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L’Università e il sapere pratico

Considerazioni a partire da una nuova fase di inchiesta


università e sapere pratico

Con questo articolo, la sezione «commonware», prosegue l’inchiesta sulla composizione studentesca iniziata con il testo di Elia Alberici Liberare l’intelligenza dalla professionalità. La soggettività studentesca che emerge da questa ricerca è caratterizzata, tra le altre cose, da una forte aspirazione all’acquisizione e al possesso di quello che viene definito «sapere pratico», un sapere cioè che è in grado di fornire gli strumenti per intervenire sulla realtà e manipolarla. Questa aspirazione, come si leggerà, ha un carattere ambivalente: può prendere la forma della professionalità e quindi della valorizzazione capitalistica oppure quella della demercificazione e quindi della valorizzazione politica. La capacità politico organizzativa e il radicamento dentro la composizione studentesca determineranno quale delle due facce della medaglia prevarrà. Per ora occorre, amaramente, constatare che le forme della cooperazione interne al corpo studentesco sono quasi esclusivamente finalizzate all’obiettivo della professionalizzazione.


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Come «Centro di ricerca Officine della Formazione» riprendiamo in forma aggiornata l’analisi condotta a partire da una nuova fase di inchiesta effettuata presso l’Università di Bologna.

Al cuore della presente trattazione vi è il rapporto tra formazione e soggettività studentesca nell’università contemporanea. Per indagare questo rapporto ci si è avvalsi di alcuni macro-indicatori, alcune griglie di lettura sviluppate a partire dallo studio e dal confronto collettivo attorno ad alcune interviste preliminarmente effettuate e a cui si rimanda per una loro trattazione più diffusa[1]. A partire da queste premesse si è deciso di elaborare nuove domande che, prese nel loro complesso, hanno dato vita ad una nuova fase d’inchiesta.

A seguito di alcune riflessioni di tipo politico prima ancora che metodologico, in fase di campionamento si è scelto di suddividere l'intero universo considerato (ovvero la popolazione studentesca frequentante l’università di Bologna) in base alla frequentazione, a determinati corsi di studio. Rigettando l’ormai inflazionata polarità tra facoltà umanistiche e facoltà scientifiche si è invece provato a calare il ragionamento all’interno dell’orizzonte di senso imposto dal diverso grado di professionalizzazione che determinati corsi di studio tendono ad offrire rispetto ad altri. Con «professionalizzanti» intendiamo quindi corsi di studio rispetto ai quali al conseguimento del titolo corrisponde un certo tipo di figura professionale fenomenologicamente ben chiara ed individuabile, oltreché facilmente spendibile all’interno del mercato del lavoro. È così che corsi di studio per certi versi completamente differenti tra loro come Ingegneria, Servizio Sociale, Infermieristica ecc. rientrano tutti nell’insieme delle facoltà che abbiamo definito come fortemente professionalizzanti. Viceversa, corsi come Filosofia, Scienze Politiche, Fisica ecc., sono stati considerati come facenti parte dell’insieme di facoltà non immediatamente professionalizzanti. Questa ripartizione non è però da intendersi in maniera deterministica. Non era cioè importante trovare un effettivo riscontro scientifico in base al quale raccogliere conferme rispetto agli effettivi sbocchi lavorativi di tale o talaltro corso di studi (quanti studenti di Ingegneria diventano effettivamente ingegneri?). Quel che ci interessava era piuttosto rimanere aderenti alle aspettative e alle percezioni soggettive degli intervistati. Queste, vere o meno che fossero, operavano de facto come elementi di verità attraverso i quali gli studenti compivano le loro scelte formative.

Ciò che abbiamo avuto modo di apprendere dall’analisi delle interviste si dipana attorno ad una complessiva ricerca di senso da parte dei soggetti intervistati. Con ricerca di senso intendiamo una tensione latente, spesso mutevole e in continuo negoziato che coinvolge: le motivazioni, gli interessi, l’utilità, le aspirazioni, l’esperienza e le raffigurazioni di ogni individuo rispetto al proprio percorso e rispetto al sapere a cui accede.

La figura dello studente nell’Università odierna sembra discostarsi di molto dal cliché dello «studente fannullone», tutt’altro, quel che si percepisce è un alto grado di impegno e operosità. La maggioranza degli intervistati parallelamente al percorso di studio è impegnato anche in una attività lavorativa part-time o stagionale; prevalentemente nel settore del terziario. Ciò frequentemente dà seguito ad una difficile conciliazione tra tempo di lavoro e di vita, posto che spesso questi assumono contorni poco nitidi e definiti, ed influisce negativamente anche riguardo la motivazione e l’energia da dedicare allo studio. Per reagire a tali situazioni sono emerse tre differenti strategie di fronteggiamento: rinuncia, ottimizzazione e cooperazione. La prima consiste sostanzialmente nell’eliminare determinate attività ritenute superflue o nel consapevole ridimensionamento del profitto scolastico verso più miti aspettative.


Io, tempo libero quasi non ce l’ho, perché ho tanti impegni, mi piace avere tanti impegni [...] Per organizzare tutto io ho dovuto decidere di sacrificare alcune materie e dire: «qui il 18 mi basta». Negli ultimi mesi mi sono trovata un po’ in difficoltà, nel senso che a volte ho dovuto fare delle rinunce. [...] Sono ricadute sulla mia frequentazione alle lezioni, oppure sul tempo dedicato allo studio.

L’ottimizzazione si esprime invece nell’intensificazione e nella messa al lavoro di qualsiasi potenziale momento di vita, senza alcuna discriminazione tra momenti e luoghi tra loro diversi e più o meno congeniali all’attività da svolgere.


Ci ho messo un po’ a trovare un metodo di organizzazione, perché appunto lavorando, avendo meno tempo di studio dovevo ottimizzare. [...] Mi portavo i libri e nelle ore di bus che dovevo andare al negozio mi leggevo i libri per dirti. Dovevo ottimizzare i tempi in questo modo perché non avevo tanto tempo.


La cooperazione invece, basandosi sulla spartizione del lavoro e attraverso una dinamica improntata all’orizzontalità dei rapporti, apre a una dimensione di condivisione e relazionalità. Essa però rimane contingentata tutt’al più a forme di mutualità.


Il primo anno ho fatto un gruppo di studio, poi la corrispondenza di mappe concettuali, aiuti a trovare il tirocinio.

Sicuramente l’università stimola i rapporti, siamo in primis legati dallo studio. Molta cooperazione è legata a quello, cioè prendere appunti insieme e studiare insieme, proprio con uno scopo.

Sì, abbastanza, nel senso che abbiamo un gruppo whatsapp nel quale ogni tanto qualcuno chiede qualcosa e le persone ricevono quasi sempre risposta. Però a livello di cooperazione intesa come costrutto più ampio, non lo so magari per raggiungere una determinata cosa non si è mai verificato e non ne ho mai sentito particolarmente il bisogno, non ci sono mai stati veri e propri confronti per qualche problema in generale nel quale magari sarebbe servita cooperazione. Sì, non ho mai notato una cooperazione ampia.

Pur esprimendosi in forme e pratiche diverse possiamo dire che la cooperazione assolve principalmente una funzione di supporto ed aiuto reciproco. Non vi è una causa ultima verso la quale cooperare. Le forme di cooperazione poste in essere non sono tali da trascendere la singolarità e divenire soggetto collettivo che co-opera per un fine comune, manca un elemento ricompositivo. Per utilizzare una formula esemplificativa potremmo intendere queste forme di cooperazione come quelle di «individui che si aiutano reciprocamente, ognuno per il proprio fine». Questo scarto viene acutamente notato anche da uno degli intervistati, il quale ne parla utilizzando la formula di cooperazione ampia. Similmente, lo stesso discorso può essere fatto valere anche per quel che riguarda il tipo di socializzazione tra pari; anche se in questo caso non va dimenticato l’impatto che il periodo della pandemia Covid ha avuto nel ri-determinare le forme dello «stare insieme». In ambito universitario comunque la socialità pare essere contingentata al livello della piccola cerchia amicale, non esiste una socialità più diffusa, più ampia per così dire.


Sul piano personale, ti posso dire che il fatto che Bologna sia molto inclusiva è un falso mito. [...] io dico sempre che i gruppi si sono formati il primo giorno di università, perché tutti hanno bisogno. Nel senso è ovvio che arrivi quindi non sai dove guardare, conosci uno un attimo e da cosa nasce cosa, nascono i gruppi. L'idea che secondo me si viene ben accolti è falsa, noi ci siamo trovati bene, ma alla fine ognuno pensa a sé, non è che ci sia questa grande inclusività.

Andando in una nuova città, tutti abbiamo bisogno di socializzare, cioè, almeno gli studenti devono vivere in altre città, cioè, è interesse di tutti socializzare, diciamo, con loro abbiamo proprio creato un gruppo di amici. Gli altri studenti invece sono colleghi, siamo troppi e non riesco a conoscere e a parlare con tutti.

Rispetto poi al malessere e agli stati depressivi ed ansiogeni particolarmente diffusi nella composizione giovanile e studentesca è stato possibile notare come, da parte degli intervistati, si delinei la tendenza ad estendere lo sguardo anche al di là della sfera di vita legata al mondo universitario, concentrandosi precipuamente su tre domini di differente ordine di grandezza e tra loro fortemente interrelati: il , la famiglia e la società. In particolar modo l’ambito familiare è quello che più spesso ricorre con il riferimento al «debito morale» nei confronti dei propri genitori, per via dei sacrifici e delle rinunce che questi hanno dovuto compiere o per la condizione di dipendenza economica. Anche il confronto con i traguardi universitari e lavorativi dei membri più anziani della stessa famiglia viene identificato come un elemento di forte pressione. La comparazione e il confronto sono dinamiche molto sentite anche a livello sociale, qui però la figura che funge da oggetto di paragone non è materialmente identificata e pare essere più che altro una idealizzazione fantasmagorica. Ciò si accompagna anche alla vergogna e al mascheramento di quelle che vengono percepite come sconfitte o mancanze.


Non penso che ci sia una risposta unica, probabilmente ci sono tante cause e tanti fattori che partono da quelli personali, nel senso che sull’Università o comunque sul percorso, sulla valutazione è posto molto merito diciamo, molta pressione che può venire dalla persona stessa che magari si autoimpone di raggiungere un certo livello o di riuscire a dare certi esami in un periodo di tempo o di raggiungere certi voti e che può essere data anche dalla famiglia. Per esempio so di tante persone per le quali i genitori hanno aspettative molto alte sul percorso universitario e che quindi già a partire dalla scelta del corso di studio fino poi ad arrivare alla tempistica e alla valutazione si sentono molto sottopressione e magari studiano anche qualcosa che non gli piace.

Beh ansia e depressione sicuramente non è dovuta solo al fatto della pressione universitaria ma del mondo e del futuro che ci aspetta. Dell’incertezza che viviamo quotidianamente no, sui problemi climatici, sui problemi proprio a livello statale del nostro paese, della mancanza proprio delle opportunità lavorative o di persone che si laureano e quindi nonostante una laurea non riescono magari a trovare un lavoro.

In Italia c’è tanta competizione e questo crea alle persone uno stress e un’ansia non solo di dover dare il massimo e raggiungere il massimo a livello di voto ma anche proprio di dover finire tutto subito, in tempo, perchè se no sei indietro e se sei indietro sei inferiore. [...] Poi credo anche che c’è tanto giudizio perchè magari certe facoltà vengono viste come più scarse rispetto ad altre facoltà o più semplici o... sì, più semplici. Quindi magari vieni anche un po’ preso in giro quando dici che fai una determinata facoltà e questo anche crea stress, turbamento, magari anche proprio con la tua famiglia che non riesci a essere sincera e magari dire: «voglio fare questa facoltà, faccio questa facoltà», alcuni ragazzi so che mentono, io stessa ho mentito sulla facoltà che faccio. Lo fai perchè ti senti giudicato.


Sicuramente uno dei fattori è l’importanza che magari i genitori possono dare all’Università, ora dipende dai casi però. Può essere che gli studenti sono mantenuti dai propri genitori durante gli studi quindi c’è quella cosa di dover continuare... c’è di dover studiare perché i tuoi stanno facendo i sacrifici e quindi per forza devi. Ti senti una pressione e quindi ok, l’importanza che i tuoi genitori danno a questa cosa e anche da che classe sociale provengono i tuoi genitori, secondo me incide. Se magari provengono da una situazione più precaria a maggior ragione pesa di più sullo studente, sul figlio e quindi fai ancora più sensi di colpa.

Ritagliarsi una cornice di senso entro cui orientarsi costituisce perciò un sostegno rispetto alla grande domanda sintetizzabile in: «perchè faccio l’università?». Spesso questa ricerca di senso si configura come crisi nella misura in cui a prendere il sopravvento sono sentimenti come la paura, la confusione e l’indeterminatezza rispetto all’avvenire. Altrimenti, quel che si è potuto appurare è che questa ricerca di senso viene convogliata e tende ad inscriversi nella ricerca di un sapere pratico. Esso viene interpretato come una sorta di àncora di salvataggio, appiglio in grado di fissare l’immagine di un Sé possibile nell’incertezza di un futuro che appare invece sempre più nebuloso e incerto.

Quel che abbiamo definito sapere pratico può essere compreso a partire da un duplice significato: da una parte come sapere dinamico che abbia applicabilità immediata sulla realtà; come volontà di partecipazione attiva nel processo d’apprendimento e di co-costruzione di una relazionalità didattica diversa da quella esperita normalmente.

Dall’altra parte emerge nella sua componente più professionalizzante e utilitaristica: quella cioè di un sapere capace di soggettivare in quanto forza lavoro. In questo caso si manifesta nella richiesta di know-how e di una serie di competenze applicabili e spendibili verso il proprio futuro impiego. Di seguito alcuni stralci di interviste in cui è possibile notare l’emergere di questa ambivalenza.

Sapere pratico come professionalizzazione:


sociologia visuale... sembra interessantissima però non ti insegna a fare l’assistente sociale, parlavano di cose interessanti ma non utili.

secondo me l’università dovrebbe essere un attimino più concreta e metterti proprio davanti alla tua professione. Offrendoti cose incentrate proprio su quello che devi andare a fare.

Sapere pratico come coinvolgimento e cooperazione:


meno lezioni frontali e più partecipanti, che ti rendano più attivo come studente, laboratori dove interagisci. Lavori di gruppo, dove gli studenti poi magari si vanno a conoscere più in profondità, dove fanno dei lavori insieme, a livello collettivo. Magari anche di ricerca, esatto come stiamo facendo adesso, delle attività di questo tipo, che coinvolgano la persona non solo da un punto di vista teorico ma che la mettano in gioco magari di più a livello di relazioni, a livello di uno scambio tra le persone.

Gli stessi rapporti tra studenti sembrano strutturarsi in virtù dell’ambivalenza insita nel sapere pratico, che qui si traduce nel percepirsi al contempo come compagni di viaggio ma tuttavia colleghi.

Ciò che suscita interesse e ci spinge a seguire questa intuizione, approfondendone il suo portato politico, è che questa volontà di sapere pratico, talvolta nella sua componente più utilitaristica talaltra come forma di coinvolgimento e partecipazione, si esprime in maniera trasversale nella composizione studentesca accomunando tra loro studenti provenienti dai più disparati corsi di studio.

Nel volume collettaneo Sentimenti dell’aldiqua. Opportunismo, paura, cinismo nell’età del disincanto (a cura di Marco Mazzeo, DeriveApprodi, 2023), Massimo de Carolis tratteggia due distinti modi di concepire la libertà. Il primo si esprime così:

«Nella nostra tradizione la libertà è stata sempre concepita innanzitutto come autonomia: autonomia da ogni influenza o costrizione esterna e, al tempo stesso, autonomia da ogni passione o inclinazione naturale. [...] “libero” è propriamente solo il puro soggetto razionale, che dà a se stesso la sua propria legge e resta alieno da ogni coinvolgimento e da ogni forma di abbandono al mondo. Un sostanziale distacco dal mondo figura in questo quadro come il più ovvio corollario della libertà» (p. 49).

Il secondo, di uso comune e quotidiano, suona invece in maniera del tutto differente:

«Nella lingua di ogni giorno “essere libero” vuol dire infatti per lo più disporre di determinate possibilità concrete, possedere il potere e la capacità effettiva di compiere o non compiere determinate azioni. Un simile potere sottintende però sempre una qualche partecipazione al mondo, un’intimità col proprio contesto d’azione che trapassa in conoscenza e quindi in effettiva capacità di agire: è chi non esita a tuffarsi che impara a poter nuotare [...] In diretto contrasto con l’ideale dell’autonomia, questo concetto di libertà come “potenza pratica” (potentia, possibilità) tende insomma a sopprimere ogni distacco [...] a esaltare quell'interazione col mondo senza di cui non può per definizione sussistere alcuna potenza » (Ibidem).

Crediamo che queste riflessioni di De Carolis aggiungano un tassello importante al ragionamento sin qui avanzato rispetto a ciò che abbiamo definito come sapere pratico. Infatti, pur nelle evidenti differenze che intercorrono tra le due forme che il sapere pratico può assumere, ciò che le accomuna e le rivela invero come due facce della stessa medaglia sta proprio in quel che De Carolis definisce come «potenza pratica», ovvero volta «a esaltare quell’interazione col mondo senza di cui non può per definizione sussistere alcuna potenza».

«Libero è, in questa diversa accezione, chi possiede l’abilità, la competenza o più semplicemente la fortuna di poter riconoscere e sfruttare le innumerevoli chances offerte dal mondo. Ogni tendenza all’opportunismo nel mondo moderno è motivata, in ultima istanza, da questa volontà di appartenere al proprio mondo [...] Ci sono buone ragioni per supporre che, nelle società contemporanee, l’ideale della libertà come potenza sia destinato ad acquisire una centralità sempre maggiore rispetto a quello dell’autonomia» (Ibidem).

Proviamo a ricapitolare. La ricerca di senso che, nella caotica contingenza del quotidiano, guida ed orienta il proprio agire del Sé nel mondo per non essere ammantata dalle passioni tristi di impotenza ed indeterminatezza ed evolvere quindi in crisi abbisogna di essere convogliata verso una libertà intesa come potenza pratica. Essa si concretizza come continuo ed interminabile sforzo per l’accesso al possibile (potentia). La forma di comportamento che questo particolare tipo di condotta può assumere è l'opportunismo, con esso «il mondo si muta in un supermercato di chances svuotate ormai di ogni valore proprio». Eppure, come conclude De Carolis: «È nella stessa esperienza del possibile, nei suoi labirinti e nelle sue tortuosità, che occorre cercare una nuova strategia e nuove istanze di salvezza».

Vogliamo proporre una tesi forte. Diciamo perciò che all’interno del mondo della formazione universitaria non stiamo osservando altro se non queste forme di soggettività. La sola peculiarità che contraddistingue il nostro ambito di ricerca è che al suo interno la volontà di potenza pratica si incarna inevitabilmente nella richiesta di un certo tipo di sapere e conoscenza.


La speranza è quella di ottenere comunque qualcosa che mi faccia piacere e non finire poi a continuare a lavorare al decathlon


Dobbiamo ora tenere bene a mente i termini della nostra equazione. Da una parte abbiamo quella che potremmo definire la composizione tecnica studentesca, intendendo con essa il «posizionamento oggettivo» o, se si preferisce, la specificità curriculare che ogni individuo ricopre all’interno della fabbrica universitaria. L'abbiamo definita a partire da una polarità (immaginabile lungo un continuum) tra facoltà fortemente professionalizzanti e facoltà non immediatamente professionalizzanti. Dall’altra troviamo la volontà di sapere pratico che, pur manifestandosi trasversalmente nella composizione tecnica studentesca, è a sua volta attraversata dall’ambivalenza latente tra desiderio di professionalizzazione, cioè di acquisizione di quelle competenze tecnico-pratiche necessarie per divenire forza-lavoro qualificata sul mercato del lavoro o potenziale istanza politica trasformativa.

Senza scadere in nessun tipo di meccanicismo ipotizziamo però che il tipo di facoltà frequentata abbia un certo peso nel determinare verso quale sponda del sapere pratico ci si indirizzerà, come crediamo che, soprattutto in assenza di altre chances, la stessa ambivalenza in tendenza finirà sempre per risolversi entro l’orizzonte imposto della professionalizzazione e quindi della valorizzazione capitalistica. Riteniamo inoltre che l’università, ad oggi, per quanto disponga di ottimi mezzi per quel che riguarda il lato della professionalizzazione, pare non essere ancora in grado di offrire al suo interno vere e proprie esperienze di sapere pratico, come sapere in grado di relazionarsi dinamicamente e in maniera interattiva con il processo di apprendimento; di teoria come strumento della praxis per intervenire sulla realtà. Questo discorso vale in particolar modo per quelle facoltà di stampo non immediatamente professionalizzante, che riteniamo infatti posizionalmente strategiche. Come sintetizzava splendidamente un compagno nel corso di una riunione: «per queste soggettività l'università è il tempo del non ancora».

Che fare dunque? Crediamo sia giunto il momento di pensare a delle forme organizzative all’altezza di questo quadro. Cioè innanzitutto in grado di interfacciarsi, conoscere e dialogare con le realtà pensanti e i singoli che in maniera spontanea già popolano questo emisfero di sapere come potenza pratica. Ci riferiamo ad esempio a tutti quei gruppi presenti in università che attraverso la messa in condivisione di saperi ed esperienze contribuiscono a dare vita e ad animare iniziative di tipo artistico, politico e culturale. Diventare riferimento per chi potenzialmente vorrebbe farne parte. Siamo convinti che sia necessario far detonare le contraddizioni là dove la propria specificità curriculare, e cioè conoscenza tecnica, permette di aggredirle con più forza e più in profondità, senza perdersi in rivendicazioni di corto respiro. Non avere timore a muoversi nell’ambiguità presente nel desiderio di professionalizzazione poiché in essa, ora sappiamo, giace una simultanea ambivalenza. Riconoscere quindi «l’altra metà del cielo» e sforzarsi di capire come questa possa emergere e svilupparsi.


Come d’altronde ipotizzo, rispetto alle persone proletarie, singolari e collettive, anche che lo sviluppo del «capitale-umano» (ciò che un tempo si chiamava reificazione nell’astrazione) avvenga in parte in ostilità a loro stessi: ipotesi più pesante ancora! Però sempre con ambivalenza, si, e quindi però anche con una faccia ostile di questo processo e del suo esito! Il che significa che bisogna allora distinguere, tagliare in due, anche nell’interno dell’ambivalente capitale-umano che noi siamo, così come nell’ambivalenza dei mezzi, per districare e sviluppare la faccia «per noi» contro quell’altra «pel capitale» e «pel capitalismo» e quindi ostile a noi medesimi. Farlo anche nell’agente-umano. [...] E se la faccia «per noi» non c’è inventarla! E imporla! (R. Alquati, Cultura Formazione e Ricerca, Bologna, DeriveApprodi, 2023, pag. 56 ).


A tutto ciò dovrà perciò necessariamente affiancarsi un costante lavoro per organizzare le soggettività che attraversano questo campo contro loro stesse, contro il destino che gli viene imposto dal capitale e che essi hanno deciso di fare proprio, cucendoselo addosso. Altrimenti l’intero lavoro rischierebbe solo di «risolvere» una momentanea manchevolezza del sistema formativo, di mettergli una toppa. Crediamo insomma si tratti di piegare l’opportunismo della chance in opportunità di cambiamento. Seguendo le conclusioni di De Carolis:


In questa tensione l’opportunista resta catturato in una sorta di «doppio legame»: o piegarsi ancora una volta alla corrente dominante e rinunciare a ogni passione [...] o rimanere fedele alle proprie passioni, il che vuol dire opporre resistenza alla corrente e abbandonare di fatto la propria propensione opportunistica. In entrambi i casi, insomma, la tensione non può sciogliersi se non nel momento in cui l’opportunismo lascia il posto a una nuova figura. Per parte sua, un pensiero critico non ha altro interesse che quello di radicalizzare questa tensione, trasformando l’ambivalenza in un conflitto aperto. (op.cit., p. 62).





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Giovanni Morselli studia sociologia presso l’università di Bologna. Si è laureato in servizio sociale con una tesi dal titolo «Formazione e soggettività studentesca nell’Università contemporanea». Svolge attività di studio e di ricerca con il gruppo «Centro di ricerca Officine della Formazione».

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