top of page

La negazione della dinamica sociale nella prospettiva di Lionel Robbins


Lionel Robbins
Immagine: The Pyramid of Capitalist System, pubblicato in Industrial workers, newspaper di Industrial Workers of the World, 1911

Nel nuovo articolo di «spigoli», Ottavio Lovece s’interroga sui fondamenti della scienza economica analizzando il pensiero di Lionel Robbins. La sua definizione di economia – come scienza che studia la condotta umana in quanto relazione fra scopi e mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi – e la sua opera complessiva, seppur soggetta a molte critiche sin dalla sua pubblicazione, ha avuto e continua ad avere seguito e condivisione nelle accademie. Ma, ci dice l’autore dell’articolo, il suo tentativo di porre dei principi assiomatici e di esprimere la scienza economica in un sistema deduttivo, è molto problematico sia sotto il profilo politico che della logica del discorso.


***

 

 La relazione fra filosofia e determinazioni specifiche del sapere risulta essere un problema effettivamente antico quanto la stessa filosofia, in quanto la riflessione autenticamente critica – che, hegelianamente, nulla presuppone come cominciamento del proprio discorso – non può che essere discussione, problematizzazione e vaglio delle assunzioni metodologiche che necessariamente agiscono nella considerazione di ogni contenuto determinato. In questo senso, il problema del rapporto fra metodo e contenuto – certamente antico quanto la filosofia – è anche un problema vecchio quanto la scienza, o meglio, quanto le scienze e le determinazioni specifiche del sapere. Per dirla diversamente, la tematizzazione del rapporto fra metodo e contenuto è ciò che svela il sospetto, sempre legittimo quando non si mostrino le ragioni del suo non poter essere altrimenti, che la definizione dell’oggetto attorno a cui ogni scienza particolare si struttura sia in fondo arbitraria, gravida di mistificazioni e, per questo, fondamentalmente rivedibile.

È certamente impossibile per una scienza – almeno nel suo senso moderno di scienza positiva – operare senza aver primariamente individuato il proprio oggetto, ovvero senza aver prima circoscritto i contorni di una definizione. La scienza economica, sebbene abbia in vari contesti riconosciuto la difficoltà di quest’operazione, non ha rinunciato al tentativo di definirsi sulla base di una struttura assiomatica. All’origine di questo tentativo è stata riconosciuta la figura di Lionel Robbins, il quale, nella sua opera An Essay on the Nature and Significance of Economic Science, ha definito l’economia come «the science which studies human behaviour as a relationship between ends and scarce means which have alternative uses» (L. Robbins, An Essay on the Nature and Significance of Economic Science, Macmillan, London, 19352, p. 16).

Il testo di Robbins fu accolto con favore da diverse figure di riferimento della riflessione economica (Harold Laski, Jacob Viner, F.A. Hayek, Wilhelm Röpke e Ludwig Von Mises), ma ricevette anche diverse critiche, tanto da costringere l’autore a pubblicare una seconda edizione tre anni dopo la prima (datata 1932). Secondo la ricostruzione di Backhouse e Medema (R.E. Backhouse, S.G. Medema, Defining economics: the long road to acceptance of the Robbin’s definition, in «Economica», 76, 2009, pp. 805-20) la definizione robbinsiana fu ampiamente criticata fino agli anni Sessanta del Novecento, per poi guadagnare un’ampia condivisione a partire dal decennio successivo. Sono proprio i due autori a sostenere la presenza di uno stretto legame fra l’utilizzo del metodo assiomatico nel campo economico e l’accettazione della definizione fornita da Robbins. La relazione fra la posizione robbinsiana e il tentativo di assiomatizzazione della scienza economica è stato rilevato anche da Giocoli (N. Giocoli, Modelling Rational Agents: From Interwar Economics to Early Modern Game Theory, Edward Elgar, Cheltenham, 2003, p. 85), secondo il quale il contributo maggiore che l’autore fornisce con il suo Essay è lo slittamento dalla definizione di oggetto economico alla definizione di comportamento economico.

  Al di là delle pur non poco rilevanti annotazioni storico-culturali, è interessante osservare quale sia l’idea fondamentale che si cela alle spalle di questo tentativo: porre dei principi assiomatici porta con sé la volontà di esprimere la scienza economica in un sistema deduttivo. In particolare, la costruzione di Robbins si struttura attorno a due elementi che l’autore considera come caratteri fondamentali dell’esistenza umana in generale: a) gli scopi da cui l’agire può essere mosso sono molteplici; b) il tempo e i mezzi per realizzare gli scopi sono limitati e passibili di usi alternativi.

Secondo Robbins, è precisamente a partire da queste proposizioni protocollari che emerge la definizione di condotta economica: posta la molteplicità degli scopi, posta la limitatezza del tempo e dei mezzi a disposizione del soggetto per realizzarli, l’agire non può che assumere la configurazione di una scelta. Dal discorso appena svolto emerge una precisa formulazione della definzione di scienza economica: l’economia è la scienza che studia la condotta umana in quanto relazione fra scopi e mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi.

Possiamo osservare come, dalla definizione espressa, emerga una concezione di valore economico essenzialmente determinata in relazione alla scarsità dei mezzi che realizzano scopi arbitrariamente selezionati dal soggetto economico fra la molteplicità riconosciuta nella fase protocollare. In ultimo, dunque, il valore economico sembrerebbe mostrarsi come quella variabile vincolata ad una struttura profondamente arbitraria ed essenzialmente particolaristica, qual è la scelta del soggetto economico (che non è necessariamente il soggetto inteso come individuo), il quale seleziona alcuni scopi e non altri e che, in conseguenza della scelta, orienta il valore del tempo e dei mezzi che realizzano quei determinati scopi. Per questa ragione, a partire da questa impostazione, emerge la seguente posizione: il valore economico, configurandosi all’interno di una dinamica che vede la scelta di un soggetto economico posto di fronte ad una molteplicità di scopi possibili, dalla quale consegue la valutazione dei mezzi – strutturalmente scarsi – utili a realizzare quanto scelto, si determina indipendentemente dal concetto di scambio e, quindi, dalla dimensione sociale della divisione del lavoro.

  Precisamente, cosa significa sostenere che il valore economico può esistere indipendentemente dalla divisione sociale del lavoro? In primo luogo, significa porre le distanze da un’impostazione che, a partire da Adam Smith, ha caratterizzato la stagione classica dell’economia. In particolare, fra le tante autorevoli voci citabili, è Joseph Schumpeter a riconoscere la divisione sociale del lavoro come elemento cardine della teoria smithiana.

Nella monumentale Storia dell’analisi economica, l'autore arriva a sostenere che nessuno si era mai spinto ad attribuire un peso simile alla divisione del lavoro, la quale costituirebbe – sempre nell’interpretazione schumpeteriana di Smith – l’unico fattore di progresso economico capace di spiegare la maggior abbondanza di cui può giovare anche il membro più umile della costruzione sociale. In secondo luogo, significa porsi a distanza da un preciso quadro teorico.

È noto come l’autore scozzese rinvenisse la ragione del fenomeno della divisione sociale del lavoro in un’innata propensione al baratto, senza giustificarla ulteriormente. La riflessione economica classica, continuando a riconoscere come elemento centrale l’organizzazione sociale del lavoro, perviene ad una rigorizzazione della posizione smithiana attraverso la figura di Marx, la cui critica al pensiero economico che lo precede non assume meramente il senso di una negazione.

In particolare, nel quadro ricostruttivo storico-universale proprio della teoria marxiana, la divisione del lavoro non si trova in una relazione esteriore e accidentale con l’organizzazione sociale, in quanto si mostra necessario che a) ogni configurazione sociale, sotto vari rispetti e in diversi modi, divida il lavoro; b) il progresso storico mostri una complessificazione della struttura della divisione del lavoro. Quanto appena detto si fonda su un motivo individuato chiaramente da Marx sulla base della lezione hegeliana: il lavoro, per sua propria natura, si struttura socialmente, in quanto si impone in ragione della dinamica del sistema dei bisogni, la quale si configura storicamente in una progressione sempre più complessa. In altri termini, non esiste lavoro – sia esso individuale o socialmente determinato – che venga svolto in assenza dell’esigenza della risoluzione di un bisogno, indipendentemente dalla sua struttura immediata o complessa.

Inoltre, l’essenziale portata storica del sistema dei bisogni, comportando una moltiplicazione e una complessificazione degli stessi, può ricevere risposta da una struttura del lavoro sempre più articolata socialmente e capace di escludere come soluzione il lavoro dell’individuo isolato dalla collettività. Per dirla più semplicemente: certamente è possibile risolvere attraverso il lavoro individuale il bisogno di mangiare un frutto che cresce su un albero, ma altrettanto certamente non è possibile far fronte al bisogno storico – essenziale per lo svolgimento di molte occupazioni – del computer, la cui produzione richiede una consistente mediazione (teorica e pratica), dunque un’organizzazione, non immediatamente disponibile all’individuo.

Sulla base del teorema marxiano, dunque, il valore della merce esiste in quanto, sotto una qualsiasi forma, risponde ad un bisogno e, allo stesso tempo, è possibile dare risposta al bisogno solo producendo valore attraverso il lavoro. La complessificazione sempre maggiore del concetto e della concretizzazione storica del bisogno determina un sempre diverso modo di configurarsi dell’organizzazione sociale del lavoro senza che mai ci possa essere il suo venir meno. In definitiva, non è immaginabile una società capace di rispondere ai propri bisogni – sempre più mediati perché sempre più storici e meno naturali – in assenza di una divisione sociale del lavoro. Ma, come sopra rilevato, dire questo significa dire che non è possibile valore economico e, quindi, risoluzione di un qualsivoglia bisogno storico, al di là della dimensione eminentemente sociale del lavoro.

  Sulla base delle considerazioni svolte, non è forse azzardato affermare che le posizioni in cui domina la scomparsa del lavoro come fonte del valore economico, evidente in molte configurazioni della teoria economia fine Ottocentesca e Novecentesca, non sono scevre da una dimensione problematica che, come visto, si mostra criticabile non meramente alla luce di una scelta politica di campo, ma sulla base di argomenti che riguardano primariamente la logica del discorso. In questo senso, il discorso marxiano – intramontabile nella sua carica critica – non smette di essere strumento essenziale per svelare le conseguenze teoriche (e pratiche) derivanti dalla determinazione di una scienza economica senza storia e, quindi, senza politica.


***


Ottavio Lovece, laureatosi in Filosofia nel 2018 all'Università di Bologna, ha conseguito nel 2021 la laurea magistrale in Scienze Filosofiche, presso lo stesso ateneo, con una tesi in Storia della Filosofia dal titolo Lo Zibaldone: divenire, Dio e natura nel nichilismo leopardiano. Durante l'anno accademico 2022/23 ha conseguito la specializzazione annuale presso la Fondazione Collegio San Carlo di Modena. Svolge attualmente attività di ricerca in qualità di dottorando in storia della filosofia presso l'Università di Bologna.



 

 



Comments


bottom of page