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L'Italia ai tempi del Recovery Plan (III)

Dialogo con gli economisti – Risponde Nadia Garbellini



Il ciclo di interventi inaugurato dal colloquio con Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli e proseguito con l’intervista a Vladimiro Giacché dedicato alle politiche di risposta alla crisi, prosegue con le osservazioni di Nadia Garbellini. Ritorno delle istituzioni regolative, Recovery Plan, strategia europea di rilancio dell’accumulazione, contraddizioni del green new deal, sono gli argomenti proposti agli economisti. Nadia Garbellini ha conseguito il dottorato in Economia presso l’Università Cattolica di Milano nel 2011 e collaborato successivamente con l’Università di Pavia, di Bergamo, l’Università Cattolica di Piacenza e con l’Institute for New Economic Thinking. Tra i suoi interessi prevalenti di ricerca l’analisi delle catene globali del valore e del commercio internazionale, gli studi sulla produttività, la distribuzione del reddito, il rapporto tra cambiamento tecnologico e lavoro. Tra i suoi articoli recenti Come superare lo spiazzamento dell’azione sindacale (con Matteo Gaddi, Quaderni di Rassegna Sindacale N. 3/2029) e Pianificazione e controllo dei lavoratori (Officina Primo Maggio N. 2, dicembre 2020).


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1. Spesso nelle analisi degli ultimi anni si è insistito sul venir meno delle prerogative statuali, la diffusione della pandemia ha determinato un prepotente ritorno dello Stato nei processi regolativi, nella gestione economica, nel sostegno ai redditi. Pensate che questo possa essere un lascito duraturo della pandemia? Se nel dopoguerra prese la forma di Stato sociale e modernizzatore dell’economia e, con l’avvento del paradigma neoliberista, il suo ruolo viene via via ridimensionato a «salvatore d’ultima istanza» di banche e imprese in difficoltà (almeno in Europa e negli States), in che modalità esso si ripresenta oggi?


Non credo che il neoliberismo abbia ridimensionato il ruolo dello stato a salvatore di ultima istanza, al contrario: c’è stata una fortissima azione dello stato volta a privatizzare, liberalizzare, creare il quadro normativo per questi processi, progettare «incentivi», ecc. Lo stato ha invece completamente il suo ruolo diretto nell’attività produttiva, e non mi sembra che ciò sia in procinto di cambiare a seguito della pandemia.


2. L’Unione Europea, per contrastare la crisi sanitaria ed economica, ha partorito il Recovery Plan. Intorno a questo fondo ci sembra si stia costruendo (oltre che una retorica provincialotta, in Italia, condita da richiami neo-emergenziali circa la necessità di non disperdere o sperperare questa «storica» opportunità) una sorta di ideologia imperniata sugli imperativi della svolta verde e smart, ma anche di selezione «meritocratica» delle risorse del paese. Momigliano sosteneva che l’impatto dei piani Marshall fu culturale prima che economico, una sorta di abilitatore della spinta alla ricostruzione e modernizzazione di un paese sottosviluppato, nel gioco conflittuale ma sinergico tra liberismo temperato (Einaudi) e «pianificazione» (Saraceno). Cosa possiamo dire del Recovery Plan? (a noi sembra basarsi su una logica che riflette essenzialmente l’esigenza di mettere in moto il volano delle infrastrutture per spingere la componente dei consumi pubblici).


Premesso che io sono una pessimista per natura, mi sembra che il RP abbia lo scopo da un lato di accelerare processi già in atto da tempo e funzionali a completare la ristrutturazione del capitale europeo e delle corrispondenti catene globali del valore – mi riferisco principalmente alla digitalizzazione, cioè all’introduzione di tecnologie basate sulla connettività all’interno dei processi produttivi. Questo è funzionale all’applicazione di modelli di gestione lean che sono fondamentali il «supply chain management», la gestione delle catene di fornitura. La pandemia ha reso evidente quanto sono importanti le catene di fornitura ma soprattutto quanto è costoso non disporre di certi strumenti tecnologici che consentono di riorganizzare velocemente i flussi se si presentano dei colli di bottiglia. Si amplierà quindi anche il mercato per i provider che forniscono questi strumenti «as a software» – con lo stato che potrebbe ritrovarsi addirittura a fare il procacciatore d’affari.

D’altro canto, non dobbiamo dimenticare l’altra faccia della medaglia: le condizioni, cioè le riforme strutturali che a questo punto dovranno essere implementate per poter ottenere i prestiti.


3. Possiamo dire che vi sia però anche la ricerca di nuovi assetti economici e sociali (la spinta alla costruzione di un nuovo blocco)? Da questo punto di vista, si può ipotizzare che gli investimenti su sanità, istruzione, pubblica amministrazione costituiranno assi importanti dell’azione di governo e dello stesso programma europeo. Secondo te questi campi (la produzione dell’umano, più che per l’umano) saranno centrali nel tentativo di rilancio dell’accumulazione e dei profitti «industriali»?

Da un punto di vista meramente «contabile», a me sembra che ci sia un tentativo di incrementare i margini di profitto riducendo i costi. Avere una forza lavoro remota permette di risparmiare moltissimo, e in più può essere venduta come sostegno al «work-life balance», come «sostenibilità ambientale», persino come politiche per l’uguaglianza di genere.

Credo sia stato invece un po’ sottovalutato l’aspetto legato alla sicurezza informatica, che si sta rivelando un vero e proprio tallone d’Achille per molte organizzazioni.

Più in generale, mi pare che ci sia un tentativo, sicuramente riuscito, di modificare la struttura della domanda.

Sicuramente c’è un’idea di «politica industriale europea», nel senso che si va a ridisegnare qual è il ruolo di ciascun paese e ciascuna regione del continente. A mio avviso l’Italia, in questo schema, deve essere infrastrutturata in maniera adeguata a svolgere il ruolo di fornitore e subfornitore all’interno delle catene globali tedesche.

Le questioni politiche non si fermano sicuramente qui. C’è chi sostiene che ci sia un tentativo di frammentare ulteriormente la classe lavoratrice, di fare in modo che gli individui si percepiscano sempre di più come meri consumatori, non come lavoratori. Tutte tendenze già in atto in precedenza che con la pandemia trovano terreno fertile per accelerare.


4. Il green deal è il pilastro della nuova strategia comunitaria. Tutti i programmi nazionali e regionali si stanno convertendo, anche con effetti comici, per adempiere a questa condizione. Al di là dell’ovvia denuncia sulle possibili pratiche di green washing e del carattere retorico di questa prospettiva, possiamo vederci anche tentativi «sostanziali»? C’è l’esigenza, ad esempio, di incuneare una prospettiva «europea», un modello di capitalismo in maggiore competizione con le polarità forti, USA e Cina? Possiamo vederci il tentativo da parte di determinate frazioni del capitalismo di incorporare, per così dire, la questione climatica e il concetto di «limite» nelle proprie strategie di accumulazione? Più radicalmente, è ipotizzabile un capitalismo «verde»?


Dipende da cosa si intende per «capitalismo verde». Quando le imprese si trovano davanti ad una scelta, il criterio è la massimizzazione del profitto. Una possibilità aperta al legislatore è quindi quella di privatizzare alcuni costi sociali, ad esempio sanzionare chi non rispetta certi standard ambientali. L’enfasi posta sull’argomento fa anche crescere il costo reputazionale, e oggi la reputazione è molto importante per i grandi brand. Molte imprese poi faranno profitto producendo, installando e fornendo le tecnologie verdi.

Non definirei però questa cosa «capitalismo verde», che mi pare un vero e proprio ossimoro: le imprese continuano a sfruttare l’ambiente per fare profitto.






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