Un racconto di Barriera
Un racconto di Mattia Gallo sull’esperienza da emigrante dal Sud al Nord Italia.
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A fine agosto la stazione ferroviaria di Porta Nuova accoglieva anche me, ennesimo rappresentante di una stirpe di emigranti che dall’Italia del Sud si muoveva verso Nord per lavoro. Nel mio caso, per vocazione e per desiderio, oltre che per bisogno. Si è detto tante volte, l’emigrazione di oggi, da Sud a Nord Italia, è diversa da quella di un tempo: al posto della valigia di cartone, oggi si trasporta lo zaino munito di personal computer… ad ogni modo io ero pieno di un fluido che mi avviluppava, una linfa vitale. Insomma di emigrare a Torino ne avevo voglia, ed eccomi arrivato all’ombra della Mole. Il giorno seguente a quello in cui raggiunsi la prima capitale del regno d’Italia, avrei dovuto prendere servizio a scuola, dove avrei lavorato come docente. Che strano: a Torino trovai un certo caldo, e mai avrei immaginavo che ne facesse così tanto. «Quando fa caldo a Torino fa più caldo che a Cosenza», mi aveva detto un amico che ormai già da anni faceva il docente in questa città. Si, è un clima decisamente continentale, solo che non pensavo che le cose stessero in questo modo… e dopo un mese e mezzo di quelle alte temperature in realtà, arrivati a metà ottobre, si stupirono anche i torinesi stessi di quell’andazzo meteorologico. Il caldo di Torino di fine estate – inizio autunno della scorsa stagione è stato decisamente sopra la media stagionale.
Primo passo, trovare casa. Attraverso una rete di amici, riuscii a trovare, per il primo mese, un alloggio in un quartiere periferico della città, Barriera di Milano. «Quartiere ex operaio», mi spiegarono. Ma com’è ‘sta storia che ci sono così tanti quartieri «ex-operai» a Torino? Se uno facesse una semplice somma di tutti i quartieri «ex – operai», si arriverebbe presto a dire, senza troppi timori, che l’intera città è una città ex-operaia (con la distinzione di dire che alcuni quartieri sono ex-proletari)! Città dal passato industriale ed ex-operaia, ma oggi, di che città si tratta? È una città dalle tante sfaccettature, con diverse anime, come diversi sono i suoi quartieri. Uno di questi fu il mio primo approdo, da cui io sono arrivato venendo da Sud, ed è, come ho già detto, Barriera di Milano.
Le zanzare che ti ronzano di notte nell’orecchio furono una cosa da mettere conto come qualsiasi altra di cui poi mi dissero. Il caldo umido, insomma, non doveva sorprendermi. Finii per passare i primi due mesi in un alloggio situato in Barriera di Milano, nei pressi della fermata del tram Palermo, perché una mia amica di Cosenza era sposata con un torinese e questi aveva una rete di amici che gestivano appartamenti e bed&breakfast, a Barriera appunto. Trovai un prezzo molto conveniente, fui grato ai miei amici e contento di quella collocazione provvisoria. Non era definitiva, ero comunque distante dalla scuola in cui lavoravo, a sud di Torino. Settembre fu un mese in cui guardai la città in maniera veramente particolare. Fu un mese di pochi impegni scolastici ed anche per questo osservai ogni cosa con l’occhio del turista. Girai per il centro di Torino soprattutto grazie ad un amico venuto da Cosenza insieme a me e munito di macchina. Conosceva la città perché ci aveva lavorato in passato, e così mi portò a frequentare una delle sue passioni di tipo gastronomico a cui era legato: le piole. Questo inizio turistico gastronomico mi piacque molto. Per conoscere altri aspetti ancora della città avrei avuto tempo.
Barriera di Milano appariva ai miei occhi come qualcosa di veramente particolare. Per strada si vedevano un sacco di arabi e africani. Non episodicamente, erano davvero molti. Mi accorsi subito di un aspetto che non tardai a definire meglio, tra i racconti di vari abitanti del quartiere e ciò che osservavo in prima persona. In apparenza sembrava esserci una situazione sociale non facile. Innanzitutto c’erano queste pisciate sui muri delle palazzine, pisciate di persone, costanti e sempre presenti. La sera si potevano scorgere in alcune vie capannelli di persone africane che spacciavano droga e si vedeva gironzolare qualcuno con la faccia di chi aveva fatto qualche tiro di qualche sostanza di troppo. Però, a dispetto di qualsiasi rappresentazione che facesse troppo leva sul concetto malsano di «degrado», e a parte quello che poteva sembrare come il dark side della zona, c’era anche la parte vitale del quartiere: tantissimi negozi erano gestiti da arabi, alcuni dei quali (la macelleria, il panettiere, il negozio in cui si riparavano telefoni) avevano le insegne in arabo. Ma dove mi trovavo, stavo a Tunisi o a Torino?!? Tutto ciò era affascinante, esotico, particolare… se dovessi descrivere Torino vista da con gli occhi del primo mese in cui vi ho trascorso il periodo del mio primo approdo, mi metterei a discorrere di zanzare, caldo, arabi, Tajiin (un tipico piatto maghrebino), bandiere della Nigeria fuori dai negozi… ma poi sì, pensavo che quella era solo una parte della città. Ma che parte? Una parte meno importante, una parte secondaria? Non saprei. Alla fin fine la periferia è parte integrante di una città, con tutto quello che si porta dietro, anche i suoi aspetti più critici. Ed era praticamente impossibile non parlare di questi aspetti, proprio mentre vivevi queste zone oppure seguivi le più semplici notizie, o magari parlavi con il vicino di casa o chi saliva sul tram insieme a te. A proposito delle notizie prese dal web, che circolavano sui social, riuscii a farmi un quadro di quanto fosse «caldo» quel fine estate in Barriera: uno storico locale con circa 30 anni di attività soprattutto nel campo dell’organizzazione di eventi musicali, lo Spazio 411, dopo ripetuti furti, minacce ed aggressioni fisiche subite da parte di chi si occupa della vita di questa realtà, decise di chiudere temporaneamente. A monte di tutto, la difficile convivenza con le centinaia di persone che continuano ad occupare abusivamente alcuni immobili fatiscenti situati proprio vicino ad esso, un vero e proprio deposito di clochard, spacciatori e consumatori di eroina e crack. Ma la riqualificazione urbana dove sta? Una domanda che hanno rivolto alle istituzioni anche gli organizzatori di quello spazio artistico e di aggregazione. Forse la rabbia delle persone è tutta canalizzata su quello che si vede davanti al momento, senza guardare ai meccanismi generali che stanno sopra la loro testa. La signora che al supermercato se la prende con chi piscia sui muri, quelle migliaia di pisciate sui muri a cielo aperto, un effluvio di pioggia acida immonda che sa come di una miriade di ferite sul cemento, ha per caso ragione a prendersela con il famigerato «degrado», oppure no? E se il vero degrado con cui prendersela fosse invece quello economico-sociale, se il problema fosse la mancanza di partecipazione dal basso alla vita del quartiere, ci ha pensato mica la signora, mentre fa la fila? No, non credo ci penserà mai. E forse non ci hanno pensato nemmeno le centinaia di cittadini di Barriera che alla fine di settembre, come hanno riportato le cronache cittadine, sono andate a protestare sotto il palazzo del Comune di Torino proprio contro il cosiddetto «degrado» da loro ravvisato in Barriera.
Una volta, una delle tante, in cui presi il Tram numero 4, lo presi di notte, al mezzanotte. Scambiai quattro chiacchiere con un tizio che mi diceva che viveva a Barriera da anni e anni, da quando c’era nato. Non c’era alcuna inclinazione razzista da parte sua, ma diceva che «dopo quarant’anni di vita in Barriera, mi hanno rubato il cellulare mentre uscivo fuori dal tram. Non mi era mai capitata una cosa del genere. Lo tenevo con la mano alzata… ad un certo punto passa un nero con la bici e zaaan… me lo prende! Ti rendi conto?!?». Parole che risuonavano come echi tra le strade e le stanze degli appartamenti della zona: un amico da poco conosciuto, toscano, ad esempio, mi disse: «Mi raccomando quando entri nel 4, tieniti stretto il portafoglio!». Le sue parole mi colpirono in effetti. Io non ero abituato a ragionare in quei termini, perché nella città medio-piccola del Sud Italia da cui vengo io certe dinamiche sui pullman non ci sono, è tutto più tranquillo. E poi, un giorno, sul 4, due tipi mi tastano la tasca… subito pensai alle parole del mio amico di Cecina. Attenzione però, i due tizi non erano né africani né arabi… erano due giovani «caucasici», bianchissimi. Forse appartenevano ad uno dei nuovi fenomeni, proprio in quell’anno resi più noti nella città, quello dei «maranza». Giovani torinesi di estrazione sociale molto difficile (la parola venne coniata negli anni 80 a Milano, maranza starebbe per Marocchino-Zingaro, ma i maranza sono solo i figli un po’ dannati della Torino di oggi) che a volte finiscono sulle cronache della città per qualche rissa o episodio di piccola criminalità. I maranza come novelli Oliver Twist che cincischiano malati nelle street… non saprei proprio se sono un mito o una realtà. O forse la spia di nuove povertà, di nuove sofferenze sociali. Un altro giorno, in un assolato mezzogiorno, vidi una rissa tra africani nella piazza di fronte la fermata Palermo. Non era una piccola piazza, era abbastanza centrale, vicino alla fermata del 4. Nell’atmosfera accaldata e rarefatta, quelle persone sembravano come dei grandi lucertoloni scuri attorcigliati tra di loro in una rissa virulenta e silenziosa carica di tensione…
Il prete della chiesa più rappresentativa di Barriera, la Parrocchia Maria Regina della Pace di Torino, coinvolto in una serie di attività sociali nel quartiere, lo ha detto chiaramente in un’intervista pubblicata in rete: «Il problema maggiore del quartiere è la disoccupazione». Di chi è la colpa della disoccupazione? Dei pisciatori seriali del quartiere? Non credo proprio. «Barriera è un quartiere pulsante», mi ha detto un mio amico collega di scuola, proveniente dalla Lombardia, docente d’inglese, che aveva studiato lingue a Torino. Si riferiva a tutte quelle attività sociali ed essenziali presenti nella zona: la Biblioteca popolare di quartiere, la casa di quartiere, alle squadre di calcio o alle nuove realtà sociali nascenti…
E così tutte queste impressioni e idee si affastellavano nella mia mente, mentre il tempo scorreva ed io ero certo che da Barriera me ne sarei andato entro metà ottobre, per spostarmi in una zona più in centro. Era cosa fatta, perché avevo scambiato tutte le info utili con il locatore. Agli inizi di settembre però mi capitò una cosa strana, un fatto molto curioso che vale la pena di raccontare. Nel corso della prima settimana, da inizio settembre, avevo preso la decisione di lavare il mio bucato presso le lavanderie a gettoni. Era una vera novità per me, non ero mai ricorso ad una lavanderia, e tutto sommato la trovavo funzionale, ma ero consapevole che prima o poi una benedetta lavatrice l’avrei dovuta comprare, magari quando mi sarei allontanato da Barriera, chi lo sa. Un giorno, mentre passeggiavo per le vie del quartiere, decisi di entrare presso un negozio di casalinghi gestito da una venditrice araba, ed era frequentato da molte persone arabe, donne con il chador e i loro figli al seguito. Dovevo comprare qualche utensile per la pulizia della casa e, guardando tra i vari scaffali e spazi del negozio, non potei che non perdere tempo ad osservare proprio quell’oggetto che in quel periodo era nei miei pensieri più di qualsiasi altro: proprio una lavatrice. Si trattava però di una lavatrice molto particolare. Le insegne erano in caratteri arabi, dorati. Sembrava una sorta di lavatrice mitica, quasi una sua versione artistica dalle fattezze arabe, venuta direttamente da una favola di un passato contemporaneo… emanava un fascino da lampada magica ma adattato ad un oggetto più attuale. Il colore era bianco intonso, e questo rendeva le istruzioni d’uso in caratteri arabi lucenti ancora più fulgide, splendenti. Quando la venditrice araba, una donna sulla cinquantina, si accorse che osservavo con interesse e curiosità quella lavatrice, attaccò subito a dire: «Ti piace quella vero? Beh sappi che non è in vendita ma a noleggio. Facciamo un buon prezzo, non ti preoccupare. Abbiamo provato a venderla all’inizio dell’apertura della nostra attività, quando l’abbiamo portata diversi anni addietro da Tangeri, ma poi chi inizialmente l’acquistava ce la riportava sempre indietro lamentandosi del fatto che non riuscivano a farla funzionare. E così abbiamo pensato di darla a noleggio, e alla fine qualcosa ci frutta sempre, perché noi facciamo un buon prezzo e chi la compra pensa di fare un affare… fino a quando poi non viene e ce la restituisce dicendo che non riesce a farla funzionare. Eppure le istruzioni ci sono, guarda». Mi mostrò un foglio d’istruzioni bianco in cui le scritte arabe erano perfettamente tradotte in varie lingue, tra cui l’italiano. La signora poi continuò a dire: «Secondo me le persone non sopportano questo fatto di vedere le parole in arabo… questa è la realtà. Ci discriminano! Se vuoi provarla per un mese, prendila, il prezzo te lo dico subito». E me lo disse. Ed io mi convinsi a noleggiare quella lavatrice per il periodo di un mese. Mi sembrava certo una contrattazione strana, ma mi sembrava molto conveniente, anche perché nel noleggio era anche compreso il trasporto fino al terzo piano del mio palazzo, che si trovava non distante da quel negozio alla fine. Ero certo di aver fatto un affare.
Parlai dell’acquisto di questa lavatrice a Riccardo, il mio amico di Cosenza salito anche a lui a fine agosto, durante una sera finita anche quella volta a vitello tonnato e Barbera nei pressi di una piola. Mi disse che avevo fatto bene a noleggiarla. Finimmo poi con il parlare a proposito del senso della nostra emigrazione, connessa proprio alle spese da sostenere a Torino. Riccardo disse: «Ma ti rendi conto?!? Una volta, quando i nostri genitori da giovani salivano fino al nord Italia, nel tempo che trascorrevano lontani da casa lavorando, riuscivano a mettere qualcosa da parte. E noi? Noi no! Ci preoccupiamo di arrivare a fine mesi “in pari”. Ti rendi conto?!? Dicono che Torino abbia dei prezzi più accessibili di altre città, per quanto riguarda gli affitti ad esempio, e se guardi a Milano è verissimo. Ma alcuni colleghi di Torino con cui mi è capitato di parlare a scuola, dice che i prezzi stanno iniziando a salire in questa città. Siamo venuti a Torino a cercare di far quadrare il bilancio a fine mese. Ma cosa siamo, “operai massa”?!? Siamo venuti a fare gli “operai massa” a Torino!». Terminò il suo dire con un modo di fare istrionico ed in punta d’ironia, alzando le mani al cielo. Era sera inoltrata ed io e Riccardo ritornammo verso la sua macchina, mentre le nostre ultime parole si perdevano tra i viottoli in cemento fino ad arrivare a quegli orli di cielo che nella visuale erano tagliati dai tetti delle case ottocentesche e novecentesche dell’architettura della città.
Il primo bucato che misi con quel nuovo aggeggio dalle scritte dorate andò veramente bene. Mi chiedevo sempre di più perché le persone non si erano convinte a tenere quella lavatrice nella loro casa, perché andassero puntualmente a restituirla, come mi aveva spiegato la signora del negozio arabo da cui avevo temporaneamente preso quell’oggetto a noleggio. Probabilmente le persone non sopportavano quei caratteri scritti in tutta evidenza in una lingua che non era la loro. O forse chissà cos’altro… ma io ero contento di aver fatto un affare e basta, avevo una lavatrice che faceva poco rumore dalla sua accensione in poi. Inoltre, avevo anche l’impressione che i vestiti uscissero dall’oblò di quell’aggeggio più morbidi di quello che potessi pensare.
Fino alla fine di settembre tutto sembrava andare liscio. Poi alcune cose presero purtroppo una piega diversa. A scuola trovai una collega docente di una certa età, proveniente dalla provincia piemontese, che mi rimproverava del fatto di non essere abbastanza severo con gli studenti. Ero certo che invece il mio modo di fare non fosse poco autorevole (autoritarismo e autorevolezza non sono la stessa cosa), nè stupidamente permissivo, e soprattutto, non era la causa della loro irrequietezza generale, la quale aveva ben altri e più profondi motivi. A parte la scuola, non furono per niente leggeri i grattacapi relativi alla nuova abitazione che avrei dovuto acquistare a Vanchiglia. Non c’era qualcosa di specifico da criticare in realtà: semplicemente mi seccava dover fare i conti, poi avrei dovuto dare tantissimi soldi alle agenzie immobiliari, dei ladri veri e propri, che prendevano due mensilità d’affitto per fare il semplice lavoro di messa in contatto con il locatore… un vero furto, ed erano soldi che avrei dovuto scalare dal totale che avevo con me. Ero solo all’inizio della mia avventura torinese, ma una certa fretta-entusiasmo (sicuramente giustificata per certi versi) di conoscere persone nuove, mi portò ad installare sul mio smartphone una di quelle App di incontri. Questo nonostante il fatto che ben due amici originari della mia città che vivevano a Torino da pochi anni mi avessero sconsigliato di installarla perché entrambi avevano provato e dopo una sola settimana, delusi, l’avevano disinstallata. E alla fine rimasi deluso anche io da questa esperienza virtuale. Insomma non tutto andava bene in quel fine settembre. Guarda caso, i motivi di tensione che avevo elencato prima coincidevano temporalmente con l’acquisto di quella lavatrice dai caratteri arabi. E se non fosse solo una coincidenza? Se quella lavatrice sinistra e dalle scritte arabe, un prodotto piuttosto singolare dalle nostre parti, anche se da un punto di vista meccanico perfettamente funzionante (chi lo sa, fin troppo?!?), contenesse qualcosa di strano, forse qualche forza proveniente da un paese lontano e imperscrutabile capace di infestare l’ambiente di chi la possedesse? Alcuni pensieri un po’ assurdi iniziavano ad affastellarsi nella mia mente nel periodo sopracitato.
Accadde una sera che tornai a casa, dopo aver passato una serata con amici, un po’ più brillo del solito. La settimana, proprio in quel periodo di fine settembre, non era andata proprio bene, per i motivi che ho menzionato precedentemente. Prima di andare a letto, mi fermai a guardare assorto quella lavatrice. Emanava un’aurea particolarmente sinistra quella sera… Ad un tratto vidi sbucare, sotto essa, una piccola forma in movimento…si era proprio quello che temevo, uno scarafaggio! Mi avvicinai per schiacciarlo e mi accorsi fortunatamente che era un pezzo di polvere che non avevo ancora spazzato via dal pavimento! Ufff... forse era l’alcool in corpo ed i vari motivi di tensione che sentivo dentro di me, che mi avevano portato a vedere quello scarafaggio in realtà inesistente. Scarafaggi. Un problema che a volte poteva comparire nelle case di Torino, me ne avevano parlato. Un mio amico, torinese, di origini calabresi, mi aveva detto che ne sapeva qualcosa: «Alcune case in città sono molto antiche ed è inevitabile trovarli. Se becchi quelli grossi neri, te la puoi cavare a toglierli. Ma quelli piccoli marroni sono veramente tenaci...quelli sono un vero problema». Bastarono quelle parole ad impressionarmi. Per fortuna quegli esseri non erano a casa mia. Ma anche in quel caso connettevo questo ennesimo grattacapo, preoccupazione, a quella lavatrice, da cui avevo visto sbucare quel fantasmagorico scarafaggio.
Arrivarono i primi giorni di ottobre. Le notizie dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, quanto la reazione di risposta del governo israeliano che ha colpito in modo sanguinario e truculento i cittadini della striscia di Gaza, innescarono una presa di posizione di piazza un po’ tutto il mondo ed anche in Italia. A Torino a fine ottobre venne chiamata una manifestazione da parte delle reti sociali in solidarietà con la Palestina, insieme a reti di attivisti ed altre associazioni, contro l’attacco militare del governo d’Israele diretto verso gli abitanti della striscia di Gaza, a seguito della strage di Hamas di cittadini israeliani. Il raduno iniziale fu a Barriera di Milano, in piazza Crispi. Partecipai a quella manifestazione. Fu una manifestazione piena di gente, c’erano in totale tremila persone. E la maggior parte di esse erano cittadini e cittadine arabe. Molti degli slogan scanditi ad alta voce erano in lingua araba. Rimasi colpito da uno slogan dei manifestanti: di mezzo c’era la parola «Barriera». C’era quindi un auto-riconoscimento, una sorta di presa d’identità di chi era in piazza in quel momento. Certo si parlava di una questione internazionale, ma era chiaro che c’era anche un volersi riconoscere da parte di una comunità di un quartiere che si ritrovava in piazza, con le madri con il velo a coprire la parte superiore del capo (l’hijab) e il megafono in mano a scandire cori, mentre i figli manifestavano con loro durante il corteo per le strade di Torino. Il quartiere non era solo un quartiere assimilabile al termine e al concetto di «degrado», questa manifestazione ne era la prova. Mentre all’inizio del corteo c’era chi, dalla camionetta che faceva da apripista ai manifestanti, diceva in italiano ma con una chiara inflessione araba: «Smettetela di mettere sullo stesso piano occupanti e occupati colonizzati e colonizzatori. Ci sono in Palestina migliaia di morti e feriti. Non ci sono vie di fughe e di riparo». E poi «La Palestina vive la Resistenza vive», scritto in italiano e in arabo sullo striscione in testa al corteo. Mi sentivo parte di quel corteo festante, rumoroso, colorato per due motivi. La mia vicinanza per un’idea di pace nel conflitto tra Palestina e Israele che partisse dal presupposto di riconoscere pieni diritti ai cittadini palestinesi, e poi il mio essere in qualche modo cittadino di Barriera di Milano, alla ricerca non tanto di ordine sociale e decoro, ma di giustizia sociale come altro presupposto di convivenza civile imprescindibile. La Fiat Gran Motori, la Fiat Fonderie, i vecchi magazzini Docks Dora riconvertiti oggi in polo culturale e sociale, queste sono i grandi centri industriali che nel Novecento hanno caratterizzato la vita di questo ennesimo quartiere «ex-operaio». Ma oggi che le cose sono cambiate, qual è la vera identità di questo quartiere, e volendo estendere un po’ il discorso, di tutta Torino? Che forma di produzione sostituisce quella industriale del passato e che figure lavorative ci sono in questa parte di città? Quelle legate alla produzione immateriale? Solo in parte. Mi sono venute in mente le parole del parroco della chiesa di quartiere, le sue affermazioni riguardanti la mancanza di reddito e lavoro diffuso, connesso e causa scatenante del disagio sociale e dei fenomeni di malavita propri dell’area.
Bello il corteo che parte da Barriera in marcia per la Palestina, tra suoni arabi, bandiere al cielo dai colori panarabici, e musica araba sparata a tutto volume dalle casse. C’è stato un momento in cui si è levato un coro unanime e chiassoso, a seguito dell’inizio istantaneo di una canzone. Ho chiesto ad una giovane ragazza il perché di quell’urlo entusiastico: «Questa è una canzone della squadra di calcio del Raja Casablanca, che contiene alcune frasi in favore della Palestina» – mi rispose sorridente. Ecco, si passava da Porta Palazzo («…e i suoi rottami», dice una canzone di un rapper torinese), simbolo della Torino multietnica, e poi si procedeva verso corso Po, diretti a Piazza Vittorio. Sul corso, le strutture imponenti, austere ed eleganti dei palazzi accoglievano quella sorta di bazar in movimento che era il corteo della Palestina. Il corteo infine raggiunse Piazza Vittorio. Mi arrivò un messaggio sullo smartphone: «Non ti preoccupare, qui la lavatrice c’è, la troverai nell’appartamento». Era un messaggio inviatomi dal locatore di casa di Vanchiglia, la casa verso cui mi sarei spostato a fine ottobre. Pensai di richiamarlo in seguito alla ricezione di quel messaggio, e così feci, abbandonando il corteo nel suo scorrere. Avevo capito che nel mio nuovo appartamento avrei trovato una lavatrice nuova dunque. Questo voleva dire che avrei riportato la lavatrice dalle insegne arabe nel negozio in cui l’avevo noleggiata. E già, quella strana lavatrice… proprio in quel momento, acquistando maggiore forza d’animo e lucidità, anche grazie a quel corteo così carico di energia positiva (come di rabbia, dovuta ai fatti drammatici accaduti in Palestina, ovviamente), mi resi conto che ero stato io a riversare su quella lavatrice tutte una serie di paure e timori di cui essa non aveva alcuna colpa, evidentemente.
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Mattia Gallo laureato in Giurisprudenza ha scritto diversi articoli di politica e cultura pubblicati online. Negli ultimi due anni ha pubblicato un libro di racconti e uno di poesie.
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