Con la traduzione di questo contributo di Asad Haider, studioso marxista statunitense di origine pakistana, Transuenze esce in parte dai propri abituali temi incentrati su lavoro ed economia in senso stretto. La questione al centro di questo articolo riflette il problematico (da sempre) e oggi troppo spesso banalizzato rapporto tra «collocazione di classe», ideologia e politica. Il testo (scritto prima delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti del 3 novembre) muove dal confronto polemico, usiamo questi termini per velocità, tra «neopopulismo di sinistra» e «politiche dell’identità» intorno al ruolo della cosiddetta classe professionale-manageriale nei processi di costruzione di una politica anticapitalista. Il termine classe professionale-manageriale, coniato a suo tempo da Barbara e John Ehrenreich («The Professional-Managerial Class», 1977), in Italia è poco utilizzato, sul piano sociologico è prossimo a quello di «classe media salariata» o, se si preferisce, di «lavoratori della conoscenza», la cui funzione nella divisione sociale del lavoro si può – in modo generico e semplificato – individuare nella riproduzione della cultura e delle relazioni materiali capitaliste. In senso lato, tuttavia, possiamo dire che questo contributo chiama in causa il posizionamento ideologico e materiale delle figure del lavoro intellettuale in senso ampio. Haider, nell’individuare le sostanziali affinità epistemologiche tra il discorso «anti-PCM» e «pro-PCM», nella loro comune adesione ad un registro riduttivamente sociologico che elude i problemi dell’organizzazione e dell’ideologia nella formazione di una politica di classe, ci sembra fornire la base per impostare una riflessione che, ne siamo certi, ha risvolti importanti anche per la nostra specifica realtà.
Asad Haider è fondatore della rivista Viewpoint Magazine. Nel 2018 ha pubblicato Mistaken Identity: Race and Class in the Age of Trump (Verso, 2018) ed è curatore di una prossima antologia intitolata The Black Radical Tradition: A Reader (Verso, 2021). Suoi contributi possono essere letti in The Baffler, n+1, The Point, Salon e altrove. Il testo qui tradotto è stato pubblicato sul suo blog (https://asadhaider.substack.com) nel luglio 2020, con il titolo «PMC Posturing».
Immagine: Winston Smith, Chi controlla la mente controlla il mondo, 1986
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Una delle forme più autolesioniste di pensiero identitario della sinistra contemporanea ruota attorno alla cosiddetta «classe professionale-manageriale» – anche se, solitamente, è collegata a un veemente attacco alla «politica dell’identità» [1].
Questi professionisti e manager, di solito indicati come «PMC», sono stati definiti come quei lavoratori cognitivi salariati le cui mansioni incarnano, essenzialmente, la riproduzione del capitalismo, e che hanno quindi interessi economici distinti e antagonisti rispetto a quelli della classe operaia, costituendo quindi un ostacolo alla realizzazione del socialismo.
Potete star certi che gli aderenti al discorso anti-PMC risponderanno a questo saggio smascherandomi in qualità di suo esponente, denunciando la mia appartenenza di classe e dichiarando che tutto ciò che dico è in effetti una razionalizzazione degli interessi di classe della PMC. Naturalmente, la maggior parte di queste persone saranno anch’esse membri della PMC. Il discorso anti-PMC sembra essere stato inaugurato da podcaster e professori. Questa è la contraddizione che alla fine emerge quando le argomentazioni procedono su basi identitarie. Purtroppo, alla fine, nessuno di noi è veramente puro. Il senso di colpa che ne deriva significa solo che dobbiamo denunciare ancora più duramente l’inautenticità altrui.
Non difenderò la PMC. Alcune risposte al discorso anti-PMC consistono nell’ipotizzare che poiché la PMC sta subendo dei processi sempre maggiori di proletarizzazione e di mobilità verso il basso, i suoi interessi potrebbero convergere con quelli della classe operaia. Questa teoria è attraente per i membri della PMC, poiché questi sono effettivamente processi reali. Ma io trovo questa risposta pro-PMC poco convincente. La trovo poco convincente poiché prima di tutto è chiaro che gli strati che compongono la PMC – che costituiscano o meno una classe in termini marxiani resta un problema irrisolto – costituiscono effettivamente una minoranza della popolazione distinta dalla maggioranza della classe operaia, la quale è estremamente influenzabile dal pensiero elitario e ciò costituisce spesso un ostacolo alla politica di massa della classe operaia. Anche le peggiori teorie hanno un qualche rapporto con la realtà. Dubito anche che le lotte operaie degli aspiranti membri della PMC – anche se vi ho partecipato personalmente e ne ho beneficiato – avranno un ruolo centrale nel costituire un potente movimento operaio o una politica socialista. Le élite istruite che vogliono costruire il socialismo dovranno abbandonare le loro torri d’avorio e unirsi alla lotta di classe della maggioranza operaia, il che richiederà, da parte loro, rovesciare completamente i loro schemi mentali e imparare da quelle persone che solitamente ignorano o disprezzano.
Tuttavia, il discorso anti-PMC non è stato in grado di spiegare e analizzare queste problematiche, proprio perché ha adottato un modello identitario che riduce il fare politica all’accusa, rivolta verso i propri avversari, di avere un pessimo background di classe. Questo discorso trasforma la classe in un attributo dell’identità individuale e annulla qualsiasi discussione politica, che dovrebbe essere incentrata sul contenuto degli argomenti piuttosto che sull’identità di chi parla. Invece, gli oratori vengono semplicemente denunciati come membri della PMC, in un discorso che alla fine equivale all’ingiunzione «check your privilege». Si tratta di un inutile moralismo che persino parecchi studenti delle Liberal arts schools riuscirebbero a comprendere.
Secondo queste teorie, l’appartenenza alla PMC, quindi, dovrebbe spiegare perché le persone dicono quello che fanno, e allo stesso tempo screditare qualsiasi cosa dicano. Le loro idee sarebbero un mero riflesso dei loro interessi economici in quanto membri della PMC, e il loro unico obiettivo sarebbe riprodurre le disuguaglianze di classe. Perciò i membri della PMC sarebbero sostanzialmente disinteressati o addirittura incapaci di prendere una posizione in favore della classe operaia. Potrebbero addirittura non riuscire a concepire l’idea che una politica della classe operaia esista, e quindi cercheranno sempre e soltanto di razionalizzare i loro interessi di classe. Inutile dire che una considerazione tale delle capacità intellettuali del proprio avversario fa sentire gli accusatori molto intelligenti.
Nonostante la PMC sia apparentemente nata alla fine del XIX secolo, questo discorso sostiene che la PMC eserciti un tipo di politica «neoliberale». Si potrebbe credere, come d’altronde farebbe qualunque serio studioso del neoliberalismo, che questo sia un fenomeno storicamente specifico, risultante dalla strategia della classe dirigente per rispondere alla crisi postbellica del capitalismo, e attuato attraverso un programma di ingegneria sociale basato sulle teorie di figure come Friedrich Hayek. In realtà – sostengono gli anti-PMC – i «neoliberisti» sono, banalmente, quelli a cui piacciono i mercati e le disuguaglianze: in questo modo chiunque abbia idee non gradite può essere descritto così, specialmente se critico nei confronti del razzismo o se ha partecipato a qualche protesta. Si potrebbe anche credere che i membri della PMC siano spesso socialmente conservatori, come i membri benestanti del Tea Party e i sostenitori di Donald Trump, e che il neoliberalismo abbia storicamente legato l’ideologia del mercato al populismo di destra (specialmente il nativismo e i «valori famigliari»), come fecero Thatcher e Reagan. No, dice il discorso anti-PMC: il neoliberalismo è «woke» [2], dunque anche la PMC è «woke». La prova inconfutabile sta nel fatto che le persone «woke» sono invariabilmente anche neoliberali e membri della PMC. Come volevasi dimostrare.
Questo tipo di ragionamento produce un botta e risposta a-storico e a-politico sulla rettitudine morale della PMC, che definisce la «wokeness» come neoliberale o liberatoria. Nonostante il linguaggio economico, la disputa in definitiva finisce per definire la classe in base a dei tratti culturali, e difende una visione della cultura operaia piuttosto che un’altra.
Tuttavia, il problema non è se la PMC sia buona o cattiva, ma piuttosto l’intero quadro – lo chiamerò quadro sociologico – che presuppone che le ideologie e i programmi politici siano diretta emanazione della posizione sociale. Questa è la ragione concettuale per cui trovo la risposta pro-PMC poco convincente: perché condivide le premesse difettose della teoria anti-PMC, accettando l’intero quadro che vede che programmi e ideologie come espressione della posizione sociale. I molti membri della PMC che odiano se stessi e che proiettano questo odio sui colleghi PMC altro non fanno se non smentire questo stesso assunto: in altre parole, hanno idee che contraddicono i loro presunti interessi economici oggettivi.
Devo sottolineare che la critica del quadro sociologico si applica anche alle teorie che rendono conto del rischio di un’eccessiva omogeneizzazione del concetto di «PMC». Mi riferisco alle teorie che distinguono, per fare un esempio, tra avvocati e proprietari di concessionarie d’auto. Queste teorie sono certamente più sfumate e per certi aspetti sono utili a mappare l’opinione pubblica. Tuttavia esse sostengono, sempre dall’interno del quadro sociologico, che la PMC sia una categoria inutile che, in quanto tale, dovrebbe essere abbandonata. In questo modo, anch’essi fanno riferimento al quadro sociologico di cui sopra, e devono essere criticati su questa linea.
Il quadro sociologico sembrerebbe «materialista» e persino «marxista» (anche se in realtà non sembra avere alcuna correlazione con le opere di Karl Marx e con la successiva storia del marxismo). In realtà è una posizione debole che non solo non riesce a spiegare i fenomeni reali (ad esempio la mancanza di allineamento delle idee delle persone con la loro posizione sociale), ma è anche incapace di affrontare le sfide politiche di oggi, che potrebbero rendere possibile il socialismo e che i marxisti hanno effettivamente affrontato per almeno 172 anni.
A mio parere, infatti, l’intera discussione sulla PMC sposta e oscura due problemi assolutamente centrali nella storia del marxismo: il problema dell’organizzazione e il problema dell’ideologia. Entrambi questi problemi possono essere riassunti molto semplicemente in due formule classiche: la presa di coscienza delle persone è determinata dalla loro appartenenza sociale (Marx), e la «fusione» tra socialismo e movimento operaio (Kautsky).
La prima formula è ovviamente molto potente, perché mostra come la storia non sia guidata dalle idee, ma piuttosto dalla materialità dei rapporti sociali che i soggetti agiscono senza esserne sempre consapevoli. Gli intellettuali hanno sempre la tendenza a esasperare la forza causale delle loro idee. Tuttavia, presa isolatamente, questa formula pone anche importanti problemi. Se si estende questa argomentazione, è difficile determinare come le persone possano formare una coscienza che sia contro la struttura sociale esistente, se è proprio questa struttura a determinare, di fatto, la loro coscienza.
Il modo in cui il marxismo classico affrontava questo problema era attraverso una narrazione progressiva della storia, in cui le contraddizioni insite nella struttura sociale portavano ad una sorta di sviluppo automatico di una coscienza di classe oggettivamente esistente. Se da un lato questa concezione è estremamente allettante – la storia è dalla nostra parte – dall’altro, purtroppo, le cose non hanno mai funzionato così. Le rivoluzioni nei paesi capitalisti più sviluppati sono fallite, e anziché dare corpo a una coscienza di classe, vediamo come i membri di queste società presentano ideologie molto contraddittorie, che combinano atteggiamenti progressisti, come l’opposizione alle disuguaglianze, con atteggiamenti conservatori, come la fede nell’imprenditorialità.
Quindi Marx ed Engels avrebbero presentato una visione più articolata dei processi politici rivoluzionari. Nelle rivoluzioni, effettivamente, ci sono sempre diverse posizioni di classe in gioco, diverse forme di alleanze tra classi e frazioni di classe, e diversi programmi che si generano a partire da queste alleanze. L’opzione socialista deve essere realmente costruita, e non risulterà invece automaticamente dalle forze della storia. Inoltre, la determinazione dei fenomeni sociali da parte dell’economia non è assoluta. Anche la «sovrastruttura» che poggia sulla «base» economica può essere causa di alcuni fenomeni, avendo una sua efficacia relativamente autonoma. Se si ignora questo aspetto, non sarà mai possibile capire davvero i fenomeni politici, né sarà possibile formulare una strategia di successo.
La seconda formula (quella della «fusione») era abbastanza importante, poiché dava una spiegazione del perché il marxismo, che doveva essere la dottrina della rivoluzione proletaria, fosse in realtà prodotto da intellettuali. Molti dei cortocircuiti teorici sugli intellettuali, che il discorso della PMC oggi elide, sono stati invece efficacemente posti nella storia del marxismo. L’idea di fondo era che per capire e opporsi efficacemente alla società capitalista era necessaria la scienza borghese, la comprensione scientifica della società generata dall’economia politica e dalla filosofia critica. Il marxismo era, in questo senso, la più grande realizzazione del potenziale scientifico del pensiero borghese, e doveva necessariamente venire dalle menti degli intellettuali (così sosteneva Kautsky). Il movimento operaio stesso, le lotte quotidiane della classe operaia per condizioni migliori, non avrebbero necessariamente portato a un’opposizione al sistema salariale, alla proprietà privata e allo stato capitalista, dunque le intuizioni scientifiche del marxismo erano necessarie. La base per il cambiamento rivoluzionario si sarebbe così costituita nel momento in cui questa concezione scientifica del socialismo fu introdotta dall’esterno nel movimento operaio, che incarnava invece l’auto-organizzazione della classe operaia.
In pratica, tuttavia, questa fusione pose problemi relativi all’organizzazione molto importanti. Succedeva infatti che spesso gli intellettuali diventassero parte di una leadership che veniva imposta alla classe operaia, anziché impegnarsi per coltivare la leadership dei lavoratori stessi. Così, nonostante la base storica dell’idea che gli intellettuali dovessero portare la coscienza socialista alla classe operaia dall’esterno, si correva il rischio di generare un modello elitario di politica. Si è d’altronde generata anche una notevole confusione concettuale: come ha fatto notare la comunista italiana Rossana Rossanda, come è possibile che gli intellettuali riescano in qualche modo a sfuggire miracolosamente alla loro collocazione sociale e ad adottare una coscienza scientifica, se è proprio la collocazione sociale stessa a determinare la coscienza?
In effetti, si potrebbe sostenere che gli intellettuali, il cui compito è quello di diffondere le ideologie, sono molto più propensi a razionalizzare il sistema già esistente, a differenza dei lavoratori che, vivendo quotidianamente lo sfruttamento, sono più propensi a comprendere il sistema che li sfrutta. Eppure la formula della «fusione» ha avuto ragione nel riconoscere che questa comprensione non avviene in modo spontaneo; deve essere costruita all’interno di forme organizzative che minano la posizione superiore degli intellettuali e facilitano il fiorire delle capacità intellettuali dei lavoratori.
La leadership della classe operaia da parte degli intellettuali fu il risultato del fatto che il marxismo nacque e proliferò proprio tra di loro; essa ha tuttavia prodotto strutture antidemocratiche che hanno ostacolato lo sviluppo dell’auto-organizzazione della classe operaia. Ha anche contribuito all’emergere di uno strato burocratico nelle organizzazioni socialiste e sindacali, intenta a perseguire i propri interessi invece che quelli della classe operaia. La politica d’élite associata alla PMC, in questo senso, non è una novità, e sicuramente non è una specifica della c.d. «social justice» o delle «identity politics», ma corrisponde piuttosto a quello strato burocratico che è sempre e costantemente emerso nella politica socialista. Questi burocrati parlavano la lingua della classe e del socialismo, e non quella della «wokeness».
I marxisti rifletteranno su queste questioni per tutto il XX secolo, per comprendere i problemi politici dell’organizzazione e dell’ideologia in un modo che non li riducesse a meri riflessi della «base» economica. In effetti, l’organizzazione e l’ideologia hanno spesso ricoperto un ruolo fondamentale nel produrre determinati fenomeni, e incarnavano spesso proprio il terreno su cui i rivoluzionari dovevano intervenire, essendo questo anche il terreno entro cui la classe dominante formulava strategie per preservare la stabilità del sistema. Questo è quello a cui una reale comprensione marxista del neoliberalismo dovrebbe condurre: al capire come la classe dominante abbia formulato una nuova strategia politica per gestire la crisi del capitalismo postbellico. Questa strategia si basava innanzitutto su uno Stato forte – che è poi una delle ragioni per cui la postura degli autoproclamati marxisti, per cui qualsiasi posizione contro la repressione statale sarebbe da considerare neoliberale, risulta ottusa.
La teoria marxista ha anche dovuto riconoscere che l’ideologia non è semplicemente un’illusione in cui tutto il mondo appare sottosopra, ma è effettivamente prodotta dalle istituzioni, e in questo senso diviene anche «materiale». (Per alludere brevemente a un complesso problema teorico: un dualismo che sostiene l’esistenza di idee e materia è in realtà idealista; il materialismo, invece, postula che non ci sia una realtà al di là della materia). Inoltre, l’ideologia è sempre modellata e confutata dai processi politici contingenti. Non esiste una situazione in cui i proletari aprono gli occhi, rivelando improvvisamente gli interessi di classe oggettivi. Piuttosto, ci sono processi politici, processi organizzativi, attraverso i quali si costituiscono particolari interessi di classe. Il populismo opinionista che dice che la classe operaia svilupperà automaticamente la propria coscienza non è dimostrabile empiricamente, e non è logicamente sostenibile. La relazione tra appartenenza sociale e presa di coscienza non è automatica.
Per questo motivo, la prospettiva populista non può in alcun modo prevenire l’elitismo. L’elitismo non è un problema nuovo, nato nel XXI secolo dal neoliberalismo. È un problema di base e fondamentale della politica socialista che richiede una risposta seria, e non invece ipocrite schermaglie tra intellettuali. Insistere semplicemente sull’esistenza un presunto punto di vista autentico della classe operaia, come se bastasse per stemperare il ruolo degli intellettuali, non ingaggia alcuna sfida politica e organizzativa sistematica contro l’elitarismo. Per di più, ci impedisce di riconoscere quanto il discorso politico sia monopolizzato da un’élite intellettuale, che usa il discorso della PMC per sostenere falsamente di rappresentare l’autentico punto di vista proletario.
Sia la posizione pro che quella anti-PMC si innestano sugli stessi presupposti, che hanno una visione meccanicistica dell’organizzazione e dell’ideologia, e che oscurano i processi politici reali che invece le costituiscono. Anche se la PMC sta subendo dei processi di proletarizzazione, non significa che necessariamente svilupperà un carattere «rivoluzionario». Ma, d’altronde, non c’è nemmeno alcuna garanzia che la stessa classe operaia sviluppi automaticamente idee rivoluzionarie. Sono proprio i presupposti meccanicistici di fondo di entrambe le posizioni a dover essere messi in discussione. Sfortunatamente l’intero dibattito sulla PMC sembra essere basato su una tacita e universale accettazione del quadro sociologico, piuttosto che sul quadro propriamente politico del marxismo che ci aiuterebbe a impegnarci in quei processi politici che potrebbero effettivamente portarci verso il socialismo.
Traduzione a cura di Giulia Page.
Note della traduttrice [1] La formulazione inglese «identity politics» fa riferimento alle politiche basate sull’appartenenza a un determinato gruppo, generalmente subalterno, a partire da tratti, appunto, «identitari», come ad esempio la razza, il genere, ecc. [2] Il termine «woke» viene utilizzato nel mondo anglosassone per indicare una «consapevolezza» rispetto a problemi sociali e politici (come ad esempio razzismo, disuguaglianze, ecc.); tuttavia, il recupero del termine da parte delle forze progressiste negli Stati Uniti (nella fattispecie, del Partito Democratico, finendo per essere rivendicato anche dall'attuale Presidente Biden) ha fatto sì che il termine cominciasse ad essere utilizzato anche in senso «dispregiativo», definendo quindi una postura liberal-progressista e non invece antagonista.
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