettivi che le lotte ambientali hanno avuto negli ultimi due decenni (a volte saldandosi con istanze pacifiste e antimilitariste, come nel caso dell’opposizione al Muos o al progetto di una base militare nei pressi di Pisa) ne spiega anche l’importanza storica per più di una generazione di militanti e attivisti. Laddove il conflitto capitale-lavoro non si presentava più con la chiarezza e l’intensità dirompente che aveva avuto nel Novecento, i territori in lotta contro le grandi opere hanno rappresentato una palestra di formazione politica e una fonte di immaginario ribelle che ne ha fatto in parte le veci, pur tra contraddizioni e limiti. Nelle esperienze di lotta ideologicamente più mature, o nei contesti in cui alcuni attori politici e sindacali hanno saputo praticare una convergenza virtuosa, si può tuttavia osservare che è stata proprio la vertenza territoriale a riattivare o a ripoliticizzare il conflitto tra lavoratori e imprese. Lo si può evincere, ad esempio, dall’assunzione di istanze ambientali da parte della Lega dei cavatori di Carrara, o dalla scelta di USB Piombino di indire uno sciopero provinciale contro il rigassificatore nell’ottobre 2022.
La riduzione degli orari e dei ritmi di lavoro a parità di salario nell’industria estrattiva ci viene opportunamente indicato come un terreno di convergenza privilegiato tra i movimenti ecologisti e i lavoratori, permettendo di uscire dalla logica dicotomica che vede i lavoratori ora come vittime dei processi estrattivi al pari dei loro concittadini, ora come carnefici del loro stesso territorio. C’è a questo riguardo tutta una storia da disseppellire e reinterrogare, quella dell’ecologismo operaio, delle lotte per la difesa della salute e dell’ambiente sostenute dalle organizzazioni sindacali e dai lavoratori, come nel caso dei processi intentati delle vittime di amianto e dai loro famigliari. Un altro terreno su cui poter costruire positive alleanze, per l’evidente urgenza ecologica e sanitaria che vi si accompagna e per l’opportunità di creare occupazione davvero al servizio della comunità, è il tema delle bonifiche delle tante aree avvelenate dagli scarti industriali che ritroviamo in quasi tutte le regioni italiane ormai.
Degna di interesse è anche la parte del saggio dedicata alla fisionomia che assumono le mobilitazioni a salvaguardia dei territori sia sul piano della dialettica con le istituzioni che in relazione ai media. Il carattere eterogeneo a livello di classe e di posizionamento politico di questi movimenti viene riconosciuto dall’autrice, la quale tuttavia indica nell’antifascismo (a mio avviso, con una qualche forzatura, o in virtù di un ventaglio di situazioni prese in esame che risultano più o meno permeate da una componente di sinistra, moderata o radicale) e nell’antiautoritarismo un elemento di riconoscimento comune.
Viene puntualmente illustrata in queste pagine la dialettica tra palazzo e piazza, tra ragione scientificamente documentata e forza popolare esercitata. È soprattutto sul piano locale che questi movimenti cercano e spesso riescono a trovare sponde (a volte anche sincere e determinate) da parte dei rappresentanti delle istituzioni, al di là del loro colore politico, scontrandosi invece con la tendenziale chiusura del governo centrale ad ogni ipotesi di dialogo e di revisione sostanziale dei progetti imposti al territorio. Ne risulta una messa in tensione della coesione tra i vari livelli istituzionali e le articolazioni territoriali dello Stato che apre interrogativi sostanziali sulla natura della democrazia:
«L’alleanza con gli enti locali si è rivelata importante per gli attivisti territoriali che sono riusciti, tramite le istituzioni, a rallentare l’iter decisionale, a costruire commissioni tecniche di contro-redazione dei progetti, a produrre delibere che hanno ostacolato la realizzazione delle infrastrutture contestate. Attraverso la mobilitazione, le comunità territoriali sono riuscite ad aprire uno scontro tra i livelli di governo non solo quando guidati da partiti diversi, ma anche quando amministrati da attori facenti parte dello stesso partito. Queste frizioni hanno palesato una forte frattura tra il centro, rappresentato dal governo centrale, e le periferie, rappresentate dai territori, che è stata percepita a livello significativo anche dalle stesse istituzioni locali». (pp. 131-132)
Di fronte al rifiuto da parte di una comunità locale di una grande opera calata dall’alto, le istituzioni centrali tendono a delegittimare la protesta derubricandola a capriccio Nimby mosso da interessi particolaristici, disinteressato ai presunti vantaggi generali e alle stesse (nebulose) positive ricadute sul piano locale che l’infrastruttura in questione apporterebbe. Il modello che viene qui riproposto è – osserva Imperatore – di fatto analogo a quello coloniale, teso a creare zone di sacrificio in nome di interessi superiori che spesso coincidono con quelli delle aziende vincitrici della gare d’appalto e del loro indotto, senza dimenticare il rischio costante di infiltrazioni mafiose. Aspetto che viene ben colto in un’intervista: «I conflitti definiti come NIMBY sono definiti proprio da quell’atteggiamento coloniale e paternalista in cui c’è un’autorità centrale che sa qual è il bene superiore, che agisce per il bene del territorio anche contro la sua volontà perché (il territorio) appunto è in uno stato di minorità, non è in grado di comprendere il reale bisogno, le reali esigenze» (p. 111).
Nel costruire e rafforzare quest’immagine hanno ovviamente avuto un ruolo decisivo i media nazionali, i quali tendono a patologizzare le proteste sotto l’ombrello dell’irrazionalità o di cattive infiltrazioni. Rispetto al rischio di essere invisibilizzati, i movimenti territoriali per la giustizia ambientale si trovano dunque a scegliere tra l’adattamento alle regole del sistema mediatico oppure la creazione di media indipendenti. Questi ultimi tuttavia quasi mai sono riusciti a competere con i primi, ricadendo in un circolo vizioso ben noto a tutti e tutte coloro che hanno attraversato esperienze simili: se i media tendono a oscurare messaggi controcorrente, per farli emergere i movimenti devono ricorrere a metodi dirompenti, tali da non poter essere oscurati ma che finiscono per occupare tutto lo spazio della narrazione mediatica, tagliando fuori ancora una volta i contenuti.
Per piegare e costringere alla resa l’opposizione dei movimenti territoriali, i governi centrali hanno peraltro provveduto, attraverso una serie di provvedimenti (Sblocca Italia, Sblocca Cantieri, Decreto Semplificazioni), a smantellare o sospendere gran parte degli strumenti di verifica tecnico-scientifica (come la Valutazione di Impatto Ambientale) e i passaggi di controllo democratico che prima potevano portare al rallentamento o addirittura all’incepparsi dei progetti, oggi sempre più blindati dalla nomina di commissari straordinari sulla base di un paradigma emergenziale costantemente riproposto. In questo scenario, molte di queste lotte hanno visto nel M5S una sponda di riferimento sul piano della rappresentanza politica, riferimento che è tuttavia naufragato con il primo governo Conte in coabitazione con la Lega, fortemente propensa a nutrire di commesse pubbliche questo tipo di economia. Più che di tradimento, è più corretto parlare di resa dei conti con i vincoli sistemici del capitalismo globale a cui gli Stati nazionali si piegano:
Il frame attraverso cui il M5S motiva la decisione di proseguire con i cantieri delle varie opere in questione non è quello tradizionalmente adottato dagli altri partiti, ovvero quello del progresso e della crescita economica, ma quello dei costi e delle penali connesse a un eventuale sospensione del progetto. In sostanza, si dice che l’infrastruttura non ha senso dal punto di vista economico, sociale e ambientale – in vari casi viene anche realizzata una analisi costi-benefici che dà conferma di ciò – ma che a causa dei costi già sostenuti e di quelli che si dovrebbero sostenere bloccando il progetto sia più conveniente terminarla. (pp. 128-129)
Il voltafaccia del M5S ha contribuito notevolmente a seminare una sfiducia consapevole (ma in tanti casi, anche rassegnata) nei confronti del sistema politico esistente, una disillusione motivata verso la possibilità che la «democrazia reale» permetta davvero alla volontà popolare di affermarsi. «Noi non è che vogliamo votare un altro partito, noi non vogliamo votare più persone che ci prendono in giro» (p. 129): queste le eloquenti parole di alcuni attivisti NO TAP che nell’autunno 2018 hanno deciso di bruciare le proprie schede elettorali e alcune bandiere del M5S. Un esito che si aggrava in modo particolare quando subentra il confronto con la repressione che va a colpire questi movimenti, nella duplice veste delle forze dell’ordine e dell’attività giudiziaria.
III. Si arriva qui alla scoperta del volto truce che lo Stato (anche quello democratico) sa assumere in determinate situazione, una scoperta psichicamente e politicamente detonante per molte delle persone intervistate, particolarmente evidente nelle testimonianze di chi ha presto parte alla lotta contro il gasdotto TAP in Salento:
Qui a Lecce si sta completamente calpestando il principio di autodeterminazione di un popolo sul proprio territorio. Se un’intera popolazione è contraria, questo va almeno tenuto in considerazione. Invece lo stato italiano sta mandando l’esercito e la polizia in difesa di una ditta privata e usando un modus operandi che è quello di arrivare coi manganelli e dire io questa cosa la devo fare, se ti metti in mezzo se riesco ti stronco con multe, carte e denunce, sennò ti spacco la testa. Questo è fascismo. (pp. 57-58)
Tra le righe, questo saggio invita a cogliere il cuore di una resistenza politica, ovvero il «che fare?» quando si ha sicuramente ragione e spesso anche un consenso maggioritario attorno alla lotta, eppure le controparti non sono disposte ad ascoltare e a rivedere quanto vogliono imporre. Si innesca qui una dinamica che porta a una resa dei conti, dove a pesare sono i meri rapporti di forza:
Quando le istituzioni sfuggono al confronto e rifiutano di farsi carico delle istanze dei territori calpestandone le volontà, il conflitto si esaspera. Alla decisione di tirare dritto ignorando le voci delle comunità, di inviare militari a difendere i cantieri, di istituire zone rosse garantite dal controllo militare, di circondare territori con filo spinato, fanno da contraltare proteste sempre più ampie e radicali, taglio delle reti dei cantieri, occupazioni, sabotaggi, blocco dei mezzi, e altre azioni che in modo dirompente tornano a rivendicare il diritto di parola sul territorio. (pp. 137-138)
Il prezzo che i movimenti devono pagare in questa fase va a incidere il più delle volte sia sul piano dell’immagine pubblica criminalizzante che i media tendono a dipingere loro addosso, con relative ricadute di consenso (una parte della popolazione prende le distanze da pratiche di lotta giudicate troppo radicali), sia in termini di ricorso all’armamentario bellico della forza pubblica (manganellate, lacrimogeni ecc.), usato per intimorire i manifestanti e scoraggiare la loro partecipazione a future mobilitazioni. A ciò va infine aggiunto l’assai più discreto ma pesante carico economico (dell’ordine delle migliaia o decine di migliaia di euro) fatto di multe, decreti penali e spese processuali che va a incidere direttamente sulle vite delle figure più esposte nella lotta.
Proprio le lotte ambientali sono state anzi, negli ultimi decenni, dei laboratori in cui affinare il sistema della repressione attraverso un ricorso massiccio e metodico a denunce e foglie di via a danno degli attivisti, con l’obiettivo di disarticolare le relazioni interne alla lotta, giovandosi anche di una particolare solerzia e sospetta rapidità da parte di molte procure nel portare a sentenza i relativi fascicoli processuali. Immagine eloquente e sintomatica di tale sforzo di criminalizzazione del dissenso politico è reso evidente dall’istituzione di maxi-processi tenuti in aule-bunker a carico dei movimenti No Tav e No Tap, suggerendo nell’opinione pubblica un apparentamento simbolico tra questo tipo di esperienze associative e la criminalità organizzata (il cui coinvolgimento reale nel business delle grandi opere viene per contro messo in ombra).
Vorrei concludere con la parte a mio avviso più preziosa del volume, che l’autrice e militante partecipe apprezzabilmente non ha voluto eludere: che cosa resta dei territori in lotta quando essi (perlopiù) perdono? E come perdono? Molte delle esperienze collettive di cui qui si dà conto, non diversamente da movimenti sociali di altro tipo, dopo un ciclo ascendente hanno attraversato una parabola di segno opposto, che li ha portati a una sostanziale sconfitta o addirittura alla dissoluzione: «Ad un certo punto, la partecipazione diminuisce, lo scontro si contrae, la visibilità mediatica del conflitto si esaurisce. […] La rassegnazione e la dilagante sfiducia rispetto alle possibilità di avere successo sottraggono risorse motivazionali, emotive e argomentative a favore della mobilitazione, comportando una contrazione della partecipazione». (pp. 65-67)
Un concetto analiticamente efficace che Paola Imperatore propone di utilizzare è quello di demobilitazione ovvero il ritorno degli individui alla sfera privata, da osservare però come processo collettivo distinguendolo quindi dal disimpegno individuale e dalle implicazioni moralistiche che esso inevitabilmente suscita, che a loro volta contribuiscono a indebolire il tessuto comunitario che la lotta ha generato. Rifiutare la divisione tra buoni e cattivi (ovvero lo scoglio su cui i soggetti ostili ai movimenti territoriali vogliono che le comunità si infrangano) quando il conflitto raggiunge i suoi picchi, dovrebbe valere ed essere intelligentemente articolato anche nei casi in cui «qualcuno va e qualcuno resta». Come trarre in salvo il patrimonio di relazioni collettive che un ciclo di lotta ha generato, quando quest’ultimo attraversa una fase di declino, o persino arriva ad esaurirsi del tutto? Mi permetto di dire provocatoriamente che questa domanda dovrebbe rimanere sempre attiva, sin dal primo giorno di mobilitazione, nella mente di chi abita un territorio in lotta contro un rigassificatore, una base militare, l’ennesimo viadotto autostradale. In special modo per coloro che si assumono il compito di dare a questi movimenti una direzione e un orizzonte temporale non di breve respiro, che passa anche dal riscoprire le radici della lotta presente nei conflitti ambientali che l’hanno preceduta.
Si può imparare molto da questo testo per provare a sedimentare una crescita di consapevolezza e di forza collettiva a partire dalla circolazione delle diverse esperienze dei territori in lotta, farne un elemento dirimente per ripensare le idee di vittoria e sconfitta in relazione alla lotta per la giustizia ambientale. Chiunque non riconosca chiaramente e apertamente che far vincere le ragioni ecologiche dei territori è sempre più difficile, di fronte alla potenza di fuoco dell’odierno capitalismo globalizzato, delle multinazionali e dei governi proni ai loro interessi, sta seminando illusioni pericolose e controproducenti. Eppure, anche per chi devasta e inquina i territori che abitiamo vincere può e deve risultare sempre più costoso e difficile, e questo dipende dalla tenacia e dalla qualità della resistenza che siamo capaci di opporre loro. Porsi l’obiettivo di non perdere allo stesso modo la prossima volta significa già cominciare a interrompere la convinzione che comunque il destino è segnato.
Sappiamo che nei prossimi anni, con l’approfondirsi della crisi climatica, ci sarà sempre più da sudare. Se siamo persuasi che le maggiori responsabilità in questo disastro le hanno proprio le aziende e i governi che devastano e impoveriscono i territori per il loro profitto, dobbiamo fare in modo che la prossima volta siano loro a dover sudare di più.
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Marco Rizzo insegna materie umanistiche nelle scuole superiori della Toscana. Nei suoi studi universitari si è occupato di letteratura e censura e dell'opera di Céline. Ha pubblicato sporadicamente alcuni scritti di argomento politico e letterario su varie riviste online. Sa che ad ogni presentazione come questa, chi legge sorriderà pensando a certe strane omonimie.
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