In morte del calcio italiano
Non può essere più evidente di così il sottotitolo dell'articolo di Pippo Russo che pubblichiamo oggi. La sconfitta - o meglio, la disfatta - dell'Italia contro la Svizzera durante i campionati europei di calcio che si stanno tenendo in Germania, rappresenta il punto più basso della storia della Nazionale ed evidenzia la profonda crisi del sistema calcio del Belpaese, incapace di avere una strategia minima di sviluppo.
Nel frattempo, intorno a questo mutamento dello sport italiano è mutato il paese. Sempre meno calcio-centrico, sempre più orientato a prendersi nei confronti del calcio una vacanza.
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In morte del calcio italiano. Sì, l’incipit è brutale al pari del titolo. Ma non altrimenti si può inquadrare la condizione del movimento calcistico nazionale, colpito a morte in un sabato pomeriggio d’inizio estate sul medesimo manto erboso che l’aveva visto trionfare meno di vent’anni fa. Era Berlino 2006, una notte di luglio, in cui la nazionale azzurra guidata da Marcello Lippi saliva per la quarta volta sul tetto del mondo. Senza accorgersi che era tutta una questione di prospettiva, e che quel tetto era anche il ciglio dell’abisso. Perché proprio quella notte del trionfo in finale contro la Francia prendeva il via un declino nemmeno graduale. Anzi, è stato un precipitare vertiginoso con pochi appigli di rimbalzo (una vittoria e un secondo posto agli Europei), che si è concluso nel sabato berlinese di giugno 2024. Con gli svizzeri che increduli si sono ritrovati innanzi il simulacro della rappresentativa nazionale di un calcio glorioso che fu, frastornati più di noi per il divario fra la forza che avevano immaginato di dover impiegare per venire a capo della prova e la pochezza della controforza che si sono ritrovati a fronteggiare. Come attrezzarsi da corpi d’élite per spezzare le reni a una RSA.
Molto più frastornati degli svizzeri lo siamo stati noi, ma d’un frastornamento fuori luogo. Consapevoli d’esserci ridotti a poca cosa, lo eravamo. Ma egualmente rimanevamo ostinati a credere che la visione dell’abisso fosse ancora dall’alto. E invece no: quell’abisso lo stavamo guardando da sotto in su. E adesso che sappiamo di poter essere surclassati da una squadra buona ma nulla più come la Svizzera, siamo finalmente coscienti che la risalita sarà lunghissima. E nemmeno è soltanto questo. C’è qualcosa di più profondo, che va oltre la perdita di competitività e l’evaporazione dell’autostima. C’è che nel paese del calcio abbiamo perso il calcio. Senza comprendere che stava accadendo e sottostimando ogni successivo segnale d’allarme. E adesso che tutto è accaduto, e che (forse, si spera) abbiamo toccato il fondo, è il momento di distogliere un attimo lo sguardo dalla prospettiva immediata per proiettarlo su un orizzonte più ampio. Quello in cui si può osservare con maggiore nitidezza al rapporto fra il calcio e questo paese, alla sua fibra identitaria e al conseguente rischio di evanescenza dei fondamenti. Perché, se l’Italia sta perdendo il calcio, significa che sta perdendo una parte fondamentale di se stessa. E dunque bisogna interrogarsi su quali saranno le conseguenze e su quanto siamo già cambiati.
L’autobiografia della nazione
Sì, questo è un nostro pallino. Affermiamo, ogni volta che possiamo, che per l’Italia il calcio è l’autobiografia della nazione. E che non è possibile comprendere i mutamenti economici e storico-sociali italiani senza osservare ciò che avviene nel mondo del calcio. In questo paese il calcio ha vissuto vicende sociali, economiche e politiche da cui, volta per volta, è stato possibile ricavare chiavi di lettura per interpretare il mutamento del paese. Il nostro movimento calcistico riflette un paese in cui permangono gravi fratture territoriali, caratterizzato da un modello di capitalismo che ha provato a affrancarsi dalla dimensione familiare ma subito dopo ha solcato con grave periglio il mare aperto della competizione globale, mentre invece una fortuna migliore è stata riservata al capitalismo di stato riveduto e corretto. E all’imperfetta modernizzazione del capitalismo corrispondeva una nevrotica sequenza di modernizzazione della politica, entrata con gli anni Novanta in una sterminata transizione priva di punti d’arrivo ma anche di una rotta. Entro questo contesto la società italiana ha affrontato un’evoluzione preterintenzionale, stentando a integrare la differenziazione etno-culturale e pagando, per questo motivo, un sovrapprezzo all’inverno demografico. Di tutto ciò il calcio è un’allegoria perfetta. Ha vissuto ripetute fasi di splendore cui sono seguite crisi e fasi di rilancio. E nel periodo a cavallo fra gli anni Ottanta e i Novanta (coinciso col secondo boom economico) è stato il più forte e ricco del mondo. Ha anche creduto che quella potenza fosse un dato consolidato, una sorta di destino manifesto e impossibile da rimettere in discussione. Le cose non stavano così, non lo sarebbero state in nessun caso. E il lento declino che è cominciato a maturare durante gli anni Novanta è stato costellato da una serie di allarmi. Tutti regolarmente rientrati perché bastava un nuovo successo internazionale dei nostri club o della nazionale azzurra per tornare a raccontarsi che erano stati solo episodi, crisi transitorie dentro una linea di continuità fatta di gigantismo e senso d’invincibilità. A ogni risollevamento dalla caduta, a ogni crisi superata, ci si ritrovava fortificati nella sensazione di essere sempre i più forti. Esattamente come al tempo in cui eravamo anche i più ricchi, dato che nel frattempo avevamo cessato di esserlo.
La ricchezza delle nazioni calcistiche (e la nostra povertà rivelata)
Ma proprio in quella fase cominciava a germinare il baco, incorporato nel deforme concetto di ricchezza sul quale la strapotenza italica del calcio è stata edificata. E che tuttora viene preso a riferimento, senza che nemmeno ne sia stata fatta una revisione critica. Per spiegarla bene mettiamola così: anche il calcio, come lo sport nel suo complesso, ha una sua Ricchezza delle Nazioni e un suo modo di declinarla. In alcuni paesi quella ricchezza è la capacità di forgiare il talento, col principale scopo di piazzarlo sui mercati esteri; in altri è la propensione a declinare il calcio come strumento associativo e organizzarne di conseguenza anche la dimensione agonistica; e in altri ancora è la produzione di uno spettacolo dell’alta competizione, con proiezione a acquisire il meglio del talento disponibile sul mercato globale, ciò che rende ai loro club il rango di potenze calcistiche internazionali e la facoltà di imprimere una piega decisiva alla competizione economica; e infine ci sono paesi dove la ricchezza calcistica è data dalla capacità di dotarsi di criteri di economicità e seguirli, facendo del calcio un ulteriore campo di applicazione delle scienze aziendali. Ciascuna di queste caratteristiche può essere compresente nei singoli casi nazionali e ha ripercussioni sulla competitività delle rappresentative nazionali, che sono l’altro elemento della ricchezza delle nazioni. Perché a campionati fortemente competitivi possono corrispondere movimenti calcistici scarsamente capaci di produrre talento (in questo senso l’opzione del reclutamento all’estero è un elemento di divaricazione fra le fortune dei club e quelle delle rappresentative), nonché per niente inclini a promuovere la partecipazione associativa. Dunque, sono diversi i contenuti della ricchezza. E altrettanto diversi sono i modi per gestirla: dandole continuità con una sapiente attività di patrimonializzazione, o piuttosto consumandola senza alcuna prudenza come se la vena d’oro non dovesse esaurirsi mai.
Così delineati gli elementi che compongono la ricchezza di una nazione calcistica, e i diversi modi per gestirla, non si può che etichettare il caso italiano come emblematico in negativo. Qui troviamo concentrati tutti gli elementi di criticità che portano a un deficit nello sviluppo di un movimento calcistico nazionale e lo condannano al declino in assenza di capacità di visione e di prontezza nel cambiare rotta. Il nostro movimento calcistico è stato una scuola fra le più alte al mondo, capace di dare alla storia del calcio alcuni fra i suoi talenti più immensi. E al tempo stesso è stato uno dei movimenti più significativi sul versante del reclutamento, a dispetto di una lunga fase (dalla seconda metà degli anni Sessanta all’inizio degli Ottanta) in cui la possibilità di acquisire calciatori stranieri è stata interdetta con lo scopo di proteggere il funzionamento del nostro sistema formativo. Dal punto di vista della struttura economica, è un movimento che specie a partire dal dopoguerra ha definitivamente dismesso l’impronta associativa per abbracciare quella mecenatistica (nella duplice versione del mecenatismo individuale o del mecenatismo familiare), ciò che nel panorama europeo sfiora lo status di eccezione. E quando infine ci si è accorti che questo modello non poteva più reggere, si è aperta la strada a una confusionaria modernizzazione. Che ha visto coinvolti soggetti di ogni foggia (dalle holding della telecomunicazione a quelle dell’agroalimentare) e esperimenti azzardati di finanziarizzazione in Borsa. Il verbo dell’aziendalizzazione si è esteso sul campo da gioco in modo confuso e cominciava a produrre guasti, ma il vantaggio competitivo che si era prodotto nel frattempo permetteva di ammortizzare i primi segni di cedimento. In Inghilterra decollava la Premier League, e negli altri paesi europei calcisticamente più sviluppati si cercava di innovare investendo negli stadi e conferendo uno status da attività scientifico-pedagogica alla cura dei settori giovanili. Noi rispondevamo con la solita supponenza, sminuendo gli inglesi straricchi «che però continuano a non vincere nulla» e burlandoci di spagnoli e tedeschi «che giocano un calcio troppo poetico o troppo pragmatico». Sapevamo cosa non eravamo e non volevamo essere. Ma non provavamo a chiederci cosa stessimo diventando. E intanto la ricchezza della nazione calcistica veniva dilapidata.
Diversamente italiani
Eppure era chiaro che il calcio italiano si apprestasse a svanire. Le umiliazioni in serie della nazionale azzurra sono state il sintomo più eclatante, ma anche il lungo decennio degli 2011-2021 senza vittorie dei club nelle coppe europee ha tracciato un segno potente. Adesso le squadre italiane stanno riprendendo a farsi rispettare in Europa, ma i traguardi di un tempo rimangono distanti. Non possono più contare sulla forza economica degli anni d’oro e ciò si nota col fatto che i calciatori più forti al mondo non arrivano più in Serie A. E se qualcuno, italiano o straniero, vede il proprio valore proiettarsi verso livelli di élite, viene portato via alla prima sessione di calciomercato. Si è strutturata così una situazione da disastro perfetto. Abbiamo smesso di essere un paese formatore di talenti e ciò è stato certificato dal campionato Primavera vinto nel 2023 dal Lecce con una formazione di soli stranieri (che per di più, a oltre un anno di distanza, non hanno ancora trovato spazio in Serie A, o sono stati rispediti nei campionati periferici da cui provenivano). Ma anche come paese reclutatore siamo precipitati a livelli men che modesti. Perché portiamo in Italia qualche giocatore di buon potenziale, che se mantiene le promesse va immediatamente altrove. E assieme a queste eccezioni approda un esercito di mezze figure, o di buoni calciatori in prepensionamento, o di giovani d’ordinario livello che possono servire giusto per vincere un campionato Primavera. Il nostro è diventato un campionato di passaggio. C’è chi, per carità di patria, prova a rappresentare questa situazione con termini un po’ meno deprimenti e perciò parla di «campionato di sviluppo»; ma non sarà certo l’indulgenza delle parole a trasformare la realtà dei fatti. E i fatti dicono che la Serie A è diventata un campionato tecnicamente impoverito, al vertice di una piramide che vede la Serie B trasformata in una Serie C d’eccellenza e la Lega Pro in aspirante torneo di smistamento dei calciatori in esubero dalle categorie superiori (con resa ormai incondizionata alle Under 23). Non produciamo quasi più talento e ne importiamo di parecchio discutibile. E intorno alla dimensione di campo si compone un quadro di desolazione. Il crescere delle proprietà straniere ci avvisa che non c’è più un capitalismo italiano disposto a iniettare denaro nel calcio. Invero, sarebbe da chiedersi se esista ancora un capitalismo italiano, ma è un interrogativo che ci porterebbe molto oltre. A ogni modo, le società di calcio continuano a produrre debiti. E agli incoraggianti germogli di partecipazione dei tifosi il parlamento risponde con una legge sul cosiddetto «azionariato popolare» (espressione totalmente vuota di significato, un falso storico che ha il solo effetto d’ingenerare confusione) dai contenuti demenziali. Ma ciò che più spicca è l’incapacità di sviluppare il talento dei neoitaliani, il vasto bacino di italiani di seconda generazione che costituisce un segmento importante dell’odierna demografia italiana. In questo senso, il confronto con altri settori dello sport italiano come l’atletica leggera è impietoso. Anche perché il calcio italiano preferisce battere la strada degli oriundi, reclutando calciatori dal valore tecnico che, in alcuni casi, ai tempi della nostra maggiore potenza avrebbero trovato spazio in Serie B. Il confronto con l’atletica leggera segnala che i successi collezionati dagli atleti italiani nelle discipline diverse dal calcio (tennis, nuoto, la stessa atletica) stanno portando altrove l’attenzione degli italiani. Il calcio continua a baloccarsi con lo status di «primo sport degli italiani» ma non lo ho mai visto così insidiato. Anche questo è un mutamento avvenuto con lentezza, di quelli che avanzano per spanne impercettibili, e che poi diventano visibili soltanto quando il processo giunge a un grado avanzato di progressione. Intorno a questo mutamento dello sport italiano è mutato il paese. Sempre meno calcio-centrico, sempre più orientato a prendersi nei confronti del calcio una vacanza. Lunga. Con tentazione escapism.
L’insulsaggine programmata
Ma dopo questo sommario giro intorno al declino del calcio italiano, bisogna tornare al sabato pomeriggio di una settimana fa. Che segna il punto più basso nella storia della nazionale azzurra, e dunque del calcio italiano come sistema. Fino a qualche anno fa eravamo abituati a etichettare ogni disfatta calcistica come «una Corea». Il riferimento era alla mortificante sconfitta rimediata nel 1966, mondiali d’Inghilterra, contro la Corea del Nord sul campo di Middlesbrough. Il gol del dentista Pak Doo Ik era un’icona in negativo. Poi il modo di dire è andato lentamente in disuso, sia perché nel frattempo la nostra nazionale ha conosciuto altre Coree (compresa quella del Sud, ai mondiali 2002), sia perché le giovani generazioni di calciofili sono schiacciate sul presente assoluto e perciò fanno fatica a rammentare i pareggi casalinghi con Lussemburgo (vigilia dei mondiali 2014), figurarsi le sconfitte epiche. Ma per chi ancora conserva il culto della memoria come una ginnastica della mente e dello spirito, è legittimo dire che la sconfitta contro la Svizzera è il punto più basso nella storia del nostro calcio. Peggio di qualsiasi antecedente Corea. Non tanto per il valore dell’avversario, quanto per l’impressione d’invertebratezza lasciata sul campo assieme al cadavere della nazionale azzurra. L’umiliante e definitiva resa di una scuola calcistica prima ancora che di una squadra e di un movimento. E proprio qui sta il punto essenziale: che una scuola del calcio italiano non esiste più. Ha cominciato a smettere di esistere quando la pandemia del sacchismo ha avviato l’evangelizzazione avversa, la scalata ostile all’italianismo calcistico che ha cauterizzato pezzo a pezzo i punti di forza su cui abbiamo edificato in campo la nostra potenza calcistica: creatività e temperamento, capacità di improvvisare e scienza dell’ostruzionismo, furbizia amministrata e abnegazione. Soprattutto, forza della difesa. La vera pietra angolare del calcio all’italiana. Tutto quanto cancellato da una cieca, fanatica ambizione di renderci diversi da ciò che siamo stati, altri da noi. E intanto che continuavamo a vincere mentre manipolavamo il nostro Dna, scambiavamo quei successi come la dimostrazione che il cambiamento stesse pagando, quando invece stavamo soltanto dando fondo alle risorse residue dell’italianità: Come la forza del pacchetto difensivo nei casi dei trionfi ai Mondiali 2006 e agli Europei 2020. Di tutto questo ci è rimasto giusto un portiere. L’unico calciatore di livello internazionale che abbiamo messo in campo a Euro 2024. Soprattutto, un portiere eretico rispetto agli standard attuali, con quella sua sovversiva abitudine di limitarsi a parare, anziché pasticciar gioco coi piedi. Per il resto, l’effetto della de-italianizzazione è agli atti dopo l’esibizione berlinese. La squadra più eunuca nella storia della nostra nazionale. Il manifesto di ciò che fu l’autobiografia della nazione. E che adesso ne è soltanto l’autonecrologio.
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Pippo Russo (Agrigento, 1965) è ricercatore di Sociologia dell’ambiente e del territorio presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Firenze. Giornalista e saggista, ha dedicato diversi studi all’analisi sociologica dello sport. Ha pubblicato quattro romanzi, fra i quali la duologia dedicata a Nedo Ludi.
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