Pubblichiamo un testo di Lorenzo Benadusi, docente di storia contemporanea all'Università di Roma Tre, sul tema dell'omosessualità maschile nell'esperimento totalitario fascista.
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Omosessualità e fascismo. Il tema è stato ormai da qualche tempo affrontato dagli storici ed è confluito come elemento centrale in alcuni romanzi e graphic novel. A distanza di anni è pero ancora il film Una giornata particolare che continua a rendere, visivamente ed emotivamente, l’idea dell’intrusione della politica nella vita privata degli omosessuali. Nell’affresco di Scola è infatti rappresentata la storia di emarginazione di due «diversi»: un uomo e una donna. L’una relegata al ruolo di moglie, madre e casalinga; l’altro, un omosessuale ex annunciatore dell’Eiar, licenziato per la sua voce non sufficientemente maschia e mandato al confino a Carbonia a causa della sue «tendenze depravate». Le motivazioni, le strategie e la concreta azione intrapresa dal regime contro l’omosessualità meritano invece una più attenta analisi per ricostruire una storia rimasta troppo a lungo nascosta.
La repressione della pederastia[1] nasceva infatti dal tentativo fascista di trasformare le coscienze degli italiani, realizzando una «rivoluzione antropologica» capace di rigenerare la nazione e dar vita a «un uomo nuovo», nato e cresciuto all’interno della cornice ideologica del regime. La politicità integrale dell’esistenza, con l’intervento diretto dello Stato anche nella sfera privata dei cittadini, doveva permettere al fascismo di trasformare stati d’animo, mentalità, azioni, pensieri, stili di vita - e per quanto riguarda la virilità, anche i comportamenti affettivi e sessuali. Il vero fascista era colui che interiorizzava a tal punto la fede politica da comportarsi in pubblico e in privato in maniera del tutto conforme all’ideologia. La virilità era il segno di un «patriottismo fisiologico» basato sul vigore del corpo e la capacità procreativa. La propaganda favoriva la diffusione di un’immagine della mascolinità aggressiva, autoritaria e marziale, rappresentando allo stesso tempo l’omosessuale in forma ridicola e caricaturale. Chi si allontanava dall’ideale del cittadino soldato, forte, atletico e virile, ne rappresentava il controtipo negativo, da correggere e isolare.
Proprio il maggior controllo sulla sessualità, unito alla rigida determinazione dei ruoli di genere e del canone di mascolinità, tendeva inevitabilmente ad allargare la categoria della devianza, facendo diminuire la tolleranza verso coloro che non si conformavano all’immagine dell’uomo imposta dal regime. Le istituzioni totali - dal carcere al manicomio, dal confino all’istituto correzionale - dovevano servire ad allontanare dalla società e a rigenerare gli individui «anormali», costretti a subire l’emarginazione per la loro diversità sessuale, religiosa, politica o razziale. In questa aspirazione a una trasformazione integrale degli individui risiedeva un aspetto fondamentale della dimensione totalitaria del fascismo. L’omosessuale era dunque considerato un pericoloso perturbatore dell’ordine nazionale: metteva in discussione i valori fondamentali della morale fascista; ledeva il prestigio della nazione con atti universalmente considerati perversi; svolgeva una pericolosa opera di corruzione nei confronti di chi lo avvicinava; minacciava la potenza e l’avvenire della patria, sottraendosi al dovere della procreazione; attentava all’unità della famiglia; minava la coesione interna del paese con la confusione dei ruoli sessuali. Un intervento troppo vistoso contro coloro che violavano il canone di virilità fascista rischiava però di sortire un effetto negativo, dando visibilità a un comportamento così disdicevole. Quella fascista risulta quindi un’attività volta a colpire ogni «anomalia» sessuale, senza suscitare scandalo e senza dare visibilità all’azione intrapresa. I mezzi impiegati in questa opera repressiva variavano perciò a seconda delle circostanze e andavano dalla condanna alla censura, dalla prigionia all’emarginazione, dall’esclusione alla negazione dell’omosessualità. Lo strumento più indicato per non dare eccessiva pubblicità all’azione repressiva era il confino di polizia, perché riusciva in maniera assai efficace a coprire il vuoto legislativo creato dalla non iscrizione delle relazioni omosessuali tra i reati previsti dal codice penale. La proposta di introdurre nel Codice Rocco l’articolo 528 contro le relazioni omosessuali era stata infatti cassata, in quanto: «la previsione di questo reato non è affatto necessaria, perché per fortuna ed orgoglio dell’Italia, il vizio abominevole, che vi darebbe vita, non è così diffuso, tra noi, da giustificarne l’intervento del legislatore. Nei congrui casi, può ricorrere l’applicazione delle più severe sanzioni relative ai delitti di violenza carnale, corruzione di minorenni e offese al pudore»[2]. Per debellare questa condotta immorale vi erano strumenti ben più sbrigativi, come appunto le misure di polizia: la diffida, l’ammonizione e il confino. Bastava dunque l’intervento delle forze dell’ordine per allontanare dalla società i prostituti e gli omosessuali incorreggibili, mentre la parte sana della popolazione doveva rimanere all’oscuro di questa «abominevole perversione». Per il fascismo era meglio celare l’esistenza dell’omosessualità che rendere pubblica la questione con un articolo di legge specifico, perché la virilità, rivendicata come una delle principali caratteristiche antropologiche degli italiani, non poteva essere smentita, neppure da qualche insignificante eccezione.
Il soffocare ogni riferimento all’omosessualità non impediva di attuare una persecuzione silenziosa, capace di salvaguardare «l’integrità della razza» e di tutelare l’immagine marziale e virile del regime. Attraverso la satira, la diffamazione, il controllo del parroco, del commissario di polizia, dei parenti e dei vicini, ma anche tramite la derisione pubblica, la perdita del lavoro, il diniego e l’oltraggio si cercava infatti di isolare coloro che venivano considerati i «traditori della stirpe». La pederastia non era una «piaga» così diffusa da richiedere un’azione pubblica per debellarla; l’importante era «intervenire con provvedimenti energici perché il male venga aggredito e cauterizzato nei suoi focolai»[3], relegando gli omosessuali più ostinati in qualche sperduta isola. La sanzione amministrativa del confino era considerata la forma più veloce e sicura per allontanare dalla società civile quegli individui che, con comportamenti sessuali non finalizzati alla procreazione, mettevano a repentaglio la crescita demografica della nazione. Una semplice denuncia anonima, una relazione fiduciaria o l’opinione diffusa che un individuo fosse omosessuale potevano indurre le forze dell’ordine a richiedere il giudizio della commissione provinciale per il confino. Per la condanna non era necessario un processo regolare, ne bastava uno sommario di pochi minuti, dove non era reso pubblico il giudizio, era soppressa l’esistenza del difensore, non erano ammessi testimoni e spesso non vi era interrogatorio. Non servivano neanche le prove, perché la polizia che proponeva il confino era allo stesso tempo parte giudicante. Gli inquirenti identificavano il pederasta come un individuo sessualmente passivo; non a caso, per accertare l’omosessualità degli incriminati, diversi questori ricorrevano all’esame rettale, così da avere una prova «oggettiva» della loro abitudine al coito anale. Il modello di mascolinità, totalmente incentrato sull’esaltazione della virilità e su una rigida divisione dei generi, portava infatti a circoscrivere l’azione repressiva quasi esclusivamente ai travestiti, ai prostituti e ai pederasti passivi - i «femminella», con movenze e ruolo sessuale di donna. Non sanzionava invece gli attivi, il cui comportamento era ritenuto del tutto normale e conforme al cliché dell’uomo che domina, conquista e possiede. La maggior parte degli omosessuali confinati erano perciò persone che manifestavano apertamente la loro inclinazione sessuale, o perché esercitavano la prostituzione, o perché, «contratta la malattia della pederastia passiva, perduto ogni ritegno di pudore», tendevano «a far conoscere pubblicamente la loro depravazione»[4]. La sessualità doveva configurarsi inevitabilmente nei due ruoli prestabiliti: quello dominante e attivo del maschio e quello subalterno e passivo della femmina. Insomma, più che l’omosessualità a destare preoccupazione era l’assenza di virilità, la passività e l’effeminatezza degli individui. Di conseguenza, nella sostanza il fascismo non puniva gli omosessuali, ma coloro che, a prescindere dalla loro identità sessuale, con i loro atteggiamenti femminili diffondevano un modello negativo e mettevano a repentaglio il canone di rispettabilità e di mascolinità. L’omosessualità era quindi un crimine così discrezionale da favorire il ricorso più strumentale alla repressione o all’indulgenza. L’accusa di pederastia, vera o presunta, costituiva perciò un’utile arma per la battaglia politica, da utilizzata per destituire personaggi politicamente scomodi, anche, come nel caso di Augusto Turati, se ai massimi gradi della gerarchia di partito.
La preoccupazione del regime di celare l’omosessualità, di evitare scandali controproducenti, di chiudere un occhio nei confronti dei gusti sessuali poco ortodossi del fascista forte e virile e di reprimere duramente solo chi ostentava pubblicamente i propri «eccentrici amori» è espressa in modo emblematico dalla vicenda di tre artisti notoriamente omosessuali: Giovanni Comisso, Ottone Rosai e Filippo De Pisis. Il primo caso è utile per valutare i condizionamenti esercitati dal regime sulla produzione letteraria degli scrittori che trattavano temi sconvenienti come l’omosessualità; condizionamenti di cui Comisso era ben consapevole. Del resto, degli interventi censori preventivi da lui stesso operati sui suoi scritti, prima di consegnarli all’editore, è rimasta traccia nelle stesure provvisorie dove, oltre ai continui tagli di autocensura sul tema dell’omosessualità, i personaggi cambiano identità sessuale e le relazioni d’amore dai connotati omoerotici si trasformano in rapporti eterosessuali. La tolleranza concessa dal fascismo agli artisti non arrivava infatti fino al punto di permettere loro di trattare argomenti tabù, né tanto meno di dichiarare apertamente al pubblico la loro «particolare» inclinazione sessuale. Si poteva chiudere un occhio sull’omosessualità presunta di in noto scrittore, non certo accreditarla ufficialmente. Comisso stesso difendeva questa sorta di pudore forzato intorno ai comportamenti sessuali, che dovevano rimanere un fatto intimo e privato. Proprio la riluttanza a sbandierare la propria «diversità», cercando nel contempo di viverla il più serenamente possibile, permise allo scrittore trevigiano di evitare l’intromissione della polizia nella sue faccende personali, senza per questo riuscire a sottrarsi dal condizionamento della morale fascista. Il regime avrebbe messo immediatamente a tacere un Oscar Wilde o un Pasolini che rivendicavano pubblicamente e provocatoriamente l’identità omosessuale e il diritto di esprimerla; era invece assai più indulgente verso chi, all’interno delle mura domestiche, senza infrangere il canone di rispettabilità, viveva un comportamento sessuale «deviato». Per Comisso, attento a non palesare apertamente la propria omosessualità, una vita riservata era l’unico modo per mettersi al riparo dall’ingerenza della politica sulla sua sfera privata, anche al costo di rinunciare alla celebrità. Insomma, nella campagna di Zero Branco, a contatto con l’autentico spirito popolare, isolato dal mondo borghese, poteva vivere liberamente i suoi affetti.
Altrettanto interessante è la vicenda personale di Ottone Rosai, un’artista che mal riusciva a conciliare la «retorica virile» con la sua forte inclinazione omosessuale. La paura della «diversità» lo spingeva a una ricerca faticosa della «normalità», cioè il matrimonio, l’interventismo, l’adesione al fascismo, l’accettazione della cattedra di pittura all’Accademia, tutti passi che possono essere spiegati con questa «nostalgia per la norma». La passione per i suoi giovani modelli gli creava una perenne inquietudine. Il senso di colpevolezza condizionava la vita e l’arte di Rosai, anche se il passato squadrista e teppista, unito a un fisico da granatiere, forte e possente erano una copertura abbastanza sicura per i suoi «vizi sessuali». Non a caso, non erano le sue frequentazioni private a procurargli i guai più seri, ma le critiche al Concordato, che dopo lo storico accordo tra Stato e Chiesa il fascismo non poteva tollerare. Il coinvolgimento nell’azione repressiva messa in atto dalla questura di Firenze contro l’omosessualità e la denuncia dei suoi stessi giovani amanti che lo accusavano di mantenere con loro «continua intimità abnorme», in quanto pederasta passivo, non sortivano invece particolare effetto. I carabinieri ritenevano di doversi limitare a diffidarlo visto che non avevano trovato elementi probatori tali da confermare la sua «depravazione psico-sessuale», perché questo «pittore molto apprezzato e di buona cultura letteraria» conduceva una vita assai ritirata. Il 24 febbraio del 1938 gli veniva perciò tolta la tessera del partito, ma non si procedeva alla diffida. Una nota del prefetto, inviata al Ministero dell’Interno ai primi di marzo, spiegava le ragioni di tanta indulgenza: non si era preso alcun provvedimento «in considerazione anche dei precedenti del medesimo quale ex combattente decorato al valore militare e fascista della prima ora, nonché dei meriti acquisiti nel campo artistico»[5]. Insomma, se per Rosai l’essere omosessuale non significava automaticamente sentirsi antifascista, neppure per il regime la pederastia dell’artista fiorentino costituiva motivo sufficiente per iscriverlo tra i suoi nemici. La vita «indecente» di Rosai ne aveva minato la reputazione, senza però compromettere del tutto i rapporti col fascismo e cancellare quell’attestato inconfutabile di virilità che poggiava solide basi nel coraggio mostrato in guerra e negli anni dello squadrismo. Lui stesso, ben consapevole di quanto fosse importante salvaguardare l’apparenza per essere stimati, a causa della sua omosessualità era sempre in angosciosa lotta con i suoi sensi di colpa, in un estenuante alternarsi tra l’aspirazione ad essere accettato e il desiderio di fuga dalla società rispettabile. Solo nella pittura raggiungeva il difficile equilibrio tra queste due spinte contrastanti, risolvendo le sue contraddizioni nel rappresentare con estremo rigore formale anche i soggetti più scandalosi.
Un altro artista famoso costretto a vivere in maniera problematica la propria omosessualità era Filippo De Pisis. Le pagine dei suoi diari sono piene di riferimenti alle difficoltà esistenziali vissute in famiglia e tra i suoi concittadini. Oltre all’ostilità degli abitanti di Ferrara, c’era poi la paura di lasciarsi andare all’amore «per i bei giovani efebi», lo sforzo atroce di nascondere agli altri la sua vera natura pur di non apparire «diverso». Il senso di emarginazione creava una forte inquietudine nel giovane artista che sentiva la vita di provincia sempre più soffocante e insopportabile. A poco a poco però, nonostante questi tormenti interiori, di pari passo con l’affermazione professionale, si accresceva in lui anche la capacità di accettare la propria sessualità, trasformando il suo senso estetico e il suo ideale di bellezza nella rappresentazione pittorica e il suo stile di vita in una continua esibizione di eleganza. A differenza di Comisso, De Pisis concepiva infatti la vita e l’arte come qualcosa di straordinario, una eccentricità di chi è dotato di capacità e di sensibilità fuori dal comune. Il culto della bellezza lo portava a conferire a ogni gesto un tratto particolare e originale, fino a sfociare nel dandysmo pur di distinguersi e dare libero sfogo alla sua personalità. Era dunque felice la scelta di trasferirsi a Parigi dove trovare un modo di vita più conforme alla sua indole. De Pisis, che in Italia nel clima istaurato dal fascismo rischiava solo di apparire un disadattato e un deviante, nel Quartiere Latino passava invece per un personaggio stravagante, un bohémien, ma anche un polo d’attrazione per i molti artisti italiani di passaggio nella capitale francese. Del resto, proprio durante le periodiche visite nel nostro paese era costretto a subire i guai maggiori per la sua irrefrenabile ricerca di giovani adolescenti, perché ai furti, ricatti e violenze, subiti ad opera dei tanti modelli sedotti o attratti dalla fama e dai soldi dell’artista, erano seguiti altrettanto spiacevoli inconvenienti, dovuti all’intervento della polizia, intenta a metter fine a questi «legami pericolosi». Il volontario esilio a Parigi non lo salvava per sempre, perché l’accusa di omosessualità rimaneva un’arma carica da utilizzare al momento opportuno. Ad accendere la miccia era un’imprudente intervista concessa a un giornale francese, in cui l’ormai affermato pittore ferrarese sosteneva di non apprezzare D’Annunzio e - fatto ben più grave - di non essere fascista. Immediatamente la stampa italiana ripescava tutte le dicerie già circolate sull’assenza di virilità di questo «Transfuga buffone». Nella vera e propria demolizione della sua figura morale anche l’accusa di pederastia assumeva un certo peso, tanto che ci si interrogava sul perché la Francia avesse accolto De Pisis, «nonostante l’accusa di androfilia che lo accompagnava ovunque e lo segnala a Parigi»[6]. I francesi non sembravano però curarsi troppo della moralità di De Pisis che sul finire degli anni Trenta aveva ormai ricevuto il riconoscimento ufficiale della critica, mentre i suoi quadri venivano esposti nelle migliori gallerie. In Italia, dove era costretto a tornare a causa della guerra, lo aspettava invece una situazione ben diversa. I successi dal punto di vista artistico non servivano infatti a metterlo al riparo dai guai causati dal suo stile di vita poco conforme al canone virile fascista. Dopo alcuni fastidi con la questura di Bologna, nell’estate del 1942 la polizia di Cortina d’Ampezzo, proprio per la sua condotta morale e sessuale, non esitava a emettere nei suoi confronti una diffida con divieto permanente di soggiorno nella famosa località turistica. L’onta del provvedimento non poteva essere evitata neanche dall’intervento del sottosegretario al Ministero dell’Educazione che riusciva però a salvarlo da una misura di polizia ben più grave della semplice diffida. L’incubo del confino tornava presto ad angosciarlo, perché, a seguito di un furto di alcuni suoi quadri, la polizia aveva scoperto la natura non solo artistica dei rapporti tra il pittore e i suoi giovani modelli. Il prefetto di Milano decideva quindi di aprire un dossier a suo carico come «perturbatore della morale» e, in obbligo alle leggi fasciste, proponeva di mandarlo al confino. De Pisis, avvertito da qualche amico ben informato, riusciva però a mettersi in salvo e grazie all’intervento del gerarca fascista Pareschi anche la minaccia di finire in qualche isola dell’Italia meridionale era per il momento sospesa. Nonostante questo, la paura di dover sempre camminare su un precipizio gli creava serie inquietudini. Certo gli era utile la rete di amici influenti, primo tra tutti Bottai, ma neppure loro riuscivano a lenire la sua angoscia e a preservarlo dalle conseguenze della sua condotta di vita assai poco ortodossa. I guai di De Pisis continuavano nel maggio del 1945, quando la festa dai forti toni omoerotici, organizzata nella sua abitazione di Venezia per celebrare la liberazione, veniva interrotta da alcuni partigiani comunisti che, ritenendola un’offesa alla morale e ai caduti della resistenza, arrestavano una ventina di partecipanti, tra cui l’importante pittore ferrarese. Sui giornali locali l’eco dello scandalo si faceva immediatamente sentire e i commenti salaci «sull’assemblea orgiastica» non risparmiavano giudizi corrosivi sulla pederastia dei convenuti.
Per gli omosessuali i problemi causati dalla propria «diversità» dipendevano dunque dal rifiuto o dall’incapacità di uniformarsi all’unica linea di condotta possibile per essere accettati: evitare scandali, vivere in modo appartato, oppure esibire un’apparenza di maschia virilità. Senza dubbio le stravaganze di De Pisis, la sue provocazioni, il modo di camminare dinoccolato, gli abiti sgargianti e attillati, le scarpe rosse con ghette chiare, i guanti di pelle gialla scamosciata, i profumi inebrianti, gli anelli, i bracciali e i fazzoletti di seta, il bastone intarsiato con manico d’argento, il monocolo di tartaruga, il cappotto con bavero di pelliccia e appoggiato sulla spalla Cocò, il suo inseparabile pappagallo, erano tutti fattori che mal si conciliavano con l’immagine marziale del regime. Un regime che, mirando a trasformare l’Italia in una caserma, con l’uniformità nella condotta sociale e individuale, la partecipazione ai riti celebrativi della rivoluzione e l’ostentazione continua della fede nell’ideologia, era portato a considerare il trasgressore della virilità in camicia nera come l’antitesi vivente dell’uomo nuovo fascista.
Note [1] Nel ventennio fascista il termine pederasta era largamente utilizzato come sinonimo di omosessuale. [2] Così il presidente della commissione ministeriale, incaricata di dare un parere sul progetto preliminare del nuovo codice penale, riassumeva le ragioni che avevano portato a non includere l’articolo 528 nel testo definitivo del Codice Rocco. [3] Con queste parole il questore di Catania motivava, «nel silenzio della legge», i provvedimenti di polizia adottati, «nell’interesse del buon costume e della sanità della razza», contro gli omosessuali della provincia. [4] Archivio Centrale dello Stato [ACS], Ufficio confino politico, Fascicoli Personali, b. 391, f. «Salvatore F». [5] ACS, P.S. A1, 1942, b. 99, f. «Rosai Ottone». [6] De Pisis, l’infortunio di Parigi, in «Corriere Padano», 29-11-1926.
Bibliografia
Benadusi Lorenzo, Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista, Feltrinelli, Milano 2005.
Circolo Pink (a cura di), Le ragioni di un silenzio. La persecuzione degli omosessuali durante il nazismo e il fascismo, Ombre Corte, Verona 2002.
Dall’Orto Giovanni, Il paradosso del razzismo fascista verso l’omosessualità in Burgio Alberto (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 515-528.
Ebner Michael, The Persecution of Homosexual Men under Fascism 1926-1943, in Wilson Perry (a cura di), Gender, Family, and Sexuality: The Private Spere in Italy, 1860-1945, Palgrave-Macmillan, Londra 2004, pp. 139-156.
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Lorenzo Benadusi insegna storia contemporanea e storia della cultura in età contemporanea all’Università di Roma Tre. Oltre alla storia del giornalismo e alla storia militare, si è occupato di storia di genere e della mascolinità, della sessualità e dell’omosessualità, con particolare interesse all’Italia liberale e fascista. Tra i suoi libri più recenti: Ufficiale e gentiluomo. Virtù civili e valori militari in Italia, 1896-1918 (Feltrinelli 2015); Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista (Feltrinelli 2005; Wisconsin University Press 2012); con Paola Guezzo e Paolo Bernardini, Homosexuality in Italian Literature, Society, and Culture, 1789-1919 (Cambridge Scholars Publishing 2017); con Daniela Rossini e Anna Villari, 1917, L’inizio del secolo americano. Politica, propaganda e cultura in Italia tra guerra e dopoguerra (Viella 2018).
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