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La Borsa, «il comitato d'affari della borghesia» e la guerra


La Borsa, il comitato d'affari della borghesia, la guerra
Francisco Jose de Goya y Lucientes Conrazon o sin ella,1810. Collezione Fondazione Francesco Federico Cerruti per l'Arte. Photo Ernani Orcorte

L’articolo di Andrea Pannone fa il punto su guerra e crisi, oggi. I processi di finanziarizzazione sono tanto al centro dell’articolo, quanto lo sono al cuore del capitale contemporaneo. Questo implica, discute Pannone, che lo Stato non può più essere considerato un campo di battaglia da occupare con riforme politiche più o meno progressiste e che, comunque, possano interrompere o limitare i processi di accumulazione selvaggia. Lo Stato, oggi, è il «comitato di affari della borghesia». Nella seconda parte dell’articolo l’autore lega questo discorso a quello della guerra. Che cos’è la guerra? – già titolo del volume di Pannone edito da DeriveApprodi (2023): «un tragico spazio di compromesso utile alla sopravvivenza delle diverse manifestazioni del potere del capitale, che necessitano continuamente di nuovi equilibri per non fagocitare se stesse».


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Aspettando (forse invano) una nuova crisi finanziaria

La crisi finanziaria del 2007-2008, la seconda del XXI secolo, dopo quella provocata dal crollo delle quotazioni del NASDAQ nel marzo del 2000, sancisce il fatto che le crisi delle economie capitalistiche sono sempre più legate alla finanziarizzazione della produzione piuttosto che alla struttura produttiva stessa. Se nel fordismo le crisi erano originate da sovra-produzione o da sotto-consumo, per poi trasmettersi al credito e alla finanza, ora sembra avvenire il contrario, una volta raggiunto il culmine di una fase di forte sopravvalutazione dei titoli azionari[1].

In un recente articolo sul Manifesto[2], Emiliano Brancaccio evidenzia il fenomeno della sopravvalutazione senza precedenti dei listini borsistici di tutto il mondo, in particolare a Wall Street, osservando il Price/Earnings ratio, il rapporto tra prezzi e utili aziendali corretto per l’inflazione, suggerito dal premio Nobel per l’economia Robert Shiller: «In poche parole, si tratta di prendere il livello dei prezzi che le azioni hanno raggiunto sui mercati e di rapportarlo alla media dei dividendi staccati dagli azionisti negli ultimi dieci anni[3]. Più alto è questo rapporto, più è probabile che le azioni siano sopravvalutate rispetto ai profitti annui che effettivamente riescono a garantire… Nella Borsa di New York i valori azionari sono oggi 33 volte più grandi dei dividendi che i possessori hanno ottenuto nell’ultimo decennio»[4].

La domanda che ci facciamo in questo scritto è come mai, date le premesse, una nuova grave crisi finanziaria non si sia ancora verificata. In particolare, cercheremo di approfondire se, come osservato nello stesso articolo da Brancaccio, la vera una ragione «per cui la bolla speculativa dei corsi azionari potrebbe ancora resistere senza scoppiare» siano «i venti di guerra che tuttora imperversano nel mondo», dato che «l’impegno bellico richiede stabilità e consenso interno». Ciò porterà ad interrogarci anche sul reale ruolo dello Stato nello svolgimento degli attuali conflitti geo-politici.

 

Il ruolo dei buyback nella stabilizzazione del mercato borsistico

La prima cosa da osservare rispetto all’argomento di Brancaccio è che un elevato livello dell’indice Shiller potrebbe non derivare solo dall’eccessivo ottimismo che coglie gli operatori nel pieno di una nuova ondata di innovazioni tecnologiche o nelle fasi più alte del ciclo economico (vedi, ad esempio, H. Minsky, 1980). Un altro elemento che potrebbe sostenere l’indice, infatti, sono i programmi di riacquisto delle proprie azioni (buyback), in grado di distorcere a lungo andare il rapporto prezzi/utili al di là dell’alternanza dei sentimenti di euforia/pessimismo che pervadono gli operatori finanziari. Come mostrato egregiamente da William Lazonik (2014, 2023), negli ultimi 10-15 anni questa pratica è stata notevolmente utilizzata da molte imprese per sostenere pesantemente il corso dei loro valori azionari[5]. I buyback riducono, infatti, il numero di azioni in circolazione, aumentando così l’utile per azione e fornendo supporto al loro prezzo, anche quando le condizioni economiche non giustificano necessariamente tali valutazioni. Ciò rende comunque attrattivi quei titoli sia per chi già li deteneva prima dell’operazione, in quanto acquisirebbe un capital gain potenziale, sia per chi li acquisisce successivamente, in quanto alimenta una spirale al rialzo. In altri termini, i buyback possono aiutare a stabilizzare i mercati durante periodi di turbolenza, poiché forniscono domanda per le azioni, contrastando in parte la pressione di vendita, le cadute estreme nei loro prezzi e, di conseguenza, gli impatti negativi sull’indice[6]. I programmi di riacquisto, del resto, incontrano il favore degli azionisti anche in virtù del fatto che essi non sono soggetti a tassazione (a meno che le loro quote azionarie non siano successivamente rivendute), diversamente dall’incasso dei dividendi, che sono tassati al pari dei redditi da capitale. L’efficacia dei buyback come strumento per aumentare/stabilizzare il valore delle azioni mette pressione sulle altre aziende nel replicare tali strategie per rimanere competitive, portando ad un effetto a catena nel mercato. Le aziende che non partecipano ai buyback potrebbero vedere una diminuzione dell’attrattiva delle loro azioni rispetto a quelle che lo fanno. In questo modo, i buyback sono diventati uno standard nel mercato azionario in quanto «scommessa» relativamente sicura, e le aziende spesso si sentono obbligate a implementare tali strategie per non deludere le aspettative degli investitori[7]. Non a caso, il considerevole uso di questo strumento ha finito per riguardare anche le imprese a forte vocazione dinamica e innovativa, (quali ad esempio Apple, Google, Facebook e la stessa Microsoft), alcune delle quali si sono trasformati in vere e proprie holding finanziarie con un’enorme capitalizzazione di Borsa (vedi Turco 2018, Lazonick 2023).

 

Liquidità e centralizzazione del capitale

Affinché i buyback possano davvero stabilizzare i listini è necessario avere a disposizione ingenti risorse liquide. Tale disponibilità dipende dalle condizioni finanziarie della società e dalle condizioni di mercato. Dopo la crisi del 2007-2008, le misure di Quantitative Easing – attuate dalla Federal Reserve e altre banche centrali allo scopo di rilanciare le economie precipitate in una grave fase recessiva – consentirono a famiglie e imprese di avere un ampio accesso a credito bancario con tassi di interesse piuttosto bassi. Di questa opportunità hanno però usufruito principalmente i grandi fondi di investimento come BlackRock, Vanguard e State Street. Nel caso delle famiglie, ad esempio, bassi tassi di interesse hanno implicato che il rendimento sugli investimenti sicuri come i titoli di Stato diminuisse significativamente. A causa delle loro specifiche funzioni operative i fondi hanno incrementato l’offerta di soluzioni pensionistiche integrative, incanalando verso fondi indicizzati – ETF (Exchange-Traded Funds) e altre soluzioni gestite – i risparmi degli individui, sempre più preoccupati da una previdenza pubblica su cui vengono scaricate le crescenti difficoltà dei bilanci statali. Nel caso delle imprese, invece, la disponibilità di credito a buon mercato in un contesto di basse aspettative di crescita dell’economia è stata sfruttata principalmente per indebitarsi a leva per impieghi sui mercati finanziari (acquisti e riacquisti di azioni), contribuendo a gonfiare il valore dei titoli, data la scarsa riproducibilità della loro offerta. Questo permetteva, potenzialmente, di lucrare sui differenziali di valore monetizzandone gli incrementi (capital gain) anche su orizzonti temporali inferiori all’anno. Più di altre imprese individuali, la monetizzazione delle azioni è una parte cruciale della strategia operativa dei fondi di investimento[8]. Questo per varie ragioni legate alla necessità di mostrare rendimenti regolari, mantenere un equilibrio di portafoglio, distribuire dividendi più alti possibile agli azionisti e rispondere rapidamente ai cambiamenti di mercato per riuscire a proteggerli. In conclusione, sia le famiglie che le imprese hanno contribuito ad accrescere significativamente le risorse liquide dei fondi. Alcuni di essi, in particolare, hanno rapidamente ampliato le loro partecipazioni in aziende globali, aumentando, così, la loro influenza e il loro controllo su molte delle principali società quotate in Borsa. Come è noto Vanguard, BlackRock e State Street Global Advisor, i 3 maggiori fondi di investimento del mondo, controllano quasi il 90% delle società in cui la maggior parte degli operatori di Borsa investono. I manager delle tre Big, di fatto, detengono circa il 5% delle azioni di tutte le corporation comprese nell’indice menzionato, ma rappresentano il 25% dei voti nelle assemblee direttive delle imprese in questione. Questa influenza ha permesso a questi fondi sia di promuovere con la loro liquidità operazioni di fusione e acquisizione (Merger and Acquisition, in breve M&A) – estendendo la quota di mercato delle corporation sotto il loro controllo in settori produttivi specifici – sia di avviare programmi di buyback per restituire valore agli azionisti dopo la fusione, consolidando o aumentando ulteriormente il valore della propria partecipazione azionaria in quelle stesse corporation[9]. In questo modo, i tre grandi fondi detengono attualmente, nei loro portafogli, una quota enorme dell’intero capitale azionario degli Stati uniti[10]. Siamo di fronte, osserviamo, ad un meccanismo di estrazione del valore che dipende dal controllo centralizzato di pacchetti azionari che prescinde dal meccanismo di accumulazione del capitale basato sull’estrazione di valore dalla produzione, descritto da Marx nel Capitale[11]. Anzi, proprio quel meccanismo viene fatto oggetto di un vero e proprio «sabotaggio», in quanto le risorse da destinare ai buyback, come anche ad altre attività speculative (futures sulle materie prime, valute, metalli preziosi, ecc.), vengono distratte dagli investimenti produttivi, anche nei settori/imprese con maggiore attitudine all’innovazione (vedi sopra)[12]. Ad ogni modo, nessun business potrebbe continuare realisticamente a sopravvivere senza che si continui ad accumulare, almeno in qualche misura, capitale fisico per produrre beni. I programmi di investimento delle imprese non possono essere radicalmente rallentati (né, tantomeno, completamente dismessi) in quanto ciò comprometterebbe totalmente la fiducia dei mercati finanziari nella loro capacità innovativa, mettendo seriamente a rischio le loro possibilità di sopravvivenza. Questo è particolarmente vero in relazione a comparti come le tecnologie digitali (principalmente business intelligence e intelligenza artificiale), l’energia, la farmaceutica e la difesa; sia per la loro rilevanza strategica sia per la loro capacità di attrarre le scommesse degli operatori finanziari sui loro asset, contribuendoli a farli crescere di valore. Il «sabotaggio» non può quindi estendersi oltre certi limiti, in quanto senza la sfera della produzione il capitalismo stesso non potrebbe esistere. È, allora, necessario che un consistente flusso di liquidità si diriga con regolarità verso i mercati finanziari e la Borsa impedendone il crollo, a dispetto del valore apparentemente troppo gonfiato dell’indice Shiller P/E. È proprio questo mancato flusso che ha determinato le crisi finanziarie del 2000 e del 2008.

D’altra parte, la sopravvivenza stessa del meccanismo di accumulazione produttiva non potrebbe ormai prescindere dall’esistenza di un considerevole livello di attività finanziarie. Al punto che, ad esempio, quasi il 25/30% dei profitti delle imprese non finanziarie USA derivano ormai proprio da quelle attività, che consentono di compensare la riduzione della massa dei profitti derivanti dalle attività produttive[13]. Questo porta alla necessità di ridefinire continuamente l’equilibrio tra i due diversi meccanismi di estrazione del valore per evitare la crisi definitiva del capitale.

 

Il capitale finanziario e il potere pubblico

La capacità, da parte di un numero limitato di soggetti economici, di manipolare i prezzi azionari attraverso programmi di buyback e operazioni M&A conferisce loro, oltre ad una grande capacità di influenzare le politiche aziendali, anche un notevole «potere di agire» sulla sfera politica[14]. Questo include:

a) esercitare pressioni su legislatori e regolatori per favorire politiche che sostengano i mercati finanziari, come incentivi fiscali o regolamentazioni più permissive;

b) promuovere limitazioni al finanziamento in deficit della spesa pubblica. Quanto più il deficit viene finanziato tramite l’emissione di titoli di debito, infatti, tanto più si assorbe risparmio privato, riducendo così le risorse disponibili per investimenti in attività finanziarie, mentre la spesa pubblica reinserisce nel circuito economico la liquidità sotto forma di domanda di beni e servizi.

c) Spingere indirettamente le banche centrali ad adottare politiche monetarie funzionali alle loro priorità, anche quando tali politiche non fossero sostenibili per il complesso dell’economia o, peggio, contribuissero ad aumentare le disuguaglianze economiche[15].

La grande probabilità di successo di queste azioni deriva dal fatto che la stabilità dei mercati azionari e l’aumento del valore dei titoli costituiscono argomenti molto persuasivi per le classi politiche e per le autorità monetarie, dal momento che quest’ultime hanno tutto l’interesse a che l’economia sia percepita come sana e protetta da fluttuazioni improvvise. Molti grandi fondi di investimento gestiscono i risparmi di milioni di persone, specialmente attraverso fondi pensione e altri strumenti di investimento a lungo termine. Se uno di questi fondi dovesse subire perdite significative per effetto di un crollo dei listini azionari ne deriverebbero gravi conseguenze sociali, oltre che economiche. La globalizzazione dei mercati finanziari, poi, ha fatto sì che i grandi fondi di investimento abbiano esposizioni enormi in tutto il mondo, creando una rete di interconnessioni internazionali. Se un fondo di grandi dimensioni subisse una perdita significativa in un mercato, l'effetto potrebbe propagarsi rapidamente in altri mercati. Ad esempio, una crisi in Cina o negli Stati Uniti potrebbe rapidamente avere effetti a catena sui mercati europei e asiatici, grazie al fitto reticolo di partecipazioni azionarie detenute dai grandi fondi. Infine, va osservato che le performance dei titoli a Wall Street hanno anche la funzione di attrarre capitali stranieri alla ricerca di elevati rendimenti finanziari, che acquistano attività denominate in dollari, sostenendone la quotazione del biglietto verde e la possibilità di gestione dell’enorme debito estero USA.

Questo potere di sostanziale coercizione, unito all’influenza sulle grandi aziende, rende fortemente asimmetrico il rapporto tra la finanza privata e il potere pubblico, creando una situazione in cui le priorità economiche dei fondi finiscono per prevalere sugli interessi collettivi. Il loro potere, infatti, non è solo economico, ma anche politico e strategico, in quanto in grado di influenzare gli indirizzi di interi settori economici (come energia, tecnologia, salute) come pure il destino di interi paesi o regioni. Questo fa si che l’affermazione di queste priorità siano sempre meno risonanti con sistemi politici «democratici» che, almeno in teoria, hanno il compito di mediare tra interessi contrapposti e che devono rispondere, almeno apparentemente, ai loro singoli cittadini. Al contrario, quelle aggregazioni di interessi necessitano oggi di regimi politici capaci di creare velocemente un ordine economico-sociale funzionale al loro business, ormai esteso fino a riguardare praticamente ogni aspetto della vita individuale e collettiva[16]. A questo scopo il corpo elettorale va periodicamente consultato, certo, ma le istituzioni politiche apicali e loro leader non sono obbligate a seguire le sue indicazioni che si configurano, a tutti gli effetti, come «pareri non vincolanti». Come conseguenza, non solo gli organismi parlamentari rappresentano ormai poco il corpo elettorale, ma oggi si verifica come il governo non tragga più la sua legittimazione dal fatto di rappresentare il parlamento. Ovviamente ciò non implica che «le forze politiche» non possano più assumere una posizione indipendente o anche fortemente critica nei confronti dell’azione di quei governi. Possono. Ma la probabilità che lo facciano, così come la portata della loro indipendenza, tendono a diminuire drammaticamente di fronte alla crescente riduzione dei margini di autonomia che quel suddetto ordine è disposto a tollerare. Tanto più che, a sorvegliare quei margini ci sono direttamente i rappresentanti delle stesse oligarchie economico-finanziarie, che entrano ed escono direttamente dai governi e da altri organismi istituzionali pubblici attraverso il meccanismo delle cosiddette «porte girevoli», espressione con cui si identifica il passaggio di funzionari pubblici e politici dal settore pubblico a quello privato, ma anche l’ingresso nelle pubbliche amministrazioni di esperti e manager provenienti da aziende private e viceversa (sul punto vedi Gallino 2012, Coveri et al. 2023).

 

Lo Stato servitore di due padroni

Gli argomenti sollevati nel paragrafo precedente ci portano ad affermare che, se pure possiamo identificare chiaramente le organizzazioni statali, è molto più difficile distinguere la loro logica di azione da quella del capitale finanziario, le cui logiche di valorizzazione fagocitano la funzione egemonica che lo Stato esercita sul proprio perimetro territoriale o su quello di altri Stati[17]. Al contrario del capitale produttivo, infatti, il capitale finanziario può raggiungere rapidamente «ovunque» ed esercitare una pressione formidabile su governi ed organismi sovranazionali, indipendentemente dalla sua appartenenza ad una nazione o alla sua «minacciosa» presenza fisica su una determinata area geografica. Questo costituisce un fattore che pregiudica inesorabilmente l’autonomia dello Stato-nazione così come abbiamo imparato a conoscerla dalla stipula della pace di Westfalia (1648). Più di altre fasi storiche appare dunque vero quello che Karl Marx e Friedrich Engels sinteticamente affermano nel Manifesto del 1848: «the executive of the modern state is nothing but a committee for managing the common affairs of the whole bourgeoisie». Con una rilevante differenza però. Gli interessi della borghesia si articolano oggi intorno a due meccanismi di accumulazione capitalistica fortemente dissonanti: quello dell’«accumulazione pecuniaria» – basato su una logica di estrazione parassitaria del valore – e quello dell’«accumulazione produttiva» – basato sull’estrazione di plusvalore dal lavoro e dalla produzione. Come visto sopra, lo sviluppo del primo meccanismo implica una evidente forma di sabotaggio nei confronti del secondo, dalla cui esistenza comunque non può prescindere e con cui deve convivere all’interno di equilibri mobili. Per questo la convergenza tra interessi capitalistici e Stato può risultare spesso complessa e contraddittoria e soggetta a imprevedibili e pericolosi cambiamenti. Ciò appare evidente in relazione alla gestione dei deficit pubblici. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, la logica dell’accumulazione pecuniaria necessita che le riserve liquide accumulate da imprese e famiglie siano indotte a fluire in modo continuativo verso l’acquisto di stock di ricchezza finanziaria, piuttosto che verso gli investimenti produttivi. A livello politico, il risultato potrebbe essere ottenuto attraverso l’imposizione di limitazioni sempre più forti al finanziamento in deficit della spesa pubblica, che drenerebbe l’afflusso del risparmio privato verso i grandi fondi e verso i mercati finanziari (vedi punto b paragrafo precedente). D’altra parte, però, la spesa pubblica si rivela indispensabile per lo sviluppo di molti settori produttivi strategici, specie nelle fasi di stagnazione dell’economia o di radicale transizione tecnologica (vedi Mazzucato 2014). Ne può, dunque, derivare una continua tensione tra gruppi di potere afferenti alle due diverse logiche di accumulazione, tensione che si alterna a temporanee convergenze. In questo senso i fondi, acquistando consistenti quote di debito pubblico potrebbero restituire (almeno in parte) alla Stato la possibilità di fare deficit a vantaggio di (almeno) alcuni settori produttivi. Tale favore, però, viene pagato con tassi di interesse vantaggiosi per i detentori ma spesso troppo onerosi per le imprese che devono investire, specie per quelle più esposte con il sistema bancario. Ne consegue, pertanto, una pressione continua sui banchieri centrali ad alzare o abbassare i tassi (vedi Brancaccio 2024), manovre che hanno certamente poco a vedere con l’obiettivo di mantenere sotto controllo il livello dell’inflazione (si veda la nota 14).

In conclusione, le due diverse forme di accumulazione capitalistica assegnano allo Stato il ruolo di definire nuovi equilibri e trovare spazi di convergenza tra i corrispondenti gruppi di potere, dove ciascuno, sebbene in un rapporto asimmetrico, partecipa ad una costruzione che non può fare a meno dall’altro. Questo avviene spesso a prescindere dagli interessi reali della maggioranza della popolazione, sempre più impoverita e con protezioni sociale (previdenza, sanità, istruzione, territorio) sacrificabili alla logica conseguente dei vincoli di bilancio. In questo contesto, desta molte perplessità l’argomento, molto caro al fronte politico di ispirazione progressista, in base al quale lo Stato abbia la possibilità di correggere/mitigare/diminuire la diseguaglianza della ricchezza tra i cittadini – recentemente esasperata anche dall’impatto non uniforme dell’inflazione sui diversi strati sociali – mediante lo strumento della tassazione, per meglio dire, mediante maggiori tasse sui possessori di capitale (si veda il saggio di Tomas Piketty del 2013) o sui percettori di extra-profitti. Al di là della sacrosanta legittimità dell’intervento, resta difficile credere che una significativa redistribuzione del carico fiscale possa avvenire agevolmente, considerando il forte controllo politico esercitato sulle istituzioni e sull’output legislativo da parte di associazioni e lobby che tutelano gli interessi dei top earners e dei possessori di capitale finanziario[18], anche in virtù dell’assenza di una normativa stringente in materia di sedi fiscali internazionali in grado di impedirne l’espatrio.

 

La geopolitica dei capitalisti e l’equilibrio della guerra

Qual è il riflesso di questo ragionamento sul piano geopolitico? Dall’analisi fin qui condotta emerge che, data la potenza, la pervasività e l’estensione transnazionale degli interessi implicati, solo ad uno sguardo «superficiale» lo Stato può essere considerato come un’entità autonoma, l’agente sovrano della difesa degli interessi della nazione (sicurezza, prosperità economica, prestigio internazionale, stabilità politica interna). Ovviamene non stiamo sostenendo qui che lo Stato «non conti». Riteniamo però che i suoi rappresentanti e le sue istituzioni abbiano oggi ben poche possibilità di emanciparsi dalla colossale pressione del profitto capitalistico, esercitata ormai su ambiti transnazionali attraverso i due distinti meccanismi di accumulazione. Questi ultimi operano poi in proporzioni diverse a seconda del paese in cui sono geograficamente radicati. Contrariamente a quanto avviene negli Stati Uniti, in paesi come Cina e Russia – dove lo Stato centralizza la maggior parte delle funzioni economiche e politiche – come pure in altri BRICS+, è ragionevole pensare che «il potere di agire» sia ancora maggiormente garantito dal meccanismo di accumulazione produttiva piuttosto che da quello basato sull’accumulazione pecuniaria. Sul piano internazionale come in quello interno si genera così una relazione instabile ma necessaria tra poteri a prevalente trazione finanziaria, basati su processi di «estrattivismo» e di «despossession», per dirla con David Harvey, e poteri a maggior trazione industriale, alla ricerca di sempre nuove opportunità di ridefinizione di quella relazione, in bilico tra biotecnologie, tecnologie verdi e tecnologie dei dati (algoritmi, cloud computingdata mining).

Alla luce di questo ragionamento, concordiamo pienamente con Brancaccio et al (2022, 2024) che sia poco credibile la tesi – rilanciata con poche eccezioni da media e opinionisti – che vorrebbe ricondurre le cause principali dei conflitti a fattori territoriali, etnici, religiosi ecc., oppure a decisioni frutto dell'ambizione di singoli leader (forse addirittura mentalmente poco stabili) che cercano di sovvertire in modo incontrollabile l'ordine egemonico esistente. Le cause profonde della guerra hanno invece al centro interessi materiali ed economici. Non potrebbe essere così dato «il potere di agire» che solo alcune aggregazioni di quegli interessi hanno oggi assunto sullo scenario globale.

Ci sembra però ancora un po' riduttivo, sebbene certamente interessante, rappresentare la recente ripresa dei conflitti militari tra gli Stati solo come l’esito ultimo di un contrasto tra alcuni di essi per il controllo globale di scarsità effettive e potenziali nella disponibilità delle risorse (vedi ad esempio Roberto Scazzieri nella postfazione del libro La Guerra Capitalistica di Brancaccio et al. 2022).

In modo apparentemente paradossale, infatti, la guerra ci sembra oggi costituire, più che il culmine violento della contrapposizione di (alcuni) Stati per l’egemonia sui mercati internazionali, un tragico spazio di compromesso utile alla sopravvivenza delle diverse manifestazioni del potere del capitale, che necessitano continuamente di nuovi equilibri per non fagocitare se stesse. Questo è possibile in virtù dell’attuale esistenza di nuovi modi di declinare il conflitto militare come una guerra da condurre su scala relativamente limitata, sebbene anche per lunghi o lunghissimi periodi di tempo, istigata da superpotenze militari senza implicare la loro partecipazione diretta e che viene combattuta per interposta nazione e per interposto popolo. Il contrassegno di questa tipologia di conflitto è costituito dal maggior utilizzo da parte di compagnie militari private che operano negli scenari più instabili, garantendo l’approvvigionamento dei sistemi d’arma più innovativi, l’addestramento della polizia, il supporto di intelligence, la protezione delle risorse strategiche e delle installazioni vitali, come anche la protezione dell’incolumità dei leader civili[19]. In altri termini, quelle che sono a tutti gli effetti forze private e milizie autonome soppiantano gradualmente il tradizionale «esercito nazionale», concetto che originariamente prende forma a partire dalla Rivoluzione francese, componente essenziale dello Stato sovrano in quanto espressione della sua capacità di difesa e tutela dell’integrità territoriale.

È in questo quadro che allo Stato viene conferita dai poteri capitalistici, e solo in funzione dell’equilibrio dei loro interessi, nuova legittimità per ristrutturare l’economia – in primo luogo accorciando le filiere produttive rispetto alla fase di globalizzazione – e coordinare gli sforzi per l’impegno bellico. La qual cosa, come giustamente osservava Brancaccio nell’articolo su «il manifesto» (vedi sopra), richiede stabilità e consenso interno. Per queste ragioni, ad esempio, durante gli ultimi due anni della presidenza Biden, la quantità di proiettili da 155 mm è passata da 14400 unità al mese a 36 mila con l’obiettivo di raggiungere le 100 mia unità entro il 2025. Un investimento colossale, pagato con il debito federale dollarizzato, di cui beneficeranno soprattutto 4 aziende: Lockheed Martin, Raytheon, Northrop Grumann e Boeing. Non a caso, si tratta di società partecipate al 25 per cento dalle Big Three che, come da prassi, sono diventate azioniste principali delle società che si occupano delle materie prime necessarie a produrre proiettili, a cominciare dal rame e dall’acciaio[20].

Il cosiddetto complesso militare-industriale (vedi Coveri et al. 2023) si avvia così a diventare l’unico settore delle economie capitaliste che potrebbe generare nuovi posti di lavoro e non essere afflitto da eccessi di capacità produttiva, come avviene da anni per tutte le altre principali industrie (vedi Pannone 2023). Le necessità di ammodernamento degli arsenali, infatti, potrebbero anche richiedere considerevoli investimenti per adeguare rapidamente la produzione potenziale dei sistemi d’arma, alimentando così un circolo pericolosamente virtuoso. Lo stesso, insieme all’accelerazione dell’imponente processo di riorganizzazione delle forze armate, si è verificato in Russia già prima della guerra con l’Ucraina.

Una prospettiva analoga, sebbene poco realistica, è evocata nell’eccessivamente enfatizzato rapporto Draghi sul «Futuro della competitività europea», commissionato all’ex governatore della Bce per avere un quadro analitico della realtà economica, produttiva e finanziaria del continente. Come osservato da Andrea Fumagalli[21]: «il rapporto prova ad individuare i settori del grande capitale privato come leva su cui imbastire un nuovo spazio economico e capitalistico europeo. E tale leva fa perno sull’apparato militare-industriale-algoritmico. Nell’attuale economia di guerra, non è un caso che la necessità di dotare l’Europa di un sistema di difesa comune sia una delle priorità politiche ed economiche più importanti, all’interno comunque del contesto Nato»[22].

 

Conclusioni

La prospettiva dei conflitti moderni favorisce una straordinaria convergenza delle due logiche di accumulazione. La logica dell’accumulazione produttiva riceve infatti un continuo impulso alla costruzione di nuovi sistemi di arma e di sicurezza, sempre più integrati con le tecnologie digitali più avanzate, con le ricerche più segrete dell’industria farmaceutica e dell’industria dell’energia. La conseguenza è che il processo industriale ad alta tecnologia e alto valore aggiunto restringe la sua base sociale e va inevitabilmente a coincidere con il settore degli armamenti che ha come diretto finanziatore e committente il governo e i governi dei paesi «amici». La logica dell’accumulazione pecuniaria, invece, trae dall’incertezza provocata dai venti di guerra una fortissima richiesta degli asset finanziari più strategici, sempre sotto il controllo delle imprese a maggiore capitalizzazione e degli azionisti più forti[24]. In conclusione, è evidente che, attraverso la guerra, l’economia e la Borsa possano ancora continuare a far gioire pochissimi a danno della maggior parte delle popolazioni del globo, occultando la linea di sangue che sottende i loro affari sotto l’egida dell’interesse nazionale. Quousque tandem?

 

 

Bibliografia

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Note

[1] Questa causalità inversa nella genesi delle crisi economiche è il risultato del processo di finanziarizzazione che caratterizza i sistemi capitalistici a partire dalla fine degli anni Novanta, resa possibile dalle enormi trasformazioni tecnologiche e del credito che caratterizzano quegli anni. Per «finanziarizzazione» intendiamo principalmente, in questa sede, il processo di spostamento di risorse liquide dagli investimenti produttivi alle attività finanziarie. Tale processo trae origine da una strutturale incapacità di quelle economie rispetto al passato di eliminare nelle fasi recessive la capacità produttiva in eccesso, e dalla necessità di provare a compensare la conseguente tendenza alla caduta dei profitti industriali con i profitti derivati dallo sviluppo esponenziale di attività finanziarie e a carattere speculative. Per un approfondimento del punto si rimanda ai capitoli 1-3 del mio libro Che cos’è la guerra? (Pannone 2023).

 [2] E. Brancaccio, La sopravvalutazione che governa il mondo, «il manifesto» dell’11 agosto 2024.

 [3] Nell’articolo citato di Brancaccio si fa riferimento al rapporto prezzi/dividendi anziché al rapporto prezzi/utili che definisce l’indice Shiller. La ragione è che il primo rapporto è spesso utilizzato dagli analisti come proxy, specialmente in analisi storiche dove i dati sui dividendi sono più facilmente disponibili.

 [4] Come riconosce lo stesso Brancaccio «l’indice di Shiller P/E ha i suoi limiti. Per esempio, non tiene conto del volume dei debiti delle aziende quotate. Ma questo significa che si tratta di una misura ottimistica, nel senso che può sottovalutare il rischio di una crisi. A Wall Street, nell’agosto 2008, il rapporto si situava appena sopra 20 e ben pochi osservatori ritenevano che potesse annunciare la tremenda recessione dei mesi successivi».

 [5] I riacquisti di proprie azioni non sono stati sempre legali. In passato erano effettivamente banditi come manipolazione del mercato fino a quando la Securities and Exchange Commission sotto l’amministrazione Reagan non ha allentato drasticamente le regole per consentire riacquisti regolari e di grandi dimensioni. Più precisamente la Sec ha adottato la Regola 10B-18 nel 1982 come porto sicuro per proteggere un emittente dall’accusa che stava manipolando il prezzo del suo titolo se riacquistava le sue azioni. La Sec ha modificato e interpretato la regola 10b-18 di volta in volta.

 [6] Nel periodo di luglio e agosto 2024, l’indice Shiller P/E, è rimasto sorprendentemente stabile nonostante l'aumento della volatilità nelle borse. È ragionevole pensare che questa stabilità sia almeno in parte attribuibile all'incremento delle operazioni di buyback da parte delle grandi aziende, soprattutto nel settore tecnologico. Durante questi mesi, infatti, molte aziende hanno continuato a riacquistare le proprie azioni, mantenendo così un certo equilibrio nei valori azionari nonostante le turbolenze di mercato.

 [7] Dal 2009 al 2017, secondo i calcoli di Artemis Asset Management, le sole aziende americane hanno riacquistato in Borsa azioni proprie per un totale di 3.800 miliardi di dollari. Nel 2019 i buyback del complesso delle aziende americane ammontavano a più di 800 miliardi di dollari. Nel 2021, il 68% di tutti i riacquisti dell’S&P 500 sono stati effettuati dai 50 maggiori «riacquistatori», che hanno anche ottenuto il 34% dei ricavi dell’S&P 500 e il 45% dei profitti, pagando il 28% dei dividendi. Nel 2022, i riacquisti di azioni proprie dell’S&P 500 hanno raggiunto un nuovo record di 923 miliardi di dollari, prima di diminuire nella prima metà del 2023 (Lazonik 2023). Secondo le stime degli analisti di Deutsche Bank, nel 2024 le operazioni di buyback, relative al mercato Usa, potrebbero raggiungere complessivamente la cifra record di mille miliardi di dollari; analoga tendenza in crescita è attesa anche in altri paesi occidentali tra cui l’Italia.

[8] Ancor di più dei fondi di investimento i fondi hedge o i fondi speculativi, hanno strategie più orientate al breve termine e alla monetizzazione veloce dei guadagni. Questi fondi sono particolarmente interessati a realizzare profitti immediati piuttosto che tenere le azioni a lungo termine, a differenza di altri investitori che possono preferire una strategia di buy-and-hold.

[9] Un esempio concreto è il caso di Apple, che ha speso oltre 90 miliardi di dollari in buyback nel 2023, portando a un incremento significativo del valore delle azioni possedute dalle Big Three.

 [10] Va anche osservato che la prerogativa di avviare sostanziosi programmi di buyback è diventata sempre più esclusiva delle imprese più forti e solvibili in seguito all’inasprimento delle condizioni di accesso al credito verificatosi dopo il 2022, allorché le banche centrali hanno iniziato ad aumentare i tassi di interesse per contenere le spinte inflazionistiche, cosa che ha reso estremamente più rischiosa la possibilità di indebitarsi a leva per investire sui mercati finanziari.

 [11] Ricordiamo che la centralizzazione, in Marx, riguarda la redistribuzione della proprietà dei capitali e trova una spiegazione teorica proprio nella concorrenza tra capitalisti in lotta per la valorizzazione del proprio capitale produttivo (vedi Fineschi, 2012, p. 695).

 [12] Questa tendenza si è osservata globalmente, sebbene in misura minore, fuori dagli Stati Uniti. In particolare, si segnalano per entità di buyback il Giappone, il Regno Unito, la Francia, il Canada e la Cina.

 [13] Si veda al link. Pur con tutte le loro imperfezioni, l’osservazione congiunta del ROA (Return on asset), del ROAA (Return on Operating asset) e del ROIC (Return on Invested Capital) favorisce una valutazione sufficientemente precisa del flusso di profitti in relazione al potenziale produttivo delle imprese. Ebbene, con riferimento agli Stati Uniti tutte e tre le metriche presentano trend simili caratterizzati da un evidente declino negli ultimi 47 anni.

 [14] Dal nostro punto di vista il termine «potere» va prevalentemente inteso in riferimento all’esistenza di relazioni sociali basate su una forte asimmetria nelle possibilità di «agire» – ad esempio attraverso il controllo di risorse materiali, umane e finanziarie - e quindi non solo in riferimento alla capacità di «qualcuno» (ad esempio un’impresa) di influenzare le azioni degli «altri» (ad esempio le imprese concorrenti). Sulla differenza del concetto di potere tra i vari approcci economici si veda l’analisi di Giulio Palermo 2007.

[15] Ad esempio, dopo la crisi pandemica, l’aumento dei tassi di interesse deciso dalle banche centrali con il proposito ufficiale di combattere la ripresa minacciosa dell’inflazione – fenomeno più legato alla speculazione finanziaria sui futures delle materie prime più che a un surriscaldamento reale dell'economia o a un eccesso di domanda (vedi Pannone 2023, cap 6) -  è stato fortemente spinto nell’opinione pubblica dalle Big Three attraverso analisti finanziari a libro paga e giornali come Wall Street Journal, New York Times, Financial Times, ecc., saldamente sotto il loro controllo proprietario. La ragione è semplice. Le Big Three hanno anche il controllo dei pacchetti azionari delle imprese più forti, che loro stesse possono rifornire di liquidità fungendo da “banche ombra”. Proprio le imprese più forti (e più solvibili), quindi, hanno potuto trarre vantaggio dal restringimento generale del credito che, oltre ad aver impoverito famiglie e lavoratori, ha gravemente penalizzato le imprese meno forti finanziariamente, favorendo una maggiore concentrazione dei mercati nelle mani delle prime. Inoltre, l’aumento dei tassi di interesse ha permesso ai grandi fondi di sfruttare la liquidità accumulata per investire in bond, divenuti ora molto più remunerativi, finanziando una quota importante del debito federale USA e aumentando ulteriormente la loro influenza nei confronti dello Stato.

 [16] La stessa vita umana, infatti, nell’era delle nuove tecnologie, diventa generatrice continua di informazioni e dati codificabili attraverso le piattaforme digitali, che sofisticati algoritmi possono trasformare in valore economico da capitalizzare in Borsa.

 [17] Come evidenziato da Arrighi (1994), il carattere egemonico di uno Stato si ha quando esso detiene una leadership che gli permette di dirigere il Sistema in una direzione ad esso funzionale. La logica egemonica degli Stati, quindi, sarebbe intrecciata ma sufficientemente indipendente dalla logica economica degli interessi che caratterizzano le società che quegli stessi Stati governano. In base all’analisi svolta nei paragrafi precedenti dovrebbe invece risultare evidente come questa indipendenza sia fortemente compromessa.

[18] Prova ne sono le introduzioni negli ultimi decenni di normative fiscali a favore delle classi ad alto reddito e di maggiore ricchezza, che hanno preso forma di una sostanziale riduzione dell’aliquota marginale e delle imposte sul patrimonio e i beni ereditari. Per contro l’imposizione fiscale a carico delle classi medie e dei lavoratori, cioè delle classi che per natura percepiscono meno reddito e dispongono di scarse ricchezze, è rimasta costante o è addirittura cresciuta a causa della dinamica dell’inflazione e di altri processi (Gallino 2012, cap. 2).

 [19] Come scrivo in Pannone (2024), «L’uso di compagnie militari private (PCM) nelle aree “calde” del globo è una certezza nel caso degli Stati Uniti e della Russia. Informazioni meno certe sono a disposizione riguardo alla Cina. Ad ogni modo diversi osservatori sostengono che Pechino ricorre a PCM per proteggere i propri interessi economici, in particolare nelle regioni ricche di risorse naturali, o per fornire supporto logistico e di sicurezza ai suoi progetti di sviluppo infrastrutturale già avviati all’estero, come la Belt and Road Initiative» (si veda al link). Con riferimento al conflitto Israele/Hamas/Jihad islamica (in seguito esteso fino a includere anche Hezbollah, gli Houthi e l'Iran), invece, è chiaro come le milizie del Rabbinato, incarnate nelle organizzazioni dei coloni ebrei, abbiano preso il controllo non solo delle terre palestinesi, ma, gradualmente, anche della società israeliana. Sull’altro versante, le milizie islamiche, rappresentate da Hamas e dalla Jihad islamica scita (e da Hezbollah in Libano), sono salite alla ribalta dopo che i tradizionali gruppi di resistenza dei palestinesi, principalmente l'OLP e il FPLP e, per estensione, anche l'Autorità Nazionale Palestinese, si sono indeboliti e si sono dimostrati incapaci di invertire, per non parlare di fermare, l'occupazione israeliana (vedi Bichler e Nitzan 2024).

[20] Ringrazio Alessandro Volpi per il dettaglio di queste informazioni.

[22] Indipendentemente da come una simile prospettiva riesca effettivamente ad essere finanziata – per Draghi occorre creare nel più breve tempo possibile un mercato unico dei capitali in Europa dove far confluire il risparmio dei cittadini dei vari Stati evitando che tali risorse siano drenate dai grandi fondi americani - il proposito di una difesa comune europea appare del tutto irrealistico in tempi brevi a causa dei tempi della produzione manifatturiera (per non parlare delle difficoltà di coordinamento politico). Questo condanna probabilmente i paesi europei a rimanere, attraverso la NATO, clienti obbligati delle imprese USA, contribuendo a gonfiare i loro profitti.

[23] Ad esempio, è noto come il prezzo relativo del petrolio sia altamente sensibile alle percezioni del rischio in Medio Oriente, reali o immaginarie; queste percezioni del rischio tendono a crescere prepotentemente in preparazione e durante l’acuirsi di conflitti armati; e man mano che i rischi aumentano, aumentano il prezzo relativo del greggio e quindi i profitti delle compagnie petrolifere (ExxonMobil, Chevron, Shell, BP, ecc.), di cui i grandi fondi detengono partecipazioni azionarie estremamente significative.


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Andrea Pannone è economista, esperto nell'analisi dei processi di innovazione tecnologica e dei loro riflessi a livello micro e macroeconomico. Si è laureato con lode e ha conseguito il dottorato in Scienze Economiche all'Università La Sapienza. Docente in diversi master, è autore di pubblicazioni nazionali e internazionali. Per DeriveApprodi ha scritto Che cos'è la guerra. La logica dei conflitti capitalistici nel XXI secolo (2023).

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