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La porta delle lacrime, le risa del capitale e l'inflazione. Riflessioni amare sulla crisi del Mar Rosso


crisi del Mar Rosso

Nel testo odierno, Andrea Pannone riflette sulle conseguenze economiche del conflitto in Medio Oriente e delle azioni del gruppo yemenita Houthi.

È un testo molto utile perché spiega i maggiori beneficiari delle tensioni belliche, gli interessi materiali sul campo e dunque le contraddizioni tra gli attori della guerra.


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La guerra nello stretto e le conseguenze sul commercio mondiale

 Come ci ricorda il National Geographic Magazine, Bab el-Mandeb, in arabo la Porta delle lacrime, è una piccola strozzatura geografica nel Mar Rosso che ha un'influenza enorme sull’economia mondiale: è un punto chiave per il controllo di quasi tutte le spedizioni tra l'Oceano Indiano e il Mar Mediterraneo attraverso il Canale di Suez[1]. Da lì, come ormai noto, passa quasi il 15% del commercio marittimo globale, compreso l’8% del commercio mondiale di cereali, il 12% del petrolio commercializzato via mare e l’8% del commercio totale di gas naturale liquefatto.

Da circa due mesi alcune navi che transitano in quel tratto sono prese di mira dai droni e dai missili del movimento yemenita Houthi, da anni sostenuto dall’Iran. Alcune navi, non tutte però. Solo le navi mercantili che navigano al largo delle coste dello Yemen e che hanno collegamenti con Israele. Gli stessi Houthi presentano gli attacchi come una risposta alla mancata condanna da parte dell’occidente al massacro che il governo di Netanyahu sta compiendo a Gaza. In realtà, si potrebbe a buon diritto sostenere (come fa ad esempio Emiliano Brancaccio nell’articolo Lo stretto necessario, il Manifesto, 23 gennaio 2024) che le azioni degli Houthi, sicuramente ben note a Teheran, vadano a vantaggio di un progetto antitetico a quello dell’Occidente che mira a contrastare, anche con l’imposizione di barriere commerciali e finanziarie, la crescente sfida dei competitor cinesi e russi al dominio economico degli Stati Uniti e al loro storico ruolo guida delle relazioni geopolitiche. Qualunque sia la loro effettiva motivazione, gli scontri armati hanno avuto come conseguenza l’aumento delle tensioni belliche in Medio Oriente e l'arrivo di navi da guerra di diversi paesi occidentali (in particolare statunitensi e britanniche, ma anche le navi italiane dovrebbero rivestire un ruolo) allo scopo di pattugliare l'area, mentre molte compagnie internazionali di shipping (ad esempio Maersk Line, Hapag Lloyd e Mediterranean Shipping Company)  stanno decidendo di tornare a percorrere come in passato la rotta più lunga e più costosa per raggiungere il Mediterraneo: quella che obbliga alla circumnavigazione dell'Africa. Difficile prevedere in prospettiva l’esito di questo nuovo scenario di guerra. Questo scritto si prefigge, coerentemente all’approccio già seguito in Pannone 2023(a) e 2023(b), di focalizzare l’attenzione non già sulle finalità  geopolitiche degli Stati o dei gruppi armati coinvolti nel gioco delle parti, quanto sugli interessi materiali dei gruppi economico-finanziari che possono trarre maggiore beneficio da un’escalation controllata del conflitto in Medio Oriente – di cui la guerra con gli Houthi è solo l’ultimo atto – e che oggi hanno il potere di plasmare le politiche dei governi e il destino dei popoli.

 

I maggiori beneficiari delle nuove tensioni belliche

 Entrando nel merito, appare chiaro come la tendenza crescente di molte navi ad evitare le acque e la zona di conflitto in Mar Rosso e nel Mediterraneo orientale rappresenti un’immediata minaccia per gli scambi commerciali sia sottoforma di aumento delle tariffe di nolo, sia in termini dei ritardi che si ripercuoteranno sulle catene di approvvigionamento globali di merci. Lo spedizioniere digitale Flexport ha quantificato in almeno 7-10 giorni l’impatto in termini di transit time per la scelta di navigare intorno all’Africa rispetto all’alternativa tradizionale di sfruttare il Canale di Suez per servire gli scambi commerciali fra Europa e Asia. A queste criticità si aggiungono quelle in atto da mesi nel canale di Panama (a causa della siccità), dove transita il 5% del commercio mondiale. Tutto ciò alimenta le preoccupazioni di un nuovo rallentamento dell’economia mondiale e di un nuovo rafforzamento del fenomeno inflazionistico (si veda più avanti), la cui ricomparsa dopo più di 30 anni di moderazione è stata ricondotta da molti osservatori alla persistenza di colli di bottiglia nella catena del valore globale indotta dalle restrizioni della fase pandemica. Non per tutti, però, questi sviluppi presentano necessariamente svantaggi. Ad esempio, l’allungamento delle rotte per le navi che circumnavigheranno l’Africa può contribuire a ridurre l’ormai cronico eccesso di capacità di trasporto marittimo nel settore container, una componente fondamentale del commercio internazionale di merci[2]. Nell’ultimo decennio la sovracapacità è stata un tema ricorrente a causa del rallentamento della crescita economica globale, aggravata ulteriormente nel 2020 dalla diffusione del Covid che ha esasperato il mismatch tra la crescita del potenziale di trasporto delle flotte di portacontainer e la crescita effettiva della domanda. Solo nel 2021 la domanda è riuscita a superare la crescita della capacità, ma si è trattato di un’eccezione dovuta al rimbalzo dell’economia mondiale con il venir meno delle restrizioni dovute alla riduzione dei rischi sanitari[3]. Con una previsione di crescita annuale dell’offerta potenziale che oscilla tra il 5% e il 6,35% fino al 2025, mentre la domanda è cresciuta solo dello 0,3% nel 2023, la persistenza di un eccesso di capacità nel settore del trasporto marittimo si è riproposto con grande evidenza e, con esso, le prospettive di profitti inferiori alle attese degli operatori. Per queste ragioni l’industria dello shipping è stata interessata negli ultimi dieci anni da un frenetico processo di integrazione verticale e orizzontale, condotto attraverso un’intensa attività di fusioni e acquisizioni fra le linee di navigazione. Queste ultime sono passate dai 30 liner presenti all’inizio degli anni Novanta agli attuali 14, mentre i primi 10 detengono l’84% della quota di mercato. In un simile quadro, l’interruzione dei transiti sul Mar Rosso e l’allungamento delle rotte per le navi che circumnavigheranno l’Africa hanno alimentato le «scommesse» degli operatori finanziari sulla possibilità che il problema della sovracapacità del settore marittimo potesse essere significativamente contenuto, così come potessero essere scongiurate guerre al ribasso dei prezzi dei noli, estremamente rischiose per la sostenibilità dell’intero comparto[4]. Per effetto di queste nuove aspettative il valore delle azioni del gruppo danese A.P. Moller-Maersk A/S e di quelle della tedesca Hapag-Lloyd AG (tra le principali compagnie di shipping internazionale) nonché del vettore israeliano Zim Integrated Shipping Services, si è fortemente impennato non appena si è acuita la crisi nello stretto. Non è ovviamente nemmeno un caso che BlackRock, notoriamente uno delle società di gestione patrimoniale più importanti del mondo insieme a Vanguard e State Street – nonché una delle più grandi società statunitensi per fatturato – abbia rilevato a metà gennaio di quest’anno il 100% di Global Infrastructure Partners (GIP) – un fondo di investimenti in infrastrutture – con un'enorme transazione da 12,5 miliardi di dollari. Infatti, un aspetto trascurato dell’acquisizione è che attraverso GPI, BlackRock è diventato un partner di minoranza della Mediterranean Shipping Company, entrando a pieno titolo nell’industria del trasporto marittimo in vista di una forte crescita attesa dei titoli del settore.

Esistono poi altre imprese che sono in grado di trarre notevoli benefici dall’aumento delle tensioni nel Mar Rosso. Come ogni altro conflitto che si verifica in quella regione, le grandi compagnie petrolifere e l’OPEC traggono vantaggi differenziali a scapito delle principali aziende (e paesi) non petrolifere(i). Come mostrato da Bichler e Nitzan il differenziale di profitto petrolifero è strettamente correlato al prezzo relativo del petrolio, misurato come rapporto tra il prezzo in dollari del greggio e l’indice dei prezzi al consumo statunitense, o CPI. Il prezzo relativo del petrolio, a sua volta, è altamente sensibile alla percezione del «rischio» del Medio Oriente, reale o immaginario. Queste percezioni del rischio tendono ad aumentare in preparazione e durante i conflitti armati; e man mano che i rischi aumentano, fanno crescere il prezzo relativo del petrolio e, quindi, il profitto differenziale delle compagnie petrolifere. Non è difficile, quindi, scorgere una stretta convergenza degli interessi di queste compagnie con quelle coinvolte nella produzione dei sistemi d’arma (principalmente Lockheed Martin, Northrop Grumman Corporation, Raytheon (ora RTX), Halliburton e Boeing), che già all’indomani dello scoppio del conflitto a Gaza il 7 ottobre hanno visto i loro titoli crescere considerevolmente di valore. Solo tra il 7 ottobre e il 19 novembre, infatti, il Ministero della Difesa israeliano (IMOD) ha emesso ordini per un totale di 4 miliardi di shekel (1,08 miliardi di dollari) alle aziende dell’industria della difesa. Gli speculatori scommettono quindi sull’aumento della domanda di missili, artiglieria e altre tecnologie militari che i venti di guerra dovrebbero alimentare, trasformando le aspettative del prossimo futuro in immediate plusvalenze finanziarie[5]. Non sappiamo ancora quanto possa durare questa tendenza rialzista ma non c’è dubbio che le guerre Russia-Ucraina del 2022, Hamas-Israele del 2023 e ora le tensioni belliche nel Mar Rosso abbiano rilanciato con forza le prospettive di entrambe le aggregazioni di interessi. L’esistenza di molte altre aree del pianeta dove, nel quadro di un assetto geopolitico mondiale sempre più fragile, si stanno ancora combattono conflitti ad «alta intensità» (cioè anche con armamenti pesanti) potenzialmente degenerativi - quali ad esempio i conflitti in Siria, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana, nord del Mozambico, Nord Kivu e Ituri della Repubblica democratica del Congo, Tigray in Etiopia nonché ancora in Iraq, Nigeria; oltre alla guerra della Turchia contro i Kurdi, e altre ancora (si veda a questo link) – autorizza quelle aggregazioni di interessi, all’opposto dei popoli della terra, a guardare al futuro con un certo ottimismo.

 

Interessi capitalistici divergenti e vantaggi della Proxy war

 Esiste poi un’aggregazione di interessi che potrebbe invece risentire in modo contradditorio dall’aumento delle instabilità associata all’acuirsi del conflitto nel Mar Rosso e, in generale, da un perdurante clima di guerra. Essa è costituita dal complesso delle aziende digitali quotate in borsa che ottengono profitti differenziali dalla proprietà intellettuale di «asset immateriali». Laddove in precedenza una considerevole parte dei loro profitti sembrava scaturire fondamentalmente dal progresso tecnologico, ora i guadagni dipendono sempre più dalla capacità di protezione legale della tecnologia da parte delle stesse aziende e da altre forme di esclusione, che rendono sui mercati finanziari i loro stessi asset sempre più appetibili, in quanto ci si aspetta che anche molti altri investitori scommettano sulla loro specificità e cerchino di acquistarli, contribuendo così a farli crescere di valore. Tuttavia, le condizioni generali necessarie per la diffusione, l’imposizione e l’apprezzamento inflazionistico dei diritti di proprietà intellettuale sono opposte a quelle favorevoli alla crescita dei prezzi indotta dalle armi e dal petrolio. Non richiedono cioè instabilità, forza pura e violenza, ma piuttosto un’apparente stabilità interna e internazionale, apertura agli scambi, fiducia nell’innovazione e un certo ottimismo per il futuro. D’altra parte, l’impopolarità nelle odierne democrazie delle guerre asimmetriche e il rallentamento dell’economia globale hanno portato in un recente passato ad inevitabili tagli di bilancio della difesa in tutto il mondo occidentale. Sebbene la guerra tra Russia e Ucraina, come pure il nuovo conflitto tra israeliani e palestinesi, abbia riaperto le opportunità per allentamenti dei vincoli di bilancio a vantaggio della spesa militare, sia negli Stati Uniti che In Europa, la logica stessa di quei vincoli ridurrebbe necessariamente lo spazio dell’intervento dello Stato a favore della transizione digitale – che insieme alla transizione «verde» è tra i principali mantra dell’attuale ideologia capitalistica – di cui la domanda pubblica costituisce una componente imprescindibile.

In altri termini, lo scenario che favorirebbe un’aggregazione di interessi potrebbe indebolire l’altra, e viceversa[6]. E poiché entrambe le aggregazioni di interessi (quella relativa a petrolio e armi da una parte e quella digitale dall’altra) hanno una notevole influenza sulla politica interna degli Stati Uniti e sulle relazioni internazionali, il conflitto o la composizione dell’equilibrio tra loro diventa cruciale per il destino della guerra in Medio Oriente e altrove[7]. Questo contribuisce a spiegare quello che appare ondivago, incerto o inerte nelle strategie diplomatiche occidentali, anche in presenza di un massacro palese, all’opinione pubblica mondiale come quello che il governo di Tel Aviv sta compiendo a Gaza. Ad ogni modo, esiste in generale una possibilità di evoluzione delle tensioni belliche che può rappresentare uno spazio di compromesso per i due gruppi di potere e di interconnessione dei loro destini. Esso è rappresentato dalla Proxy war ossia una guerra a bassa-media intensità ma di lunga durata, istigata da una superpotenza ma che non implica affatto la sua partecipazione diretta, e che viene combattuta per interposta nazione e per interposto popolo[8]. Il contrassegno di questa tipologia di conflitto è costituito dal maggior utilizzo da parte degli Stati di compagnie militari private che operano negli scenari più instabili, garantendo l’approvvigionamento dei sistemi d’arma più innovativi, l’addestramento della polizia, il supporto di intelligence, la protezione delle risorse strategiche e delle installazioni vitali, come anche la protezione dell’incolumità dei leader civili. Le più grandi aziende digitali (le cosiddette GAFAM: Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), che sono all’avanguardia nello sviluppo di tecnologie avanzate, quali l’IA e la tecnologia cloud; che sono dedite alla raccolta e all'analisi di grandi quantità di dati, inclusi dati personali; e che sono in grado di produrre soluzioni e servizi per proteggere (o attaccare) le infrastrutture critiche da (con) minacce cibernetiche, costituiscono quindi i destinatari primari dell’attuale domanda del complesso militare industriale e dei governi (vedi Coveri et al. 2023)[9]. Ad esempio, in un rapporto dinamico (ossia in costante aggiornamento) del maggio 2023, il centro di ricerca indipendente WHOprofits esamina i diversi modi in cui Microsoft, Cysco System, IBM e Dell Technologies sostengono l’occupazione israeliana dei territori palestinesi attraverso la fornitura di infrastrutture, tecnologia, conoscenza e prodotti alle istituzioni sia civili che militari. In alcuni casi le aziende sono coinvolte nella realizzazione di progetti che interessano direttamente l’esercito israeliano, mentre in altri le aziende forniscono software o attrezzature per il funzionamento di un sistema più ampio, che ha lo scopo di rafforzare la capacità di un’economia di occupazione israeliana già altamente tecnologica e orientata ai dati, accrescendo la sua capacità di espropriare, reprimere e sorvegliare i palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde.

In conclusione, questa modalità di declinazione dei conflitti bellici, posto che non vada fuori controllo e degeneri in un’imprevista escalation, può favorire il raggiungimento di un punto di equilibrio tra gli interessi divergenti delle due aggregazioni di potere, sia sul piano industriale che su quello dell’appetibilità dei loro titoli finanziari.

 

L’inflazione come spazio di convergenza tra interessi industriali diversi

 Esiste poi un altro elemento che potrebbe costituire uno spazio di convergenza tra interessi capitalistici diversi e che, come accennato in precedenza, potrebbe trarre nuova linfa dalle interruzioni delle rotte di trasporto nel Mar Rosso: un nuovo rilancio dell’inflazione. Il recente riproporsi di questo fenomeno nel 2022-2023 dopo un lungo periodo di sostanziale inerzia, infatti, è stato associato da molti osservatori agli aumenti dei prezzi nei mercati delle materie prime – in particolare quelle energetiche (petrolio, gas, ecc.) – e di alcuni beni intermedi, come anche di beni alimentari di prima necessità, ad esempio il grano. Tali aumenti (come detto prima) sono stati prevalentemente attribuiti al rimbalzo dell’economia verso la fine della fase pandemica e alla presenza di colli di bottiglia lungo le catene del valore globali, ed esacerbati dalla guerra in Ucraina (vedi ad esempio Saraceno). C’è allora il concreto timore che il conflitto con gli Houthi, riproponendo analoghe difficoltà nelle modalità di approvvigionamento delle merci, possa re-innescare nuovi aumenti dei prezzi che, come già verificatosi nel recente passato, colpirebbero probabilmente i beni proporzionalmente più presenti nei panieri delle classi meno abbienti (energia, alimentari). La persistenza nel tempo degli aumenti ossia un’inflazione non transitoria, però, richiederebbe l’esistenza di vincoli strutturali dal lato dell’offerta. Già nella prima fiammata inflazionistica, quei vincoli sono stati individuati da alcuni economisti (vedi ad esempio Francesco Saraceno 2023, ma anche Riccardo Bellofiore e Andrea Coveri 2023, 2024), negli squilibri settoriali e nelle strozzature proprie delle fasi di transizione della tecnologia e delle preferenze dei consumatori, che colpiscono alcuni mercati più di altri. Tali fasi – come la transizione verso le tecnologie «green» e digitali attualmente in atto in molte economie, richiedono infatti una riconfigurazione del tessuto produttivo che non può mai avvenire istantaneamente, in quanto vincolata ai tempi di costruzione della capacità produttiva. Questo approccio si pone in evidente contrasto con la visione dominante che considera l’inflazione come un fenomeno macroeconomico determinato da un eccesso di domanda aggregata (rispetto all’offerta aggregata), reso possibile da una eccessiva liquidità (troppo denaro per troppo poche commodity) e in definitiva neutro nel suo impatto (non avendo alcun effetto duraturo sull’economia reale). Nessuna delle due interpretazioni, a parere di chi scrive, coglie l’elemento essenziale dell’attuale fenomeno inflazionistico che, al netto degli effetti temporanei delle restrizioni da Covid, si innesca fondamentalmente per effetto di comportamenti speculativi sui mercati finanziari[10]. L’aumento dei prezzi di energetici, del grano e di altre cosiddette commodity non è infatti riconducibile al gioco domanda e offerta sui mercati spot ma dipende fondamentalmente dalla stipula di contratti a lungo termine – i futures – che sono dei contratti finanziari con i quali l’acquirente e il venditore si impegnano dopo un tempo prestabilito a scambiare una determinata quantità di una data merce a un prezzo prefissato[11]. Naturalmente, i prezzi spot[12] e i prezzi dei contratti a lungo termine non sono indipendenti gli uni dagli altri. Tuttavia, i prezzi sono determinati dalla dinamica che si crea nella «scommessa» più che nel mercato reale. E i prezzi reali seguono come un’ombra ciò che è stato scommesso o immaginato. Così, ad esempio, i prezzi dei combustibili, dell’energia e del grano non dipendono da una reale penuria ma anche e soprattutto da cosa avviene nelle grandi borse merci del pianeta e, quindi, sono soggetti a un’elevata volatilità e a pressioni speculative[13]. Nel caso in cui si affermi in questo contesto una tendenza rialzista, come è avvenuto per i prezzi del gas e di altre commodity già ben prima dello scoppio della guerra in Ucraina, le imprese che operano sui mercati reali si troverebbero di fronte a un generalizzato aumento dei loro costi. Data la struttura prevalentemente oligopolistica dei mercati nella maggior parte delle economie moderne, le imprese più grandi sarebbero in grado di trasferire l’aumento dei costi sui prezzi, proteggendo, ma anche accrescendo gli stessi margini di profitto, come già probabilmente avvenuto a partire dalla seconda fase della pandemia (vedi Nikiforos e Gothe 2023)[14]. Chiaramente i prezzi non si adeguano istantaneamente e simultaneamente in tutti i mercati. Ma se ci sono connessioni input-output tra diversi settori produttivi e la spinta iniziale dei costi è abbastanza importante (come in effetti è stato di recente), l’aumento dei prezzi si propagherebbe e cumulerebbe nell’intero sistema economico. Anche le imprese con minore potere di mercato tenterebbero, infatti, almeno di proteggere i propri margini di profitto aumentando i prezzi in proporzione costante all’aumento dei costi, secondo le linee della consueta equazione di markup (vedi il noto articolo di Weber e Wasner 2023). La ripresa dell’inflazione che le economie sono tornate a sperimentare dopo un lungo periodo di stagnazione dei prezzi è, quindi, evidentemente trainata dai costi e dai profitti, non dai salari. Gli ultimi, semmai, hanno subito subito un’ulteriore decurtazione in termini reali che ha ulteriormente alterato la distribuzione del reddito a scapito dei lavoratori[15]. L’inflazione, da questo punto di vista, rappresenta un terreno di convergenza, sebbene piuttosto diversificato, di interessi industriali diversi.

Non tutti gli economisti non mainstream, comunque, concordano completamente sull’esistenza di un’«inflazione da profitti». Ad esempio, Lavoie (2023) sostiene che la quota dei profitti sul reddito nazionale sarebbe potuta in teoria crescere (come avvenuto negli ultimi tre anni), almeno in parte a causa della ripresa ciclica dell’economia dopo la fase pandemica, e non necessariamente a causa dell’aumento dei margini[16]. Ad ogni modo, se la crisi del Mar Rosso rilanciasse (come è lecito attendersi) la tendenza rialzista sulle borse delle merci – in un momento in cui l’economia mondiale torna a mostrare chiari segni di rallentamento – è molto probabile che l’aumento medio dei margini finisca per essere il vero fattore trainante di un’eventuale ripresa inflazionistica.

 

Guerra, inflazione e centralizzazione del capitale finanziario

 Esiste infine un ultimo punto che voglio sottolineare e che riguarda la relazione tra aumento delle tensioni belliche, inflazione e finanziarizzazione dell’economia. Proprio la forte incertezza che torna ad aleggiare sul contesto economico e geopolitico, continuerà a spingere le imprese più grandi a riversare i profitti già accumulati (e nuovamente accumulabili) con l’inflazione verso l’acquisto di asset non riproducibili (titoli, azioni, beni immobiliari, ecc.) sui mercati finanziari, contribuendo a farli crescere di valore e lucrando sui differenziali di prezzo attraverso una pluralità di contratti con caratteristiche temporali definite. Il fenomeno ha assunto enorme rilevanza dopo la crisi del 2007-2009, allorché l’enorme disponibilità di credito favorita dalle politiche di «allentamento quantitativo» delle banche centrali per rilanciare l’economia si riversò sui mercati borsistici, contribuendo a creare una vera e propria inflazione finanziaria. Quest’ultima ha potuto beneficiare del fatto che una quota considerevole di queste operazioni si è tradotta in operazioni di buyback (ossia di riacquisto delle proprie azioni finalizzate a sostenere i corsi azionari, rendere attrattivi nuovi acquisti e ottenere capital gain) [17]. Negli anni una simile tendenza ha finito per riguardare anche le imprese a forte vocazione dinamica e innovativa, (quali ad esempio Apple, Google, Facebook e la stessa Microsoft), alcune delle quali si sono trasformati in vere e proprie holding finanziarie. Questo perché i processi di innovazione tecnologica richiedono sempre la destinazione di una quantità consistente di risorse ad attività (come la spesa in R&S) dall’esito fortemente incerto, incertezza che si amplifica per effetto della forte competizione internazionale sui mercati più redditizi. Tutto ciò ha finito per generare, specie per le imprese corporate, un vero e proprio drenaggio di risorse dagli investimenti produttivi verso quelli finanziari, rallentando la ripresa dell’attività economica e contribuendo a gonfiare bolle speculative[18]. Ad ogni modo i profitti derivanti loro dalle attività di borsa sono andati a compensare (o più che a compensare) la caduta dei profitti derivanti dalle attività industriali, sempre più in difficoltà in un’economia progressivamente stagnante. Con la ripresa delle tensioni belliche e le aspettative di ripresa dell’inflazione, coerentemente, si prevede che i riacquisti di azioni proprie aumenteranno quest’anno dopo il calo registrato nel 2023, grazie agli utili stratosferici registrati verso la fine dello stesso anno dalle aziende più grandi (in particolare quelle tecnologiche e legate ai servizi per le imprese, che stanno sostituendo le società orientate ai beni di consumo, che un tempo dominavano l’economia globale). L’importo totale dei riacquisti potrebbe salire nel 2024, secondo la stima di Deutsche Bank a 1.000 miliardi di dollari.

L’opzione finanziaria non è però, soprattutto oggi, praticabile da tutte le imprese. Se infatti all’indomani della crisi del 2008 anche imprese meno grandi potevano provare a percorrerla – potendo contare su un ampio credito a buon mercato – oggi, con tassi di interesse rialzati dalle stesse autorità monetarie allo scopo dichiarato di combattere la ricomparsa dell’inflazione[19], solo chi ha accumulato una notevole quantità di profitti (ossia le imprese oligopolistiche più grandi) può limitare le sue necessità di esposizione esterna per finanziare la proprie attività in borsa. Per le altre – ad esempio le piccole e medie imprese – indebitarsi a leva per scommettere su titoli e azioni diventerebbe un’opzione molto rischiosa e, di fatto, scarsamente praticabile[20]. Esistono poi altre imprese e settori che, sebbene più solide finanziariamente delle precedenti, potrebbero incontrare alcune difficoltà a perseguire massivamente l’opzione finanziaria: oltre alle aziende operanti nell'estrazione di petrolio, gas naturale o produzione di energia convenzionale, ci sono ad esempio le compagnie telefoniche e di telecomunicazioni; le aziende che operano nella produzione di beni di consumo durevoli, macchinari o componenti industriali; i marchi automobilistici consolidati, che potrebbero essere considerati forti nel settore, ma potrebbero avere un limitato appeal in borsa a causa della necessità di affrontare sfide come la transizione verso veicoli elettrici, la competizione con nuovi attori nel settore della mobilità e le incertezze legate alla domanda globale di veicoli.

È lecito attendersi, quindi, che questa differente opportunità tra grandi imprese oligopolistiche che operano su mercati transnazionali e tutte le altre, accentui ulteriormente la spinta al fenomeno di centralizzazione della ricchezza finanziaria in poche mani già in atto da tempo nell’economia mondiale (vedi Brancaccio et al. 2022), accrescendo ancora di più il divario economico e di potere tra i diversi gruppi di imprese. Attraverso questa ricchezza, spesso parcheggiati in paradisi fiscali off shore in attesa di vantaggiosi impieghi, le grandi corporations possono controllare i pacchetti azionari di una miriade di imprese – a volte in competizione tra loro sugli stessi mercati reali – attraverso artifici finanziari simili alle scatole cinesi. Osserviamo, però, che il processo di centralizzazione qui descritto stia in realtà correndo in parallelo al meccanismo di estrazione del plusvalore basato sulla produzione descritto da Marx nel Capitale; meccanismo rispetto al quale le grandi oligarchie finanziarie transnazionali hanno limitato interesse, al punto di farne oggetto di un vero e proprio «sabotaggio strategico»[21] che sottrae risorse agli investimenti produttivi e che fagocita molteplici attività economiche a fini esclusivamente speculativi[22]. Lo stesso processo, ad ogni modo, deve trovare un qualche punto di equilibrio con gli interessi del capitale produttivo ed evitare che l’ultimo si indebolisca troppo. Nessun business finalizzato all'accumulazione di capitale pecuniario, infatti, potrebbe vivere senza che si continui ad accumulare, almeno in qualche misura, capitale fisico per produrre beni. Il «sabotaggio» non può quindi estendersi oltre certi limiti in quanto senza la sfera della produzione il capitalismo stesso non potrebbe esistere. Quando questo equilibrio non può essere mantenuto è possibile che l’instabilità conseguente assuma la forma di uno scontro tra gruppi di potere, spesso anche paludata sotto le vesti di conflitti armati circoscritti tra nazioni e governi, le cui strategie politiche economiche e militari sono sempre più eterodirette e plasmate dalle finalità di quei gruppi, vedi Pannone 2023(a). Sotto questo profilo, come abbiamo visto in questo scritto, tensioni belliche e inflazione costituiscono per quei gruppi un articolato spazio di convergenza/contrasto.

In conclusione, come per ogni guerra, se vuoi capire cause e conseguenze di quanto sta accadendo nel Mar Rosso «segui i soldi» e non le politiche degli Stati che sono subordinate alla loro logica. Questa consapevolezza non servirà ovviamente a fermare le guerre, ma potrebbe aiutare a ricordare alle persone (e agli intellettuali) perché non va mai sostenuto il gioco delle parti e perché va sempre contrastato qualunque tipo di appoggio materiale ai conflitti armati.



Note

[1] Il nome sembra riferirsi ai pericoli della navigazione in questa stretta via d'acqua, piena di correnti trasversali, venti imprevedibili, scogli e secche. Molte navi nei secoli e nei millenni passati sono naufragate nello stretto, mentre le navi moderne devono affrontare anche i pericoli delle mine navali di conflitti passati.

[2] I container sono ampiamente utilizzati per la movimentazione efficiente di merci su scala globale. Secondo dati dell'UNCTAD (Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo), circa l’80-90% del commercio mondiale viene trasportato via mare, e gran parte di questo volume è costituito da container.

 [3] Nel 2021 i trasportatori transoceanici hanno incassato profitti stimati attorno ai 150 miliardi di dollari, con un aumento del 900 per cento dopo un decennio di difficoltà.

[4] Si può infatti osservare che la fine della collaborazione tra i vettori MSC (Mediterranean Shipping Company) e Maersk, annunciata per il 2025 e finalizzata a preservare un’autonomia decisionale delle due società, aveva fatto emergere tra gli analisti non poche preoccupazioni su un possibile incremento della competizione nel settore e su ulteriori ribassi di prezzo finalizzati a sottrarre clienti al concorrente. Data la rilevanza delle due compagnie nell’attuale assetto del mercato, questo avrebbe portato rapidamente ad intaccare la fiducia degli operatori sulla possibilità di contare su una catena di approvvigionamento delle merci stabile ed efficiente.

 [5]Anche in questo caso interessante a riguardo mettere in luce chi sono gli azionisti più rilevanti delle società che producono armi. In Lockheed Martin, quattro grandi fondi, Vanguard, Black Rock, State Street e Geode Capital Management possiedono circa il 35% del capitale, mentre arrivano quasi al 40 in Northrop Grumman Corporation e al 30% in Raytheon. In Boeing «si fermano» al 20% e in Halliburton superano il 32%.

[6] Stessa considerazione vale per soggetti che producono per i mercati interni in condizioni non-monopolistiche e in modo del tutto svincolato dalla produzione militare. È allora evidente che non tutta l’economia capitalista possa beneficiare in modo rilevante e uniforme dall’aumento della spesa per armamenti e dall’attuazione di progetti di espansione militare con finalità egemoniche.

 [7] Questa influenza, come è noto, viene esercitata anche attraverso il cosiddetto meccanismo delle «porte girevoli» (in inglese «Revolving Doors»), termine con cui si identifica in questo caso il passaggio di funzionari pubblici e politici dal settore pubblico a quello privato. Parlo in dettaglio di questo meccanismo nell’Amministrazione degli Stati Uniti nella nota 7 in Pannone 2023(b).

 [8] Nel 1964 il politologo Karl Deutsch, definì la Proxy war (ossia la guerra per procura) «un conflitto internazionale tra due potenze straniere, combattuto sul suolo di un Paese terzo, mascherato da conflitto su una questione interna di questo Paese, e usando parte del personale, delle risorse e del territorio di questo stesso Paese come mezzo per raggiungere obiettivi e strategie prevalentemente stranieri». Sebbene il concetto sia noto sin dai tempi della guerra fredda, esso si è recentemente riproposto in forme nuove, proprie di un contesto geopolitico ed economico del tutto diverso, sia nel caso del conflitto in Siria che in quello, più recente, in Ucraina.

[9] Inoltre, alcuni dei player digitali sono sempre più funzionali all’opera di sorveglianza e controllo della popolazione da parte dei governi, attraverso una sofisticata repressione e censura di ogni istanza critica della narrazione dominante dei conflitti bellici. Un recente report della società di analisi dei media Graphika, insieme alla Stanford University, ha individuato una strategia su Facebook (ma anche di Twitter e Instagram) orientata a influenzare gli utenti dei social network in Medio Oriente e in Asia a favore di commenti e informazioni sulla politica estera americana e contro la Russia. Tale circostanza è stata rivelata dal «Wahington Post» e confermata dalla portavoce di Meta (la società madre di Facebook). Tutto questo è stato reso possibile grazie all’introduzione di un nuovo algoritmo proprietario, il News Feed – che sfrutta gli sviluppi raggiunti dalla ricerca pubblica campo del Machine Learning – il cui scopo principale è quello di segnalare, tra le migliaia di possibili post di aggiornamento, quelli che potenzialmente potrebbero interessare di più e quindi di fornire il contenuto giusto alle persone giuste al momento giusto. Su questa problematica lo stesso fondatore di Facebook ha recentemente ammesso in parte la responsabilità.

 [10] Osserviamo che la visione dominante, che attribuisce la crescita dell’inflazione all’esistenza di eccessi di domanda a livello aggregato, risulta scarsamente credibile data la ormai chiara evidenza dalla fine degli anni ’90 di un trend inesorabilmente decrescente nell’utilizzazione della capacità produttiva in praticamente in tutte le più importanti economie del pianeta (vedi Pannone 2023a). Due recenti paper di Gahn (2022) e Nikiforos (2021) forniscono significativi riscontri empirici di questa tendenza in relazione agli Stati Uniti. D’altra parte, la visione che attribuisce il carattere strutturale dell’inflazione all’esistenza di squilibri settoriali, teoricamente utile nei periodi di cambiamenti qualitativi quali quelli dell’economia post-Covid e delle guerre, implica che, almeno in alcune industrie, l’eccesso di domanda debba esistere a causa dei ritardi nella costruzione della nuova capacità produttiva che darebbe luogo a carenze di offerta. Ad ogni modo, proprio nei settori in cui ci dovrebbe attendere questa situazione, ad esempio il settore agroalimentare, quello dell’industria delle auto elettriche, dei semiconduttori e di altri nuovi usi delle tecnologie green (l’industria della moda green) e digitali, il fenomeno di un eccesso di capacità produttiva e sovraproduzione, con l’eccezione di periodi transitori, risulta più che evidente. Ciò ci spinge a manifestare forti dubbi sull’attuale rilevanza di questo approccio.

 [11] I futures rientrano tra gli strumenti finanziari cosiddetti «derivati» e sono nati per offrire protezione dall'incertezza e dai rischi dei mercati. Nel 2000 però l'allora presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, e l'allora presidente della Federal reseve, Alan Greenspan, liberalizzarono il mercato dei derivati col Commodity Futures Modernization Act. Con quella liberalizzazione qualsiasi trader, pur senza essere minimamente interessato al possesso di una data materia prima in quanto merce, può comprare e vendere future della stessa per cercare di guadagnare sulle fluttuazioni dei prezzi dei future stessi. Così facendo i future sono così diventati derivati «nudi» (nacked future), cioè pura speculazione. Con la liberalizzazione dei derivati nudi le contrattazioni sono diventate delle scommesse su tutto ciò su cui si può scommettere. A questi contratti di tipo più tradizionale si aggiungono tipologie di derivati finanziari di più recente invenzione: Credit Default Swap, indici EFT, carbon credits.

[12] Il mercato spot è un mercato in cui si possono acquistare commodity con pagamento e consegna immediati. Con il termine spot ci si riferisce anche al prezzo pagato contestualmente all’acquisto o alla vendita di un bene; ovviamente questo prezzo cambia in continuazione, soprattutto se i volumi di scambio sono alti. Il mercato spot si differenzia dal mercato dei futures per il fatto che nel secondo caso, il bene viene solo «opzionato», viene cioè concesso il diritto di acquistare o vendere un asset ad un determinato prezzo entro una certa scadenza.

[13] Ad esempio, la determinazione dei prezzi agricoli avviene in particolare in quelle di Chicago, Parigi, Londra e Mumbai, che non sono istituzioni «pubbliche», bensì realtà private i cui principali azionisti sono costituiti dai più grandi fondi finanziari globali. Nel caso del Chicago Mercantile Exchange, i pacchetti più rilevanti sono in mano a Vanguard, BlackRock, JP. Morgan, State Street Corporation e Capital International Investitors. Lo stesso dicasi per il principale mercato per gli scambi all’ingrosso di gas, denominato Title Transfer Facility (TTF), una piattaforma virtuale (e un indice) della borsa di Amsterdam gestita da European Energy Exchange (EEX) – una società controllata dalla multinazionale tedesca Deutsche Börse – e  dalla Intercontinental Exchange (ICE), una società americana che controlla anche la borsa di New York. Questo spiega, ad esempio, il motivo per cui, durante la crisi da coronavirus, i prezzi dei generi alimentari sono aumentati, quando il cibo era tutt'altro che carente. Oppure il fatto che il prezzo del gas aveva cominciato a salire ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina.

[14] Esistono già alcuni riscontri empirici preliminari che un aumento medio dei margini di profitto potrebbe essersi verificato negli ultimi tre anni.  Si vedano ad esempio ad esempio Konczal e Lusiani 2022, Glover et al. 2023, ma anche alcuni casi di studio in Weber e Wasner 2023. A giugno del 2023 Nikiforos e Gothe hanno annunciato la prossima uscita di un loro paper in cui si stima il mark up medio delle aziende attraverso il database Compustat. Dai risultati preliminari del loro lavoro emerge che il margine di profitto medio ha continuato ad aumentare nel 2022, anche se in misura minore rispetto al 2021. Parte dell’aumento sarebbe stato determinato dall’aumento della quota di mercato delle aziende con margini più elevati. Ad ogni modo gli stessi autori riconoscono la necessità di ulteriore lavoro empirico per consolidare queste conclusioni.

[15] Sicuramente l'aumento dei salari nominali registrato per l'anno 2021 (5%) è più alto rispetto agli anni precedenti a causa dei trasferimenti statali ai lavoratori nella fase di pandemia; ma comunque l’aumento ancora inferiore al tasso d'inflazione annuo (6,8%), il che significa che i salari reali sono diminuiti. Non andrebbe comunque sottovalutato l’effetto della contrazione dei salari reali sulla domanda aggregata e sulla produzione/occupazione, che potrebbe raffreddare l’intensità della spinta inflazionistica deprimendo l’economia.

[16] Sostiene Lavoie 2023 che, a causa dell’esistenza di costi generali (fissi), man mano che l’economia si riprende – e l’utilizzo della capacità aumenta – il costo totale unitario tende a diminuire. Se le imprese fissano il prezzo come margine sul costo variabile unitario, anche se il margine rimane costante aumenterà il ricarico sul costo totale unitario. Ne deriva che tenderà ad aumentare anche quota di profitto rispetto ai salari.

[17] Ad esempio dal 2009 al 2017, secondo i calcoli di Artemis Asset Management, le sole aziende americane hanno riacquistato in Borsa azioni proprie (buyback) per un totale di 3.800 miliardi di dollari. Sia nel 2015 che nel 2016, anni da record, hanno speso per comprare i propri titoli e per distribuire dividendi più di quanto abbiano totalizzato come utili.

 [18] Le evidenze statistiche in base alle quali le società non finanziarie destinano una quota inferiore dei profitti agli investimenti fisici, mentre aumentano i rendimenti agli azionisti attraverso acquisti e riacquisti di azioni, non sono limitate agli Stati Uniti. Una consistente quantità di dati OCSE mostra come le stesse tendenze siano ormai evidenti in molte economie sviluppate. Vedi Gruber e Kamin 2017. 

[19] Come è noto, questo comportamento delle banche centrali trova giustificazione teorica nell’impianto concettuale neoclassico/monetarista.  In base ad esso, l’aumento dei tassi di interesse rallenterebbe gli investimenti produttivi raffreddando le pressioni sulla produzione e sul mercato del lavoro e disinnescando il processo inflazionistico. L’interpretazione dell’inflazione fornita in queste pagine è invece opposta a quella neoclassica, e ritiene che un aumento dei tassi come quello fin qui praticato dalle autorità monetaria, serva solo a indebolire ulteriormente la domanda aggregata, la produzione e l’occupazione, accentuando la tendenza alla finanziarizzazione dell’economia e alla radicalizzazione nella distribuzione dei redditi.

[20] Quando un'impresa si indebita a leva con le banche per investire in borsa, si impegna a utilizzare una combinazione di fondi propri e prestiti per amplificare il potenziale rendimento degli investimenti. Questa pratica è conosciuta come «leveraged trading» o «margin trading». Le imprese possono ottenere finanziamenti dalle banche attraverso prestiti o l'emissione di obbligazioni. L'uso della leva consente loro di aumentare la dimensione delle posizioni in borsa, sperando che i rendimenti generati superino i costi del debito. Tuttavia, è importante notare che la leva aumenta anche il rischio, poiché le perdite possono essere amplificate allo stesso modo dei profitti. Questa strategia può portare a guadagni significativi, ma comporta anche rischi considerevoli. Le fluttuazioni del mercato possono avere un impatto notevole sull'indebitamento dell'impresa, mettendo a rischio la sua stabilità finanziaria. Inoltre, se i mercati non si comportano come previsto, l'impresa potrebbe trovarsi in difficoltà nel rimborsare il debito contratto. È chiaro che l'aumento dei tassi di interesse può influenzare significativamente l'indebitamento a leva. Quando i tassi di interesse salgono, i costi associati al rimborso dei prestiti aumentano. Ciò significa che le imprese che si sono indebitate a leva potrebbero dover affrontare pagamenti di interessi più elevati che potrebbero superare il beneficio del rischio.

[21] Traiamo l’espressione di «sabotaggio strategico» da Bichler e Nitzan (2023).

[22] Ad esempio, i terreni agricoli degli Stati Uniti sono circa 900 milioni di acri; di questi una trentina sono nelle mani di una ristretta cerchia di grandi finanzieri che li hanno comprati non certo per interessi agricoli.

 


Bibliografia

R. Bellofiore, A. Coveri, Anticritica, Collettivo le Gauche, 2024.

E. Brancaccio, R. Giammetti, S. Lucarelli, La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Mimesis, Milano 2022.

 K.W. Deutsch, a cura di H. Eckstein, External Involvement in Internal War, Free Press of Glencoe, New York 1964.

 S. Gahn, Towards an explanation of a declining trend in capacity utilisation in the US economy, Post Keynesian Economics Society (PKES) 2022.

J. Gruber, S. Kamin, Corporate buybacks and capital investment: An international perspective, «Board of Governors of the Federal Reserve System», 2017.

B. Keeley,Income Inequality The Gap between Rich and Poor, OECD 2015.

 M. Konczal, N. Lusiani, Prices, Profits, and Power: An Analysis of 2021 Firm-Level Markups, «Roosvelt Institute», 2022.

 M. Lavoie, Some controversies in the causes of the post-pandemic inflation, «Monetary Policy Institution blog», 2023.

 M. Nikiforos, Notes on the accumulation and utilization of capital: Some empirical issues, «Metroeconomica», giugno 2021. 

 M. Nikiforos, S. Gothe, Markups, Profit Shares, and Cost-Push-Profit-Led Inflation, «Institute for New Economic Thinking»,  2023.

 A. Pannone (2023a), Che cos’è la guerra? La logica dei conflitti capitalistici tra XX e XXI secolo, DeriveApprodi, Bologna 2023.

 A. Pannone(2023b), Le ragioni del profitto sulla scia di sangue tra Israele e Gaza, «Machina», 27 novembre 2023.

 F. Saraceno, Oltre le banche centrali. Inflazione, diseguaglianza e politiche economiche, LUISS University Press, Roma 2023.


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Andrea Pannone, economista esperto nell'analisi dei processi di innovazione tecnologica e dei suoi riflessi a livello microeconomico e macroeconomico. Attualmente è ricercatore senior alla Fondazione Ugo Bordoni, ente in cui lavora dal 1993. Si è laureato con lode in Scienze Statistiche ed Economiche all’Università di Roma La Sapienza presso cui ha conseguito anche il Dottorato in Scienze Economiche. È stato docente di economia politica e di economia dei nuovi media in diversi master organizzati in Università pubbliche e private. È autore di pubblicazioni nazionali e internazionali. Ha pubblicato per DeriveApprodi «Che cos'è la guerra? La logica dei conflitti capitalistici tra XX e XXI secolo».

 

 

 



 




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