Fu in una mattina luminosa, tinta da un cielo color cobalto, che Antonio improvvisamente, e senza che ci fosse stato alcun segnale premonitore, si accorse che il mondo intorno a sé era cambiato. Lui stesso era cambiato, o almeno questa era la sua impressione. Ma in che cosa fosse cambiato, questo non sarebbe stato in grado di spiegarlo. La strada, appena uscito di casa, era sempre la stessa: il marciapiede pieno di buche, i piccoli alberi appena piantati da un volenteroso comitato di quartiere e lo scorrere lento del poco traffico. Osservando il paesaggio intorno a sé non riusciva a notare alcun che di diverso dal giorno prima, anzi, dalla settimana prima; eppure quella sensazione che le cose non fossero più le stesse lo turbava profondamente.
Si diresse subito verso il bar dove era solito prendere il caffè la mattina, non solo per un’abitudine consolidata da anni ma perché desiderava verificare quella strana sensazione con le persone che era solito incontrare, se anche loro, o almeno qualcuna di loro, avesse avvertito quel senso di disagio. Intanto, camminando, scrutava attentamente le vetrine dei negozi, le facce conosciute, la fila davanti il bar all’angolo della strada e perfino il locale dove si facevano fotocopie, come se qualche indizio gli potesse dare conferma di ciò che avvertiva con tanta intensità.
«Ciao ingegnere, il solito?», si sentì dire, appena seduto, dal proprietario del bar, con lo stesso tono e con lo stesso accento calabrese che Antonio sentiva pronunciare ogni giorno, più o meno alla stessa ora. Questo, pensò, era almeno un messaggio confortante, Maurizio si comportava come sempre, come ogni mattina.
«Il solito, Maurizio», rispose secondo una formula che si ripeteva da sempre, tranne il lunedì quando il bar restava chiuso e lui era costretto a spostarsi in un altro locale non distante. Ma quella frase, pronunciata tante volte e nella stessa occasione, quel giorno gli suonò strana, quasi falsa. Lui stesso se ne stupì perché quella normalità strideva con quel sentimento interiore che sfociava nell’angoscia. «Il solito…» pensò a quanto pochi minuti prima aveva pronunciato, ma «solito» di che? Tutto gli sembrava eccezionale.
Accese una sigaretta come faceva sempre. Per confermare, questa era la sua convinzione, che tutto fosse esattamente uguale a come l’aveva lasciato il giorno prima. «Dunque», si disse, «la mia è solo una sensazione falsa e, del resto, come avrebbe potuto essere reale?» Scrutò ancora le persone intorno a sé: i soliti signori e signore sedute ai tavolini all’aperto che facevano colazione, i cani tenuti a guinzaglio accovacciati sotto i tavoli, le persone che transitavano ai bordi del marciapiede evitando i cani. Tutto come ogni mattina.
Eppure quella sensazione si era fissata nella sua testa come un campanello d’allarme e non lo abbandonava a disdetta di ogni conferma che tutto era e si svolgeva come il giorno precedente. Gli alberi, altissimi, di fronte a sé, le ville disposte sulla via Latina e la stessa fontanella sul marciapiede opposto sgorgava acqua come sempre allagando gran parte del piazzale pedonale. Per non parlare della Porta Latina che era lì immobile da chissà quanti secoli e dalla quale partiva una piccola strada che conduceva alle Terme di Caracalla, appunto, via di Porta Latina.
«Ciao Antonio, come va?», si sentì dire distratto dalla voce di una giovane donna che sapeva giornalista e che abitava nel suo stesso condominio, accompagnata, come quasi sempre, dal suo compagno, anch’egli giornalista.
«Ah! Bene, bene, e voi?» rispose Antonio attento a non far trapelare quel suo malessere esistenziale che, ora, era diventato ancora più forte e preciso di prima e al tempo stesso pronto a recepire qualche indizio, qualche esitare di quella donna.
Semmai, pensò mentre sorbiva il solito caffè, la caratteristica di Roma era proprio l’immobilità, un ristagno fisico cui i romani si erano da tempi immemorabili abituati nonostante gruppi, associazioni politiche e singoli personaggi cercassero (invano) di contrastarlo con appelli, articoli sui quotidiani, iniziative spesso lodevoli. Tutto inutile. Ci avevano provato anche le famose archistar con i loro progetti disseminati a caso. Quelle strane architetture erette a simbolo di qualcosa che ad Antonio sfuggiva, erano subito state fagocitate dalla città senza che ne mutassero in qualche modo il volto, sempre lo stesso, bellissimo, ma tendente al declino.
Osservò ancora gli alberi di via Latina, altissimi e immobili e le due ville storiche dietro di loro sempre disabitate, con le persiane chiuse e si chiese chi fossero i proprietari; anche loro comunque non si mostravano facilmente come fossero i testimoni di quella immutabile immobilità. Solo una figura femminile si intravedeva tra le tendine scostate di una finestra all’ultimo piano. Sembrava guardasse proprio lui, poi tese il braccio verso l’alto muovendolo come un segnale che volesse avvertirlo che era prigioniera in quella casa, oppure per salutarlo semplicemente. Poi improvvisamente scomparve e ad Antonio venne il dubbio di aver immaginato la scena.
C’era sì qualche scena di vita davanti il bar: il passeggio di signori e signore coi loro cani, qualche bambino tenuto per mano dalla propria mamma e la sosta di alcuni addetti alla pulizia che, in quel bar, prendevano riposo per poi subito ricominciare a spazzare le strade, anch’esse coperte di materiali che non entravano nei cassonetti o lasciate lì per incuria e mal disposizione verso il prossimo.
Antonio guardava il solito transito seduto in un tavolino all’aperto, sul marciapiede, ogni tanto dando un’occhiata distratta al quotidiano aperto. Sfogliandolo cercava notizie che confermassero quel suo disagio che, anziché attenuarsi, si faceva sempre più forte.
Nemmeno il suo impegno politico costante, ormai ridotto a scrivere qualche articolo su un giornale di sinistra e a concedersi qualche recensione all’ultimo libro pubblicato da un autorevole esponente politico, sembrava sufficiente a calmare quella sensazione di essere estraneo al mondo, non appartenente alla specie umana variopinta che osservava transitare davanti a lui.
Accanto a lui, seduta compostamente come ogni mattina, una giovane ragazza apriva il proprio Pc, leggeva forse la posta, poi, ogni tanto, con movimenti precisi batteva le dita sulla tastiera, come ogni giorno, sorbendo un caffè. Antonio la osservava curioso di conoscere a chi scrivesse; un’amica forse? Aveva dei bei capelli lunghi e sciolti e non mostrava più di 25 anni; alta, indossava sempre dei jeans, non leggeva quotidiani, incurante delle persone che le passavano accanto.
Frequentatore assiduo e abituale di quel bar, avrebbe potuto dire a che ora passava un signore simpatico che parcheggiava la sua macchina rossa in seconda fila, o a che ora, l’edicolante accanto, fatta una breve sosta, insieme al barbiere si sarebbero diretti verso il bancone del bar per celebrare il solito rito quotidiano, oppure a che ora si incontravano delle persone coi loro cani per parlare un po’, scambiarsi delle opinioni. E così di molte altre persone avrebbe potuto dire a che ora sarebbero comparse, alcune con il loro cane, e di altre che in quella determinata mattina non si erano presentate.
Forse l’ora mattiniera o il sole che appena faceva capolino di fronte alla Porta Latina, producevano in tutte quelle persone un ottimismo che si manifestava con saluti fraterni, con abbracci e baci, con fragorose risate innescate da qualche episodio ilare, oppure con pacche sulle spalle o battute che a Roma sono proverbiali: «Ammazza chi se rivede, n’do t’eri nascosto?».
Sfogliando pigramente il quotidiano la sua attenzione si fissò su uno stanco dibattito che si trascinava tra le forze politiche per le candidature del prossimo sindaco della città. Tra queste riconobbe persone a lui note e anche vecchi compagni con i quali aveva trascorso insieme alcune stagioni politiche. Tutti, nessuno escluso, gli sembravano inadeguati per quella candidatura. Non si trattava forse di colui che avrebbe governato la Grande Città in Declino? E come avrebbe potuto farlo con quelle poche idee che esprimeva? Come uscire fuori dal ristagno? L’impresa sembrava quasi impossibile.
Preso da questi pensieri e ancora agitato per quel senso di oscura quanto invisibile minaccia, si incamminò lungo le mura latine, camminando nell’erba fattasi alta. Quello spettacolo produceva in lui sempre un rinnovato stupore e sorpresa e ogni volta si chiedeva come avessero fatto quegli antichi abitanti a realizzare un’opera così grandiosa. A tratti, che per Antonio sembravano regolari, la linearità delle mura era interrotta da superbi bastioni che avevano il compito di conferire stabilità alle mura. In cima ad esse poteva ancora scorgersi un camminamento e ogni tanto delle travi sospese nel vuoto che avevano sorretto dei primitivi e semplici bagni che le sentinelle a guardia delle mura utilizzavano per defecare nella fascia di verde dove lui passeggiava che, all’epoca, tante centinaia di anni fa, da quegli abitanti era considerata sacra e abitata da demoni.
Camminando lungo lo stradello che tagliava il prato verde in due parti, Antonio scorse da lontano un capannello di persone e, incuriosito, si diresse verso di loro. Giunto in prossimità di esso, tutte le persone si girarono all’istante per osservarlo come si guarda un insolito forestiero arrivato lì per caso. C’erano non solo donne e uomini in piedi ma anche carrozzelle che portavano invalidi, bambini che giocavano accanto, molti vecchi che si trascinavano con bastoni. Dopo quel breve cenno di attenzione, ognuno di loro tornò a guardare verso il centro senza alcuna emozione.
Spinto da una curiosità crescente, Antonio penetrò attraverso quel gruppo di persone e si accorse che esse erano disposte a cerchio attorno a una grossa buca scavata nel prato. Ogni tanto da quella buca usciva qualche persona e ogni tanto qualche altra vi entrava recando con sé un secchiello vuoto. Antonio non osava chiedere di cosa si trattasse, considerato che tutte quelle persone osservavano quel movimento in un silenzio assoluto.
Uno di loro, però, gli fece cenno di entrare nella buca senza proferire parola. Lui si guardò intorno a disagio, indeciso se accettare quell’invito oppure restando ancora un po’ a seguire gli eventi per farsi una propria idea di tutto quel lavoro. Di nuovo da altri del gruppo venne il segnale di calarsi nella buca così che Antonio, sia pure titubante, si avvicinò ai margini di essa.
Sul ciglio della buca scorse due scale a pioli che non aveva visto dalla sua posizione arretrata e lentamente, sotto lo sguardo silenzioso di quegli abitanti, prese a scendere. Le due scale erano poste una accanto all’altra in modo che chi scendesse non ostacolasse la salita dell’altro.
La buca era molto più profonda di quanto Antonio avesse supposto e ci mise diversi minuti prima di toccare terra. Poi quando i suoi occhi si abituarono a quella oscurità, scorse un lungo corridoio dove si alternavano persone che con i secchielli portavano la terra fuori dalla buca. Lo percorse interamente senza che nessuno di quelle persone gli rivolgesse la parola, fino a quando arrivò a una grande camera dove molti erano intenti a scavare. Quella camera era molto spaziosa e aveva un soffitto alto diversi metri.
Con suo stupore notò che, addossate a una delle pareti, vi erano ammassate diverse casse e provviste di cibo in scatola, insieme a frigoriferi e fornelli da cucina ancora imballati. Il lavoro di scavo era frenetico e già si intravedeva un secondo corridoio che prendeva forma, situato al lato opposto di quello da lui percorso per arrivare nella grande sala.
Un bambino imbrattato di terra e fango gli porse un secchiello e gli fece cenno di scavare là dove gli altri avevano già iniziato a farlo. Antonio, molto imbarazzato, prese il secchiello dalle mani del bambino, si guardò intorno e prese anche lui a scavare con le mani nel fango fino a riempire il proprio cestello. Poi rifece il percorso inverso e dopo qualche minuto si apprestò a salire la scaletta che conduceva in superficie. Uscito dalla buca, coloro che erano disposti al suo margine gli fecero un grande applauso per poi tornare silenziosi ad osservare coloro che entravano e uscivano.
Immagine: Sergio Bianchi, Variante c, 2020
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Enzo Scandurra è urbanista, saggista e scrittore. Ha insegnato per oltre quarant’anni Sviluppo sostenibile per l’ambiente e il territorio. Tra i suoi libri: Un paese ci vuole (2007), Ricominciamo dalle periferie (2009), Vite periferiche (2012), Fuori squadra (2017). Per DeriveApprodi Splendori e miserie dell’urbanistica (con I. Agostini, 2018).
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