Nel contributo che pubblichiamo oggi, Yann Moulier-Boutang, economista e saggista francese, fondatore della rivista «Camarades» negli anni ’70, direttore della rivista «Multitudes» dal 2000 e autore di Dalla schiavitù al lavoro salariato (manifestolibri, 2002), riprende e aggiorna il suo punto di vista, da sempre volto a cercare vie di sottrazione alla schiavitù del lavoro salariato, all’epoca delle piattaforme digitali. La traduzione dal francese all’italiano è a cura di Officina Uninomade Brasil ed è stata rivista dai redattori.
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La tradizione di pensiero nata in Europa con la dialettica servo-padrone di Hegel riteneva che la libertà di colui che deve obbedire si conquistasse nel e attraverso il lavoro. Questa visione non ha più goduto di buona stampa da quando i nazisti affissero il motto «Arbeit Macht Frei» all'ingresso dei campi di concentramento e di sterminio, e da quando anche il volto radioso del socialismo realmente esistente nella Russia sovietica ha assunto l'aspetto sinistro della Kolyma (dei Gulag). Invece di cercare la libertà nel calderone del lavoro, siamo tornati a un'altra tradizione, quella della buona vita, che sola potrebbe aprire la porta alla liberazione o all'esistenza in quanto tale, come puro progetto, libero da ogni determinazione.
Il lavoro salariato è un lavoro «gratuito»?
Nel 1836, dopo pochi anni dall'abolizione della schiavitù in Giamaica, gli schiavi liberati si lamentavano di aver barattato il loro affrancamento, almeno sulla carta, con il cibo, l'alloggio per le loro famiglie, le cure in caso di malattia... In diversi secoli di schiavitù, gli schiavi neri (bossales) portati dall'Africa con la tratta degli schiavie poi i loro discendenti nati sul posto (créoles), al costo di sangue, lacrime e sudore, hanno conquistato spazi di vita, riuscendo ad imporreuna giornata lavorativa di 12 ore (in particolare nel «Codice Nero» elaborato da Colbert). Erano riusciti a ricreare una cultura, a trasformare la religione dei loro padroni ristabilendo il culto per le loro divinità Xanga e Orisha sotto le sembianze di santi (il culto vodoo). Alcuni liberti e meticci spesso riuscivano a diventare leader delle indipendenze (ma anche proprietari di schiavi).
Il new deal dell'abolizione e del lavoro «libero» cancellò con un tratto di penna la maggior parte degli spazi di libertà che essi avevano conquistato. I coloni e i piantatori si resero presto conto dei vantaggi che il lavoro salariato rappresentava per loro. Certo, il lavoro doveva essere pagato ma, come dirà elegantemente il marxismo che Marx ed Engels stavano «inventando» quasi contemporaneamente in Europa, il salario copre i costi di riproduzione della forza lavoro come saldo di ogni conto. È vero che spariva il controllo che la «senzala» (un vero e proprio villaggio in Brasile, altrove esisteva con un altro nome) permetteva, la promiscuità spesso incestuosa degli schiavi di casa o di cortile rispetto agli schiavi di giardino, ma termina anche l'onere finanziario di questa vita quotidiana: in altri termini, il lavoro libero significava la fine dell'obbligo del padrone di ospitare, nutrire e prendersi cura dei suoi schiavi (che erano costati molto al momento dell’acquisto o che dovevano essere riprodotti con le loro famiglie, anche se la rivendita dei loro beni o il droit de cuissage - ius primae noctis – smantellava continuamente quella che poteva essere una fonte di resistenza). Il lavoro libero era, in definitiva, più economico. Per funzionare, un mercato del lavoro locale aveva bisogno che ci fossero dei poveri pronti a vendersi letteralmente per un boccone di pane e dunque che si impedisse il loro insediamento per conto proprio su terreni fertili, installandoci dei coloni migranti europei. I proprietari delle piantagioni pensavano così di avere a disposizione una quantità illimitata di manodopera.
Questo tentativo non funzionò bene, perché una volta liberi, gli schiavi proletarizzati tornarono a fuggire, come avevano fatto quando vigeva la servitù, ma questa volta senza i pericoli del marooning. tanto che, accanto alla manodopera salariale «libera» a basso salario ma ad alta mobilità, fu il lavoro dei lavoratori indentured provenienti dall'Africa o dall'India (coolies) a diventare la forma più diffusa di lavoro libero. Libero ? Non completamente, dal momento che il lavoratore indentured era obbligato a rimanere al servizio del suo datore di lavoro per un periodo compreso tra i tre e i cinque anni senza poter rompere unilateralmente il contratto (la pena era il ritorno al paese d'origine) e che una parte della sua retribuzione poteva essere trattenuta come pegno fino alla fine del contratto.
Il panorama delle forme di lavoro dipendente nel XIX secolo, e anche nel XX, è piuttosto desolante: la persistenza della servitù della gleba fino al 1865 (Russia), della schiavitù fino al 1848 (Francia), al 1865 (Stati Uniti), al 1888 (Brasile), al 1907 (Zanzibar) e alla Mauritania (1962); il lavoro a contratto (coolies e l'attuale sistema di migrazione internazionale); e il lavoro «libero» che in realtà è, grazie a vari dispositivi, dipendente
La storia interna del lavoro salariato è così una doppia storia di liberazione: prima la liberazione da forme di lavoro non libere (antica schiavitù, servitù della gleba medievale, moderna schiavitù coloniale, seconda servitù della gleba); poi, appena chiuso questo capitolo, ricomincia un'altra lotta di liberazione, questa volta all'interno del lavoro salariato libero. Ne è una prova la lenta trasformazione del contratto commerciale di affitto di servizi in contratto di lavoro a tempo indeterminato (con il divieto di negoziare manodopera, di prestazioni in natura volte a fissare il lavoratore, di ogni forma di paternalismo e, non ultimo, dell'acquisto di lavoro per un periodo di tempo predeterminato e, soprattutto, con il riconoscimento del diritto del lavoratore di recedere unilateralmente il contratto senza sanzioni penali o pecuniarie, queste ultime due caratteristiche ottenute separando nettamente il Codice del Commercio dal Codice del Lavoro).
L’inquadramento giuridico del contratto di lavoro salariato ha iniziato a regolare la durata legale del lavoro, poi le prestazioni sociali, in breve quello che è stato chiamato il salario sociale. Dagli anni Venti del XIX secolo agli anni Sessanta del XX secolo, quando l'occupazione salariale si è diffusa fino a comprendere oltre il 90% della popolazione attiva, si può affermare che la dipendenza del salariato (cioè la parte di servitù che implica lavorare per qualcun altro, cioè il datore di lavoro) è stata compensata da tutta una serie di restrizioni al diritto del datore di lavoro di usare la sua superiorità nel mercato del lavoro.
Alla vigilia della crisi energetica (1973-1980), dopo un esodo rurale che ha ridotto i contadini autonomi a meno del 5% della popolazione attiva, la «libertà» del lavoratore salariato sembrava così essere arrivata a un punto di non ritorno e i margini che si era conquistato sembravano «conquiste definitive», insomma le conquiste del Movimento Operaio.
Ma, come l'arazzo di Penelope, la marcia per la libertà dei lavoratori deve essere rimessa sul telaio. In primo luogo, a causa della crisi economica e della globalizzazione, che hanno messo i sindacati sulla difensiva. In secondo luogo, a causa di un movimento di de-salarizzazione formale. Negli ultimi 50 anni, l'occupazione salariale nel senso pieno del termine della popolazione attiva (popolazione con contratto a tempo indeterminato) ha subito un rallentamento, per poi ristagnare all'88% in Francia nel 2020. I primi due fattori favoriscono, su scala nazionale, un rapidissimo aumento delle «forme atipiche di lavoro», come i contratti a tempo determinato, il lavoro interinale, il lavoro a tempo parziale, i lavoratori temporanei. Non esiste più un esercito di riserva nel senso tradizionale del termine, ma piuttosto una gamma di status inferiori la cui panoplia è in crescita e costituisce uno dei segreti della famosa flessibilità. All'inizio, queste forme atipiche di lavoro sembravano essere poche in volume (dal 10% al 15% dell'occupazione totale). Tuttavia, si sono rapidamente affermate e, a partire dagli anni '90, hanno rappresentato più della metà dei posti di lavoro offerti ai nuovi arrivati sul mercato del lavoro.
Un secondo fattore di indebolimento della norma salariale piena e intera – lo si era già notato durante la Grande Depressione degli anni 1930 - si aggiunge al quadro: è il ritiro dei lavoratori minacciati dalla disoccupazione verso il lavoro autonomo con lo status di lavoratori indipendenti. Lo statuto di auto-imprenditore, poi micro-imprenditore creato nel 2009, ha istituzionalizzato questa tendenza. Alla fine del 2018, in Francia c'erano 1,36 milioni di microimprenditori, ovvero il 42% dei lavoratori autonomi, rispetto al 26% del 2011. L'esenzione fiscale fino a un massimale significativo (tra 72.000 e 176.000 euro di fatturato annuo a seconda del tipo di attività, e l'assoggettamento all'IVA al di sotto di un massimale compreso tra 34.000 e 86.000 euro) rende questo status attraente, soprattutto perché può essere combinato con un contratto a tempo indeterminato. Il 33% dei microimprenditori sono anche dipendenti. Si tratta del 5% della popolazione attiva e di oltre il 40% dei lavoratori autonomi. La copertura previdenziale (comprese le assicurazioni sanitarie e le pensioni), che all'inizio era chiaramente inadeguata, alla fine si avvicinerà a quella dei lavoratori salariati. Ma questo è anche il risultato di due secoli di evoluzione in cui la libertà delle professioni «liberali» è stata pagata al prezzo elevato di pensioni molto scarse.
Ciò è tanto più vero in quanto lo status di microimprenditore serve a integrare il reddito dei pensionati e dei lavoratori salariati in attività, ma anche come anticamera o paracadute per il lavoro autonomo. Resta in ogni caso sensibile alle crisi economiche: la crisi di Covid 19 potrebbe portare a gonfiare il numero dei suoi effettivi.
Piattaforme digitali, padroni invisibili?
Infine, elemento che rappresenta una novità dell’inizio di questo secolo, le forme di attività fisica o intellettuale legate a piattaforme di servizi digitali come Uber Taxi, Uber Eats, Deliveroo, AirBnB, tutte apparse tra il 2009 e il 2013, illustrano la fatica di Sisifo della liberazione del lavoro. Le piattaforme digitali sembravano offrire (e continuano a contare su questo «vantaggio») la libertà di non dipendere direttamente da un padrone. Il mercato sembra quindi offrire lo spazio per questa marcia verso la libertà, argomento già sensibile per il movimento operaio. Per il proletario, infatti, il lavoro salariato nascente era una possibile forma di liberazione dal lavoro al servizio dell'Ancien Régime; soltanto un secolo dopo, ne inscriveva l'abolizione a caratteri d'oro negli statuti della CGT nel 1906, considerato che nel frattempo il lavoro libero era diventato l'equivalente della moderna servitù. Sotto l'Ancien Régime, il lavoro «libero» era il lavoro al di fuori delle corporazioni dei ciambellani, gli artigiani che non erano riusciti a diventare maestri e che impiegavano la manodopera clandestinamente. Erano proprio loro che fornivano gran parte del putting-out system (ad esempio, la subfornitura tessile per i mercanti di seta lionesi). E mentre i sindacati, seguendo con ritardo i socialdemocratici tedeschi (dal congresso di Bad Godesberg del 1959), hanno rinunciato all'abolizione del lavoro salariato, quest'ultimo è tornato ad essere una questione di libertà di fronte al feudalesimo delle «GAFAM» e degli altri Unicorni.
Da oltre un decennio, coloro che lavorano «con le» o «sulle piattaforme» sono trattati come collaboratori autonomi e non come dipendenti soggetti alla legge. In questo modo, queste piattaforme sono libere da tutti gli obblighi di un datore di lavoro. Questa elusione del codice del lavoro, come la Matrioska in cui una bambola più piccola è inserita in una più grande, ne replica un'altra su cui si basa la fortissima redditività dei GAFAM: il mancato riconoscimento come lavoro e contributo produttivo dell'attività di chi «clicca» sui siti di ricerca o sui servizi «gratuiti». Tutti gli elementi ci indicano che, dopo gli anni di abbondanza per le piattaforme cosiddette «collaborative» dello status di lavoratore autonomo, l' «uber-lavoro» stia per tornare al lavoro dipendente e al suo quadro giuridico: le sentenze dei tribunali in questo senso si moltiplicano. Uber, in particolare (ma è solo il leader simbolico di questa forma di ingegnoso sfruttamento del desiderio di libertà), è stata appena condannata in Inghilterra a riconoscere ai suoi autisti lo status di lavoratori subordinati e a riclassificare la loro attività come un contratto di lavoro. Marx ne avrebbe parlato come della fine del periodo del plusvalore assoluto e del passaggio al plusvalore relativo.
La libertà di chi naviga sui siti Internet è un trucco più sottile della libertà della volpe nel pollaio, così spesso invocata dai critici del neoliberismo. Essa nasconde l'attività sempre più sociale, collettiva e impollinatrice delle moltitudini nella rete digitale, pur essendo pienamente consapevole del suo reale ruolo economico. Non si tratta, come propone Gaspar Koenig (un vero liberale) di premiare il valore individuale dei dati personali ̶̶ da cui ogni attore in quanto proprietario, potrebbe ricavare un reddito vendendoli sul mercato ̶ ma del contributo di migliaia di clic e della loro traduzione in emoji grazie al loro tracciamento digitale alle IA, al matching che decuplica l'efficienza dell'allocazione delle risorse.
I polli hanno paura di uscire dal pollaio e quindi delle volpi perché hanno perso gradualmente le ali che gli permettono di nidificare sui rami alti degli alberi. Sono più simili alla capra del signor Seguin, che considerava l’erba della montagna sempre più verde rispetto a quella del prato che aveva a disposizione. .
L'internauta lambda, un'ape dalle zampe d'oro, vede moltiplicata su scala indefinita la sua capacità di conversare, di foraggiare, di collaborare con gli altri. La sua sensazione di libertà è completamente legata all'aumento del suo potere di agire, più che all'esercizio del potere sugli altri (se ricordiamo che Michel Foucault definiva il potere come il fatto di far fare qualcosa a qualcuno) che è il principale veicolo di avanzamento gerarchico nel salariato moderno. E tutta l'intelligenza un po' perversa delle GAFAM consiste nel sedurre questo desiderio di libertà, nell'addomesticarlo «a sua insaputa». Che cosa ha in comune questa libertà del geek viziato con il fenomeno (che incuriosisce e irrita gli steward e i capisquadra) della proverbiale instabilità del lavoratore a giornata o dell'agricoltore stagionale (pagato a cottimo) che non vuole stare fermo tutto l'anno, dell'hobo americano dei primi del Novecento che segue le ferrovie americane per spostarsi su territori immensi, dell'intermittente dello spettacolo che cambia padrone e non vorrebbe «invecchiare con lui» per nulla al mondo? Durante il passaggio dal cottimo al salario orario, e poi al salario mensile, una percentuale significativa di lavoratori era molto riluttante a queste trasformazioni, perché la possibilità di lasciare il lavoro a piacimento, era considerata una libertà fondamentale, se non la libertà.
Indubbiamente, il desiderio di autonomia (ovvero il non dipendere direttamente dagli altri, anche se l'uguaglianza ne è crudelmente negativamente influenzata, così come ci spiega la favola del cane grasso e del lupo affamato) è la molla. Non è il lavoro duro o la tortura (tripalium) a respingere, ma il suo guinzaglio di subordinazione. Questo sentimento di autonomia non fornisce necessariamente l'orgoglio di un lavoro ben fatto, la realizzazione nel e attraverso il lavoro, l'identità lavorativa di cui parla la sociologia industriale. La sensazione è molto diversa, quella di una potenza che si scontra costantemente con il potere che vuole addomesticarlo, aggiustarlo, rinchiuderlo, legarlo.
Decolonizzare per permettere a tutti di impollinare!
Ecco senza dubbio il motivo per cui la libertà, intesa come sensazione di potenza illimitata, non si combina bene con il potere, con qualsiasi forma di potere. Corrisponde alla giovinezza della volontà, a un'eternità istantanea piuttosto che alla saggezza dell'immortalità. A un continuo superamento del limite, a un bisogno non di trascendenza al di fuori di sé, ma di superaramento di sè a qualsiasi costo.
Sono queste le molle a cui fanno appello i giochi e lo sport, ma anche l'attività artistica e l'ingegno tecnico. Questo «potlatch di spesa» (per dirla con Georges Bataille) supera e trasgredisce lo scambio di equivalenze. Non è il dispendio di energia entropica che tende inesorabilmente all'esaurimento, come nello schema, degno del secondo principio di Carnot, del consumo di forza lavoro. Il dispendio celebrato nell'esercizio della potenza della libertà è qui neghentropico; aumenta il potere di agire. In questo senso è una passione gioiosa (nel senso dell'affetto di un soggetto).Il dispositivo tecnico rientra nello stesso principio. Facilita la libertà. È un facilitatore, una protesi del movimento che si libera dai limiti del ciclo precedente. Le disposizioni digitali del virtuale amplificano l'immaginazione, proiettando il corpo dove non potrebbe ma vorrebbe andare, a causa dei limiti della gravità, della distanza nello spazio e della velocità di enunciazione e di calcolo. La navigazione nel web è paragonabile al volo di Icaro, solo che le sue ali non si sciolgono.
Nessun motore di ricerca, nessun social network avrebbe guadagnato un tale pubblico o esercitato un tale fascino se non avesse incontrato l’oscuro oggetto del desiderio di libertà, se non gli avesse offerto uno spazio di diffusione. Questo è un aspetto che la critica della Scuola di Francoforte al funzionamento passivo del consumo, in particolare di Herbert Marcuse, non poteva prendere in considerazione a suo tempo. Criticare l'asservimento, accuratamente celato, praticato dai nuovi padroni delle tecnologie digitali senza tenere conto del fascino di questi «nuovi spazi di libertà» non è efficace.
Lo stesso accadde quando i liberali del XVIII secolo scoprirono l'aspetto pacificante dell'emulazione da parte del mercato (la cosiddetta «dolcezza del commercio»). Il boom del mercato da loro sostenuto e realizzato in gran parte prima del trionfo della grande industria e della faccia nera del carbone della rivoluzione industriale, doveva il suo vigore, in gran parte, alla marcia per la libertà degli schiavi nelle colonie e a quella del Terzo Stato nelle metropoli.
La dinamica stravagante della comunicazione, del digitale, della padronanza del complesso in un'epoca che ha lasciato il paradigma del grande orologio meccanico per quello del vivente e della sua mimesi, cavalca a sua volta l'impulso di liberazione dal lavoro dipendente.
Il lavoro di Penelope è ripreso. La riconquista dei diritti dei lavoratori dipendenti nel digitale nell’impresa e di chi è alle prese con il telelavoro a casa, continuerà. Ma a cosa servono queste vecchie libertà se, nello stesso momento in cui vengono conquistate sono svuotate di molte delle garanzie che offrivano ? A cosa servono se il datore di lavoro può intrufolarsi nella vita privata attraverso i social network? Se il datore di lavoro dei datori di lavoro e dei dipendenti (che non è più lo Stato, ma i motori di ricerca e le piattaforme di comunicazione) possiede le chiavi per codificare e quindi decodificare le conversazioni su WeChat, Snapchat e WhatsApp?
Un passo decisivo nella ricerca della libertà che viene costantemente rilanciata ci sembra dipendere dalla messa in discussione degli attuali confini del lavoro e dell'occupazione. Oggi, un'attività non remunerata sul mercato o dalla spesa pubblica, non dotata di uno statuto di contratto di lavoro, sia nella sua accezione canonica (a tempo indeterminato) che nelle sue forme attenuate (part-time, a tempo determinato, intermittente, stage, distacco, gestione, ecc), è considerata come non esistente. Essa non dà diritto a nulla. L'ape umana viene remunerata solo per la produzione di miele e di vari tipi di cera vendibile. Quando impollina, e lo fa solo quando è libera, non conta. Questo non viene conteggiato né come lavoro, né come occupazione.
In un momento di crisi ecologica, di rischio per la salute globale e comune del pianeta e dell'umanità, può essere una cosa sostenibile? La schiavitù al centro del lavoro non dovrebbe essere uno di quei muri da abbattere?
Decolonizzare l'attività umana dall'estrattivismo catastrofico, dal dominio del potere di costringere gli altri a fare le cose, dal ricatto, ad esempio creando le condizioni per un reddito universale garantito, sembra oggi la strada maestra per la libertà. La schiavitù non è mai stata bandita per sempre dal lavoro per gli altri. Le GAFAM, i nuovi padroni del mondo, hanno iniziato a colonizzare tutte le attività umane, non solo le popolazioni attive che godono di un impiego. E la decolonizzazione, le cui tappe prevedono il riconoscimento dell'utilità sociale, produttiva e comune di tutte le forme di impollinazione degli esseri viventi, va di pari passo con la decolonizzazione della terra, con la liberazione da ogni forma di dominio e abuso degli uomini sulle donne, dei «bianchi» sui «non bianchi», degli adulti e dei capifamiglia sui bambini, delle maggioranze sulle minoranze linguistiche, culturali, religiose e sessuali. Chi ha detto che la lotta per la conquista della libertà sia terminata?
Immagine: Chris Masson e Efrain Ribeiro, s.d.
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