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La graficizzazione del dissenso e la «tecnologia per cambiare la storia»






Cartolina “Enjoy Sarajevo”, Trio Sarajevo, Bosnia, 1993-94

La graficizzazione del dissenso e la «tecnologia per cambiare la storia».[1] 

Oggi si chiama crowdsourcing. Nel 1989 a Hong Kong creare gesti collettivi su base volontaria, significava rompere gli schemi con un fax, la tecnologia più avanzata accanto ai media convenzionali. E se i gesti di rabbia mista a dolore sono sempre simili a se stessi – come per la rivoluzione delle pietre in Palestina nel 1989 o, le proteste alla Borsa di New York per il rialzo dei prezzi dell'unica cura approvata per l'AIDS – una nuova moltitudine organizzata stava per strutturare un’alterazione visiva e mediatica del dissenso. Si andava dritti verso le onde d’urto del culture jamming degli anni Novanta e della messa on line delle contestazioni No Global di Seattle del 1999. (S. LN.)


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Mao Zedong: Red Squares No.1, Wang Guangyi, China, 1988

A Tienanmen Square in China, dopo il 15 aprile 1989, viene interrotta la censura delle informazioni sulle rivolte tramite l’avvento di comunità attiviste. Un riassunto quotidiano di notizie su ciò che stava accadendo irruppe tramite fax, come strumento di disobbedienza. L’inizio di una nuova era. Sul magazine inglese «Face» si dichiarava «Avete la tecnologia per cambiare la storia». Interpretazioni apparentemente ordinarie, che invece in questi anni appartenevano allo straordinario. Accanto ai fax per Piazza Tienanmen poi, si risponde al clima politico dei conflitti internazionali tramite grafiche che rievocano il passato. A favore della giustizia globale si recuperano iconografie del movimento operaio, accanto ai Dazibao della Cina maoista e alle linee e colori delle grafiche politiche dei manifesti del Maggio parigino. Si tratta di comunicare contenuti di protesta ma anche messaggi internazionali di sopravvivenza – dalla critica ambientalista al consumismo, come per la pubblicazione canadese «Asbusters» di completa rottura con i media tradizionali o, gli ecoguerrieri di «SchNews» nel Regno Unito dei primi anni Novanta.


Copertina di “SchNews”, “A message to the government”, fogli informativi settimanali, Regno Unito, 1998

A liberare le possibilità di comunicazione pacifista, ci sono poi animazioni di strada, editoria indipendente clandestina per slogan da gridare e, manifesti in cui anche la scelta di un colore, piuttosto che un altro, crea una sempre più ammiccante guerra visiva del conflitto. Le «Donne in Nero» in Palestina mostrano un colore come protesta indossando abiti neri e realizzando cartelli a reclamare una mano tesa per dissentire, ma per farlo in silenzio, in seguito allo scoppio della prima intifada contro l'occupazione israeliana. Ma no, nei primi anni Novanta non potevano bastare delle macchine Xerox, i colori delle donne attiviste che avrebbero fatto da traino a un metodo, stratagemma per mobilitare che arriva fino a oggi,[2] oppure della colla nelle mani per manifesti sui muri. La guerra si rinnovava ancora e con più colpi in canna. È proprio sull’informazione che si struttura infatti una parte integrante della strategia bellica della prima guerra del Golfo.


David Gentleman, poster campagna StopEsso, Regno Unito, 2001

Copertina del “The Sunday Times”, War in the Gulf, 16-page Colour Briefing, 27 Gennaio 1991


Tra il ’90 e il ’91 si prometteva la necessità di una «nuova» alternativa, mentre l’oggettività delle notizie proveniva da un’unica emittente che poteva trasmettere da Baghdad. Nascenti dirette speciali e inchieste di una guerra bianca asettica raccontavano atti definiti umanitari. Nel rinnovato interesse per la teoria Revolution in military affairs fino ai media tradizionali spappolati dagli interessi finanziari, i gruppi di lotta di resistenza pacifista dovevano rispondere perciò a una «guerriglia semiologica» sempre più sofisticata. La replica dell’arte arriva come un’emorragia interna. Pare difficile riconoscerne la gravità e, solo in apparenza risulta innocua. Proprio in quegli anni il gruppo di artisti Trio Sarajevo tramite elementi estetici precostituiti e pop pare rivolgersi a un mero uso insolito delle icone culturali della città. A guardar bene e, di fronte alla sfida del lungo conflitto della guerra nei Balcani, dimostra invero quel colpo fatale di un’arte che si occupa di guerra, capitalismo e morte. Pratiche di opposizione che rievocano artisti e armi del passato, taglienti a colpi di collage o détournement, giornalismo underground e teatro di strada che si avvale di nuove tecnologie digitali. Mark Dery definisce «culture jamming» queste alterazioni visive che tendono al supporto di una digitalizzazione del dissenso nel suo noto articolo del 1993[3]. Tutte le pratiche confluirono, insieme alle propagande per l’ambiente, ai movimenti per la giustizia globale e a quella parte dell’arte attivista fuori dalle dinamiche di consumo, nelle proteste No Global di Seattle del 1999.

In coincidenza con il vertice economico G8 di Colonia in Germania, un popolo di disertori che traeva la sua energia generatrice proprio nella prima metà degli anni Novanta, è lì, dove per la prima volta viene «messa on line» e in diretta mondiale, la possibilità di veicolare le speranze mediatiche del dissenso. Mail, siti web, dirette TV, internet, telefonate, sms e fax come strumenti per mobilitare, sembravano la tecnologia per la resa divina utile ai benefici per l’umanità. Sembravano. Com’è noto invece, il mondo intero assisterà al fallimento di un’operazione che vide i moti culturali e pacifisti portavoce di cambiamenti rimanere solo con polvere tra le mani, mentre un «certo mondo reale» sfilava con volti coperti e manganelli. E se perciò oggi ci appare chiaro, dopo l’avvento di nuovi sistemi di comunicazione e distrazione, che le nuove tecnologie possono cambiare la storia ma non gli esiti della stessa, ogni componente creativa deve porsi ancora in riflessione collettiva. Infatti, è proprio da quel controsenso, digitale mediatico e umano, da quel 1999, che le istanze o nuove possibilità di cooperazione non hanno smesso di esistere. Nuove strade estetiche per farsi sentire e ottimi spunti per migliorare la propria efficienza, tra lavoro e vita, si avvicendano per solcare quella via maestra indicata nel 1958 da Debord, utile a non produrre «cose che ci sottomettano». Tuttavia, rimane invero ancora un’atroce impedimento: non abbiamo delle risposte alla possibilità paventata di poter davvero «cambiare la storia». Certo è ormai a tutti il ruolo visivo del dissenso e dei suoi artefici perché «molti dei grandi cambiamenti culturali che preparano le vie per il cambiamento politico sono estetiche, J.G. Ballard l’ha detto, e ovviamente ha ragione»[4].

 


 

Note

[1] L. Mcquiston, Visual impact. Creative dissent in the 21st century, Phaidon, New York , 2015, p. 17.

[2] Alcune delle più recenti proteste usano il colore come strumento per mobilitare e creare condivisione: il rosa nelle tonalità più candide o, più aspre come il viola mortuario, contro la prostituzione in Spagna o, il verde splendente in Argentina e negli Stati Uniti, emblema del diritto all’aborto.

[3] M. Dery, Culture Jamming: Hacking, Slashing, and Sniping in the Empire of Sign, Pamphlet n. 25, Open Magazine, 1 gennaio, 1993

[4] Manifesto for world revolution, «Adbusters» #169, Vol. 31, n°5, s.p., 2023.



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Simona La Neve (1985), art researcher e docente, dopo studi in architettura si specializza alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano con una tesi conservata oggi all’archivio del Mart di Trento e Rovereto. Ha svolto ricerche e progetti curatoriali anche in ambito istituzionale (Inu, Roma; Politecnico, Milano; Bocsart, Cosenza). Si occupa oggi principalmente di scrittura come pratica artistica di resistenza empirica, endogena ed esogena. È suo tra altri, il saggio per i cinquant’anni di Vogliamo tutto di Nanni Balestrini («il manifesto», 19 maggio 2021).

 

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