Matteo Montaguti presenta un testo di Walter Benjamin
Germania, 1931. Siamo agli atti finali della Repubblica di Weimar. Oltre, si affaccia l’abisso. Sulle strade tedesche si combatte l’ultima battaglia per conquistare l’anima dei rovinati, degli esclusi, dei rabbiosi. Bande di combattenti rossi e squadracce di milizie brune si contendono il controllo di birrerie, quartieri, città. Schiere d’acciaio contro legioni di teschi. Rot Front contro schwarze pest.
Walter Benjamin si aggira, inquieto, nel ventre di questa epoca grande e terribile. Dopo una brillante ma inconcludente carriera universitaria si ritrova a barcamenarsi tra precarietà economica ed esistenziale. Progetta opere incompiute, scrive saggi inafferrabili, è rifiutato ed emarginato dall’accademia. È pure comunista, ed è anche un ebreo: il paradigma del disagio. Il suo posto nel mondo non c’è. Per mantenersi, sempre in bilico sull’indigenza, traduce per editori, pubblica pezzi di critica sui giornali, scrive recensioni per riviste.
Tipo questa. Benjamin scrive una recensione a un libro di poesie di Erich Kästner, uno dei maggiori intellettuali dei circoli berlinesi del tempo. Ideologicamente pacifista dentro la guerra civile, sinceramente indignato dall’ascesa del nazismo ma democraticamente disimpegnato: un vero intellettuale della sinistra di oggi.
Comincia così, una recensione a un libro di poesie: con la durezza materiale di un’analisi di classe di quella frazione di ceto medio – mediamente progressista – istruito e integrato che è fruitrice di questo prodotto culturale. Guardate come si pone il punto di vista di Benjamin, irriducibilmente di parte, capace di rivelare tic e atteggiamenti di un’intera composizione sociale attraverso la sua produzione lirica:
«La popolarità di queste poesie è legata all’ascesa di un ceto che si è impossessato delle sue posizioni di potere economiche apertamente, e ha menato vanto come nessun altro della sua fisionomia economica nuda e senza maschera. […] La materia e gli effetti della poesia di Kästner restano limitati a questo ceto, ed egli non è in grado di raggiungere gli spossessati coi suoi accenti ribelli esattamente così come non è in grado di colpire gli industriali con la sua ironia. Ciò accade perché questa lirica (nonostante le apparenze) cura soprattutto gli interessi corporativi della categoria dei mediatori (agenti, giornalisti, capi del personale). Ma l’odio che essa proclama contro la piccola borghesia ha a sua volta un accento piccolo borghese, di eccessiva intimità. Per contro la sua aggressività nei confronti dell’alta borghesia scema a vista d’occhio, e alla fine essa tradisce il suo anelare al mecenate col sospiro: “Oh, se ci fosse soltanto una dozzina di saggi con molto denaro!”».
Poi continua, inesorabile. Benjamin affonda la lama fino al manico nella carne di questo ceto intellettuale di sinistra, non importa quanto radical nelle pose, infarcito di estremismo, imprenditore della «theory» passeggera più cool da spendere in articoli, paper, seminari, blog, pubblicazioni, post su facebook. Un ceto non solo presente nei circuiti accademici o editoriali, ma spesso inserito anche negli ambienti della militanza cosiddetta antagonista. Leggete la spietatezza della sua lucidità. Osservate come arriva a penetrare il cuore politico, e quindi di metodo, della questione. Incredibile quanto ci riesca a parlare di oggi, di quello che noi, come Benjamin allora, possiamo toccare schifati con mano. Ricordate: tutto questo sta accadendo dentro una recensione a un libro di poesie del 1931, molto probabilmente scritta per sbarcare il lunario. Sentite che roba:
«La grottesca sottovalutazione dell’avversario che sta alla base delle loro provocazioni non è l’ultimo dei segni che rivelano quanto la posizione di questi radicali di sinistra sia una posizione perdente. Questi intellettuali hanno poco a che fare con il movimento operaio. Sono invece un fenomeno di disgregazione borghese, che fa da contrappunto a quella mimetizzazione feudale che l’impero ha ammirato nell’ufficiale in congedo. I pubblicisti del tipo di Kästner, Mehring o Tucholsky, i radicali di sinistra sono la mimetizzazione proletaria della borghesia in sfacelo. La loro funzione è quella di creare, dal punto di vista politico, non partiti ma cricche, da quello letterario non scuole ma mode, da quello economico non produttori ma agenti. Ed è vero che da quindici anni in qua questi intellettuali di sinistra sono stati ininterrottamente gli agenti di tutte le congiunture culturali, dall’attivismo all’espressionismo fino alla Nuova Oggettività. Ma il loro significato politico si riduceva a convertire riflessi rivoluzionari, nella misura in cui apparivano nella borghesia, in oggetti di distrazione, di divertimento, di consumo. In tal modo l’attivismo seppe privare la dialettica rivoluzionaria del suo carattere di classe, dandole il volto indeterminato del sano buon senso. […] Insomma, questo radicalismo di sinistra è proprio e precisamente quell’atteggiamento a cui non corrisponde più nessuna azione politica. Non è a sinistra di questa o quella corrente, è semplicemente a sinistra del possibile. Poiché non mira ad altro, a priori, che a godere se stesso, in una quiete negativistica. La trasformazione della lotta politica da coazione a decidere a oggetto di piacere, da mezzo di produzione ad articolo di consumo – è questa l’ultima trovata di questa letteratura».
Ma quello che a nostro parere rimane il passaggio più clamoroso è il finale. Benjamin, dopo tutto, si ricorda che lo stanno pagando per una recensione di critica culturale. Volete una valutazione critica su un libro di poesie? Non c’è problema: la avrete. E come concludere nel migliore dei modi la recensione al libro? Con delle sottilissime offese plateali. «Quello che è certo è che il brontolio che si ode in questi versi ha più della flatulenza che della sovversione. Da sempre la stitichezza si è accompagnata con la malinconia. Ma da quando nel corpo sociale gli umori ristagnano, siamo continuamente investiti dal suo tanfo. Le poesie di Kästner non migliorano l’aria».
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Malinconia di sinistra. Sul nuovo libro di poesie di Erich Kästner
Walter Benjamin (1931)
Le poesie di Kästner oggi sono già disponibili in tre grossi volumi. Ma chi voglia veramente capire il carattere di queste strofe, farà meglio ad attenersi alla forma in cui comparvero originariamente. Nei libri sono schiacciate e un po’ opprimenti, ma nei quotidiani guizzano come pesci nell’acqua. Se quest’acqua non è sempre pulitissima e contiene, parecchie scorie, tanto meglio per l’autore, i cui pesciolini poetici hanno potuto così diventare grossi e grassi.
La popolarità di queste poesie è legata all’ascesa di un ceto che si è impossessato delle sue posizioni di potere economico apertamente, e ha menato vanto come nessun altro della sua fisionomia economica nuda e senza maschera. Questo non nel senso (come si potrebbe forse supporre) che questo ceto che mirava solo al successo, non riconosceva valore a nessun’altra cosa, avesse ora conquistato le posizioni più forti. Il suo ideale era troppo asmatico per questo. Era quello di agenti senza figli, venuti su dal nulla, che a differenza dei magnati della finanza non prendevano disposizioni per decenni e per la loro famiglia, ma solo per se stessi, e per un periodo di tempo che superava a malapena la stagione. Chi non li ha in mente: i sognanti occhi infantili dietro gli occhiali di tartaruga, le ampie guance biancastre, la voce strascicata, il fatalismo nel modo di gestire e di pensare. È proprio ed esclusivamente il ceto a cui il poeta ha qualcosa da dire, che egli lusinga, in quanto dal momento in cui si alza fino alla sera tiene lo specchio non tanto davanti quanto piuttosto dietro di esso. Le distanze fra le sue strofe sono le pieghe di grasso nella sua nuca, le rime sono le sue labbra gonfie, le cesure sono fossette nella sua carne, le sue punte pupille nei suoi occhi. La materia e gli effetti della poesia di Kästner restano limitati a questo ceto, ed egli non è in grado di raggiungere gli spossessati coi suoi accenti ribelli esattamente come non è in grado di colpire gli industriali con la sua ironia. Ciò accade perché questa lirica (nonostante le apparenze) cura soprattutto gli interessi corporativi della categoria dei mediatori (agenti, giornalisti, capi del personale). Ma l’odio che essa proclama contro la piccola borghesia ha a sua volta un accento piccolo borghese, di eccessiva intimità. Per contro la sua aggressività nei confronti dell’alta borghesia scema a vista d’occhio, e alla fine essa tradisce il suo anelare al mecenate col sospiro: «Oh, se ci fosse soltanto una dozzina di saggi con molto denaro!». Non c’è da stupirsi che quando Kästner fa i conti coi banchieri, in un Inno, il suo linguaggio sia così ambiguamente familiare com’è ambiguamente economico quando, sotto il titolo Una madre fa il bilancio, espone i pensieri notturni di una donna proletaria. Alla fine casa e rendita restano le dande con cui una classe più benestante tiene il lagnoso poeta.
Questo poeta è scontento, anzi malinconico. Ma la sua malinconia deriva dal mestiere. Poiché avere mestiere significa avere sacrificato le proprie idiosincrasie, aver sacrificato la capacità di provare disgusto. E questo rende malinconici. È questa circostanza che rende questo caso in un certo senso analogo al caso Heine. Rivelano mestiere le osservazioni con cui Kästner ammacca le sue poesie per dare a queste laccate palline-giocattolo l’aspetto di palloni da rugby. E niente esprime meglio il mestiere dell’ironia che fa lievitare lo sbattuto impasto dell’opinione privata come quello di una torta. Dobbiamo solo dolerci del fatto che la sua impertinenza sia così priva di qualsiasi rapporto sia con le forze ideologiche che con quelle politiche di cui il poeta dispone. La grottesca sottovalutazione dell’avversario che sta alla base delle loro provocazioni non è l’ultimo dei segni che rivelano quanto la posizione di questi radicali di sinistra sia una posizione perdente. Questi intellettuali hanno poco a che fare con il movimento operaio. Sono invece un fenomeno di disgregazione borghese, che fa da contrappunto a quella mimetizzazione feudale che l’impero ha ammirato nell’ufficiale in congedo. I pubblicisti del tipo di Kästner, Mehring o Tucholsky, i radicali di sinistra sono la mimetizzazione proletaria della borghesia in sfacelo. La loro funzione è quella di creare, dal punto di vista politico, non partiti ma cricche, da quello letterario non scuole ma mode, da quello economico non produttori ma agenti. Ed è vero che da quindici anni in qua questi intellettuali di sinistra sono stati ininterrottamente gli agenti di tutte le congiunture culturali, dall’attivismo all’espressionismo fino alla Nuova Oggettività. Ma il loro significato politico si riduceva a convertire riflessi rivoluzionari, nella misura in cui apparivano nella borghesia, in oggetti di distrazione, di divertimento, di consumo.
In tal modo l’attivismo seppe privare la dialettica rivoluzionaria del suo carattere di classe, dandole il volto indeterminato del sano buon senso. Fu in certo modo la settimana bianca di questo giornale di annunci pubblicitari. L’espressionismo presentò i gesti rivoluzionari, il braccio levato, il pugno, confezionati in cartapesta. Dopo questa campagna pubblicitaria la Nuova Oggettività, da cui provengono le poesie di Kästner, passò subito a compilare l’inventario. E che cosa trova «l’élite spirituale» che si è messa a inventariare i propri sentimenti? Forse questi stessi sentimenti? Sono stati svenduti in blocco da molto tempo. Ciò che è rimasto sono le cavità dentro polverosi cuori di velluto che accolsero già i sentimenti – natura e amore, entusiasmo e umanità. Ora si accarezza distrattamente la cavità, la forma vuota. Una saccente ironia crede che questi pretesi modelli siano molto di più delle cose stesse, fa grande sfoggio della propria povertà e si rallegra del vuoto che le si spalanca davanti. Poiché la novità di questa Sachlichkeit consiste nel fatto che essa è altrettanto fiera delle tracce lasciate da quelli che furono un tempo beni spirituali quanto il borghese è fiero di quelle dei suoi beni materiali. Non ci si era mai sistemati più comodamente in una situazione più scomoda.
Insomma, questo radicalismo di sinistra è proprio e precisamente quell’atteggiamento a cui non corrisponde più nessuna azione politica. Non è a sinistra di questa o quella corrente, è semplicemente a sinistra del possibile. Poiché non mira ad altro, a priori, che a godere se stesso, in una quiete negativistica. La trasformazione della lotta politica da coazione a decidere a oggetto di piacere, da mezzo di produzione ad articolo di consumo – è questa l’ultima trovata di questa letteratura. Kästner, che ha un grande talento, domina con maestria tutti i suoi mezzi. Al primissimo posto c’è qui un atteggiamento che si esprime già nel titolo di molte poesie. C’è un’Elegia con l’uovo, un Canto di Natale lavato a secco, il Suicidio nel bagno di casa, il Destino di un negro stilizzato ecc. Perché queste slogature?
Perché critica e conoscenza sono pronte a intervenire; ma rovinerebbero il gioco, e quindi non possono assolutamente prendere la parola. Allora il poeta deve imbavagliarle, e i loro spasimi disperati fanno così l’effetto dei pezzi di bravura di un contorsionista, e cioè divertono un pubblico numeroso e dal gusto insicuro. In Morgenstern l’assurdità era solo il rovescio di una fuga nella teosofia. Ma il nichilismo di Kästner non nasconde nulla, come una bocca che non può trattenersi dallo sbadigliare.
I poeti avevano cominciato presto a fare conoscenza con questo tipo particolare di disperazione: la stupidità tormentata. Poiché la poesia veramente politica degli ultimi decenni ha per lo più anticipato le cose, a guisa di araldo. Era l’anno 1912-13, quando con le sconcertanti descrizioni di gruppi sociali mai individuati prima di allora – i suicidi, i prigionieri, i malati, i marinai, i pazzi – le poesie di Georg Heym anticiparono quella disposizione delle masse all’epoca inimmaginabile che sarebbe poi emersa nell’agosto del 1914. Nei suoi versi la terra si prepara a essere sommersa dal rosso diluvio. E molto prima che dalle acque emergesse, unica vetta, l’Ararat del marco d’oro, occupato fino all’ultimo posto da mangioni e ghiottoni, Alfred Lichtenstein, che era caduto nei primi giorni di guerra, aveva messo a fuoco quelle tristi e gonfie figure per cui Kästner ha trovato i cliché. Ora ciò che distingue questa prima versione, ancora preespressionistica del borghese da quella successiva e postespressionistica, è la sua eccentricità. Non a caso Lichtenstein ha dedicato una delle sue poesie a un clown. I suoi borghesi hanno ancora nel sangue il clownismo della disperazione. Non hanno ancora espulso da sé l’eccentrico per fare di esso un oggetto di divertimento delle grandi città. Non sono ancora saturati, non sono ancora agenti così completamente da non sentire un’oscura solidarietà con una merce per cui si sta già avvicinando all’orizzonte la crisi. Venne poi la pace – e cioè appunto la crisi, quel ristagno nello smercio della merce uomo che conosciamo sotto il nome di disoccupazione. E il suicidio, quale è propagandato dalle poesie di Lichtenstein, è una sorta di dumping, vale a dire la vendita di questa merce a prezzi irrisori. Di tutto questo le strofe di Kästner non sanno più nulla. Il loro ritmo si conforma esattamente alle note con cui i poveri ricchi esprimono la loro malinconia; parlano alla tristezza dell’individuo saturo, che non può più dedicare tutto il suo denaro al proprio stomaco. Stupidità tormentata: è questa l’ultima delle metamorfosi che la malinconia ha subito nel corso di duemila anni.
Le poesie di Kästner sono fatte per gente che guadagna molto, per quelle bambole tristi e pesanti che camminano calpestando cadaveri. Con la solidità della loro corazza, la lentezza della loro marcia, la cecità delle loro azioni esse sono il convegno che carro armato e cimice si sono dati nell’uomo. Queste poesie ne sono gremite come un caffè della city dopo la chiusura della borsa. Perché stupirsi se la loro funzione consiste nel conciliare questo tipo con se stesso e nel creare quell’identità tra vita professionale e vita privata che questa gente intende col nome di «umanità», ma che in realtà è propriamente, precisamente bestiale, poiché la vera umanità (nelle condizioni attuali) può essere solo il risultato della tensione fra quei due poli? In essa si formano la riflessione e l’azione, crearla è il compito di ogni lirica politica, ed esso è adempiuto, oggi, nel modo più rigoroso dalle poesie di Brecht. In Kästner essa deve cedere il posto alla sufficienza e al fatalismo. È il fatalismo di coloro che sono più lontani dal processo di produzione, e che perciò cercano di ottenere il favore delle congiunture, nel buio – atteggiamento, questo, paragonabile a quello di un uomo che si rimetta interamente agli imperscrutabili colpi di fortuna della propria digestione. Quello che è certo è che il brontolio che si ode in questi versi ha più della flatulenza che della sovversione. Da sempre la stitichezza si è accompagnata con la malinconia. Ma da quando nel corpo sociale gli umori ristagnano, siamo continuamente investiti dal suo tanfo. Le poesie di Kästner non migliorano l’aria.
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