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Jeremy Hammond è libero

Azioni di «sabotaggio cybertario» nell’era post-fordista del controllo informatico




Jeremy Hammond
Immagine: Electric Man, 2022, courtesy Galleria Plan B Berlino

Nell'articolo che pubblichiamo oggi, Fabrizio Denunzio prova a rileggere la vicenda di Jeremy Hammond - arrestato e condannato a 10 anni per aver diretto un attacco informatico con un gruppo di hacker nei confronti di Stratfor, società «al servizio delle corporation e del capitale» - nel contesto del capitalismo della sorveglianza.

 

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Breve introduzione lessicale: termini e concetti

Dobbiamo a Ursula Huws la coniazione del termine cybertariato per indicare la condizione lavorativa di un segmento del proletariato investito dall’informatizzazione del lavoro (Antunes 2015, p. 107).  Credo sia un modo, molto intelligente, non so quanto efficace, per cercare di tenere assieme la dimensione classica della soggettività operaia con quella contemporanea del lavoro nell’era digitale. Volendone farne un uso estensivo così da applicarlo ai risultati di questa mia breve ricerca sulla vicenda Hammond, parlo di sabotaggio cybertario in luogo di sabotaggio operaio.

La questione, di sicuro, non è meramente terminologica, apre a una dimensione storico-concettuale che vale la pena affrontare velocemente.

Inserendosi in una tradizione di pensiero che possiamo tranquillamente far risalire alla «storia critica della tecnologia» fondata da Marx (Marx 1994, p. 414), Gilles Deleuze riteneva, approfondendo una lunga riflessione avviata sull’opera di Michel Foucault, che ogni macchina esprimesse una particolare forma sociale. Così, quelle energetiche che hanno dominato nel corso del XIX e del XX secolo, erano ben rappresentative delle società disciplinari – o usando un linguaggio non propriamente suo, potremmo dire fordiste, nelle quali la fabbrica interna la classe operaia in uno spazio, le ordina di produrre merci per un certo tempo, retribuendola con un certo salario – mentre quelle informatiche dei pc lo sono delle società del controllo di fine XX e di inizio XXI secolo – o, sempre usando un lessico che non appartiene al filosofo francese, post-fordiste, nelle quali le imprese preferiscono la logica della finanza, dell’azionariato e dei servizi,  a quella della produzione; il disciplinamento spirituale dei dipendenti, che partecipano ai destini imprenditoriali di quella che più di un’azienda deve essere per loro una famigli, al disciplinamento fisico degli operai. In ognuna di queste forme sociali, l’evoluzione tecnologica era il corrispettivo di una tipica trasformazione del capitalismo: da quello concentrazionario otto-novecentesco a quello iperproduttivo del nuovo millennio. Infine, ad ognuna delle macchine corrispondeva un pericolo: il sabotaggio a quelle disciplinari, la pirateria a quelle informatiche (Deleuze 2000, pp. 234-241).

L’estensione del sintagma sabotaggio cybertario ai risultati raggiunti dall’analisi del caso Hammond consente, allora, di concettualizzare in un’unica espressione la forma classica del sabotaggio – nel nostro caso la rivelazione dei segreti aziendali – e la soggettività contemporanea che l’agisce quel cybertariato ribelle che opera in rete e trova nelle aziende che vivono di sorveglianza a insaputa della cittadinanza, sfruttandone i dati personali, il suo terreno di lotta.

 

La vicenda

Ci sono tanti di quegli elementi narrativi nella vicenda da poterne fare una sorta di cyber action movie, una versione aggiornata e complessificata dell’aurorale WarGames del 1983, con il giovanissimo Matthew Broderick a interpretare un geniale e audace hacker, scarsamente rispettoso della proprietà privata, che pensa di sottrare videogiochi a una grande casa di produzione e si ritrova, invece, quasi a scatenare la Terza Guerra Mondiale; oppure, un episodio della poca apprezzata serie televisiva CSI: Cyber, andata in onda per sole due stagioni dal 2015 al 2016, piena di hacker che collaborano con l’FBI.; oppure, ancora, un romanzo cyberpunk come quelli scritti nei primi anni Ottanta del Novecento da William Gibson con hacker novelli cowboys lanciati nello Sprawl a combattere contro IA al servizio di spietate multinazionali.

Sì, perché nella vicenda di Jeremy Hammond, finito in carcere nel marzo del 2012 – soprattutto per via delle informazioni fornite da «Sabu», Hector Xavier Monsegur, spia hacker al servizio dell’FBI –  e condannato a rimanerci per dieci anni dopo la sentenza emessa il 15 novembre 2013, in seguito all’hackeraggio della Stratfor, c’è un po’ di tutto questo e molto altro ancora.

Ora, visto che gli ultimi tre anni Hammond li ha scontati in un centro per il reinserimento sociale (halfway house) di Chicago (McCann, 2020), dal novembre del 2023 – quindi da pochi mesi – dovrebbe finalmente aver recuperato la piena libertà. Da qui la voglia di tornare a riflettere «a freddo» sulla sua vicenda.

 

 

I fatti e i protagonisti della vicenda

Ritorniamo ai fatti.

Il 24 dicembre 2011, uno dei più agguerriti gruppi di hackers nato nel solco di Anonymous, comunicava, a mo’ di strenna natalizia, i risultati di un’operazione eseguita qualche settimana prima:

 

AntiSec [Anti-Security] decise divulgare i dati dell’attacco più memorabile e spietato mai compiuto fino allora. Con un atto politico di sabotaggio aziendale, AntiSec si infiltrò nel network interno dell’azienda di intelligence globale Strategic Forecasting Inc., meglio nota come Stratfor: si appropriò di oltre 50.000 numeri di carte di credito, scaricò circa otto anni di conversazioni email aziendali (per un totale di cinque milioni di messaggi) e raccattò un’ampia mole di documenti vari. Come ciliegina sulla torta, gli hacker azzerarono completamente i server dell’azienda (backup inclusi) […] cercarono di utilizzare 30000 carte di credito per fare donazioni pari a qualcosa come 700000 dollari a favore di entità quali […] Bradley Manning Support Organization, Electronic Frontier Foundation, American Civil Liberties Union, l’organizzazione umanitaria care, la Croce rossa americana, Amnesty International, Greenpace, qualche comunista, alcuni detenuti, varie realtà occupate, e molti altri amici senza nome […] (Coleman 2015, p. 366).

 

Ritorniamo ai protagonisti.

La Stratfor, le cui mail sottratte da AntiSec furono pubblicate nel febbraio del 2012 da WikiLeaks, si occupava principalmente di sorveglianza. Era un’azienda «al servizio del potere delle corporation e del capitale» (ivi, p. 379) che monitorava le attività di gruppi come Yes Man e Bhopal Medical Appeal, impegnati a rendere pubblico il disastro dell’impianto Union Carbide –  leader mondiale nella produzione di fitofarmaci e insetticidi, a Bhopla in India, esploso nel 1984 e i cui vapori chimici rilasciati dopo la catastrofe provocarono migliaia di morti in poche ore e molti contaminati negli anni successivi –, gruppi sgraditi alla Dow Chemical, nuova proprietaria del colosso industriale e committente della sorveglianza. Altri soggetti collettivi erano sorvegliati dalla Stratfor: gli ambientalisti di Peta, per conto della Coca-Cola; i rivoltosi di Occupy, su indicazione del Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Texas. La Stratfor era dunque un’azienda che sorveglia e controlla, che si è mossa sempre secondo il protocollo di uno dei suoi fondatori, il militare Roal Duchin, che sosteneva: «isola i radicali, “coltiva” gli idealisti ed “educali” ad essere realisti. Poi coopta questi ultimi a dirsi d’accordo con l’industria» (ivi, p. 379).

Jeremy Hammond, passando queste e tante altre informazioni a WikiLeaks, si è guadagnato dieci anni di carcere. La sua vicenda, come dicevo, lo ha visto protagonista-antagonista della Stratfor per motivi ideologici molti chiari tenendo in considerazione la sua formazione: Hammond era infatti un precocissimo programmatore di videogiochi capace di acquisire velocemente una coscienza politica – si dichiara anarchico, anticapitalista, antiautoritario – e di riversarla nel suo hackerattivismo, per il quale, ancor prima della sentenza del 2013, ha scontato un paio di anni di reclusione (2006-2008) in una prigione federale (ivi, pp. 302-308). Ed è con questo bagaglio culturale e di esperienze che Hammond ha incontrato Sabu, si è imbarcato nell’avventura AntiSec, ha compiuto le azioni contro Stratfor ed è finito in prigione.

Sabu, invece, è riuscito ad evitarsi questo destino vendendo Hammond e altri componenti di Antisec all’FBI. Eppure, la sua rimane una figura tragica: grande hacker carismatico, personaggio mitico in tutto l’ambiente cyber – fama che gli ha consentito di agire facilmente sotto copertura – di origini portoricane, famiglia di spacciatori, costretto allo spionaggio anche sotto la minaccia di perdere l’affidamento delle due nipotine.

Di elementi narrativi utili alla sceneggiatura di un film o di una serie tv o di un romanzo, dicevo, ce ne sono: dalla lotta di un gruppo, che si vuole rivoluzionario, contro aziende che lavorano nella più completa oscurità per conto di imprese e governo, all’amicizia tradita; ma soprattutto, dopo la scarcerazione di Hammond, la possibilità di un suo incontro con Sabu.

L’intera vicenda, grazie all’abbrivio di queste suggestioni narrative, consente di avviare una riflessione più strutturale sui suoi protagonisti nei quali, se non si tarda a riconoscere la configurazione che assume il conflitto capitale-lavoro in un’era come quella post-fordista fortemente caratterizzata dall’uso a fini di sorveglianza delle tecnologie digitali, si finisce col farli rimanere relegati in una cronaca etnografica dei fatti, le cui valenze storico-teoriche si esauriscono in un perimetro antropologico- culturalista, come accade nella pur importante ricerca di Gabriella Coleman su Anonymous, che fa del «trickster» mitologico, il buffone (ivi, p. 45), la categoria centrale con cui spiegare l’agire sociale del gruppo hacker un tempo più famoso al mondo.

 

Una rilettura dei fatti e dei protagonisti della vicenda

Andiamo alla Stratfor.

La sua esistenza non può essere pensata al di fuori delle consolidate pratiche di controllo generalizzato esercitate da quasi due secoli dalle industrie e dal governo americano sulla classe operaia e sulla società civile: la storia dell’agenzia Pinkerton e quella di E. J. Hoover, solo per fare gli esempi più noti, stanno lì a dimostrarlo.

Su questo punto la storia degli apparati istituzionali e para-istituzionali americani segue quella più generale dello sviluppo storico del capitalismo che, essendo un rapporto sociale e non esclusivamente economico, ha sempre disseminato le sue logiche di funzionamento sull’intero corpo sociale, estendendo alla società ciò che andava sperimentando e applicando nei luoghi di produzione, facendo sempre più assolvere alle istituzioni civili le funzioni esercitate dagli organismi di fabbrica.

Nel primo libro del Capitale, Marx ci mostra quanto con il perfezionamento della disciplina militare creata in fabbrica dalla subordinazione tecnologica dell’operaio si completi lo sviluppo del «lavoro di sorveglianza» (Marx 1994, p. 468) che implica «la divisione degli operai in operai manovali e sorveglianti del lavoro, in soldati semplici dell’industria e in sottufficiali dell’industria» (ibidem).

In questo senso, una volta accettata la dimensione strettamente sociale del capitalismo, il suo essere contemporaneamente dentro e fuori i luoghi di lavoro, dimensione la cui conseguenza logica porta necessariamente ad «avere un concetto non empirico della fabbrica» (Panzieri 1976, p. 41), a un’idea di lavoratore che non smette di essere assoggettato al controllo e allo sfruttamento solo perché è uscito dal lavoro, si vedrà rientrare l’attività di sorveglianza civile esercitata dalla Pinkerton e dall’F.B.I. di Hoover ieri e dalla Stratfor oggi, nei normali compiti di un basso sottufficialato da caserma, una sorveglianza il cui fine è sempre quello di assicurare la conservazione dell’ordine capitalistico della società.

Con l’avvento del post-fordismo questa funzione di controllo si generalizza ulteriormente diventando sempre più capillare e invasiva, i sottufficiali della sorveglianza si fanno più numerosi ed esigenti. Così scrive un operatore della Stratfor infiltratosi sotto copertura nel movimento Occupy di Austin in Texas: «C’è un gruppo che forse conosci, chiamato Deep Green Resistence… Non so se l’FBI o altri li classificano come ecoterroristi, ma vanno senz’altro sorvegliati» (Coleman 2015, p. 379).

Dovessi scegliere uno slogan in grado di sintetizzare lo spirito del controllo acuitosi col post-fordismo grazie all’uso delle tecnologie informatiche, sicuramente sceglierei questo: «vanno senz’altro sorvegliati». Slogan che avrebbe potuto tranquillamente essere pronunciato da uno di quegli impeditori di cui ci parla Richard Sennett quando, dopo aver concesso il lavoro a domicilio a una sua dipendente, va in ansia proprio perché non riesce a controllare direttamente l’attività della sua lavoratrice. Ed è per calmare ansie di questo tipo sofferte dal padronato che arriva in soccorso la tecnologia: «[…] possono essere utilizzati dei controlli su reti interne per sorvegliare chi si trova a distanza; spesso i supervisori controllano la posta elettronica» (Sennett 2012, p. 58).

Sebbene Sennett, forte di osservazioni di questo tipo, arrivi a sostenere che il «nuovo regime sostituisce nuove forme di controllo alle vecchie» (ivi, p. 10) – intendendo per «nuovo regime» quello della flessibilità che contraddistingue la produzione post-fordista e per «nuove forme di controllo» quelle operate attraverso lo «schermo del computer» (ivi, p. 58) che prendono il posto di quelle vecchie esercitate in presenza «faccia a faccia» (ibidem) –  io credo nella continuità delle due visto che entrambe sono testimonianza di quel medesimo «lavoro della sorveglianza» che si istituisce nel seno stesso della disciplina lavorativa e che, una volta esteso a tutta la società, viene esercitato da aziende come la Stratfor e che, più in generale, trova riscontro nell’esistenza di un grandissimo mercato della sorveglianza nel quale agiscono imprese private legate al settore della difesa militare, agenzie delle varie intelligence nazionali e multinazionali del calibro di Google (Coleman 2015, p. 407).

Non per questo, però, Sennett ha meno ragione quando individua nella flessibilità, da intendersi come il regime più attuale di organizzazione del lavoro raggiunto dallo sviluppo capitalistico,  un «sistema di potere implicito» basato, nel caso dell’impiego delle tecnologie informatiche, sull’elemento della «concentrazione senza centralizzazione» (Sennett 2012, p. 54) la cui retorica ideologica arriva a sostenere il grande vantaggio che i lavoratori subalterni posso avere sul controllo delle proprie attività, quando invece «i nuovi sistemi informativi forniscono un’immagine completa dell’organizzazione ai dirigenti di grado più alto, secondo modalità che lasciano poco spazio per nascondersi agli individui che si trovano in qualunque punto della rete» (ibidem).

  Ma andiamo a Jeremy Hammond.

Anche la sua azione deve essere guardata oltre la rappresentazione che lui stesso ne diede ai tempi del processo:

 

Gli atti di disobbedienza civile e azione diretta per cui vengo condannato oggi sono in linea con i principi di comunità e di uguaglianza che hanno guidato tutta la mia vita. Sono entrato in decine di istituzioni governative ed aziende di alto profilo, sapevo benissimo che quello che stavo facendo era illegale e che correvo il rischio di finire in una prigione federale, ma ho sentito l’obbligo di utilizzare le mie capacità per portare alla luce la verità e mostrare le ingiustizie che vengono compiute (Catucci 2013).


  Oltre, quindi, la disobbedienza civile e l’etica hacker. Più di un indizio mi autorizza a procedere in questa direzione.

Il primo lo si trova nella dichiarazione di Coleman quando definisce l’operazione Stratfor «un atto politico di sabotaggio aziendale» (Coleman 2015, p. 366) senza però che ne tragga le dovute conseguenze: in una società nella quale il lavoro di sorveglianza si è generalizzato perché ognuno di noi, producendo continuamente dati, continua a essere controllato come se fosse sempre al lavoro, ogni atto di sabotaggio aziendale come quello commesso da Hammond, deve essere inteso alla pari di un sabotaggio cybertario.

E con questo vengo al secondo indizio. Non andrebbe mai dimenticato che alla fine dell’operazione Stratfor, l’home page dell’azienda fu sostituita con il testo del Comitato Invisibile, L’insurrezione che viene del 2007 (ivi, p. 370). Il Comitato ringrazierà nel 2014 dedicando ad Hammond Ai nostri amici, rimproverandosi di non aver potuto fare nulla dopo il suo arresto e quello dei compagni di Antisec (Comitato Invisibile 2019, p. 181). Ora, è proprio nell’Insurrezione che la rivelazione dei segreti aziendali la si ricorda appartenere alle tre forme classiche del sabotaggio operaio, assieme al rallentamento della produzione e al guasto delle macchine (ivi, p. 83).

  Andiamo, per ultimo, a Sabu, ma solo per dire che il suo tradimento, oltre alle condizioni storiche che lo hanno reso possibile, non rappresenta altro che il solito risultato ottenuto dalle forze istituzionali quando perseguono con tutti i mezzi, leciti o meno, l’obiettivo di dividere e inimicare al suo interno il proletariato in lotta contro il sistema capitalistico.

  L’esistenza dei due indizi di cui ho appena parlato (giudizio di Coleman, sabotaggio nell’Insurrezione che viene), uniti alla lettura che ho proposto della Stratfor nel quadro più generale della storia degli apparati (pubblici e privati) di sorveglianza americana, della nascita dei sorveglianti del lavoro nello sviluppo del regime di fabbrica, del controllo informatico nell’era post-fordista, mi permettono di forzare la disobbedienza civile nella quale Hammond prediligeva autorappresentare la sua azione contro la Stratfor, verso una più strutturale azione di sabotaggio cybertario.

Ed è così che tutti i protagonisti della vicenda finalmente ritrovano il posto che hanno sempre avuto nel conflitto capitale-lavoro.

 


Bibliografia

R. Antunes (2015), Addio al lavoro? Le trasformazioni e la centralità del lavoro nella globalizzazione, Edizioni Ca’ Foscari – Digital Publishing, Università Ca’Foscari Venezia.

Comitato Invisibile (2019), L’insurrezione che viene – Ai nostri amici – Adesso, NERO, Roma.

M. Catucci (2013), Jeremy Hammond condannato a 10 anni, «il manifesto»

G. Coleman (2015), I mille volti di Anonymous, Stampa Alternativa, Viterbo.

G. Deleuze (2000), Pourparler, Quodlibet, Macerata.

K. Marx (1994), Il capitale. Critica dell’economia politica, libro I, Editori Riuniti, Roma.

H. G. McCann (2020), Hacker closing out prison sentence in Chicago halfway house, «San Diego Union-Tribune», 18 novembre 2020,

R. Panzieri (1976), Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, Einaudi, Torino.

R. Sennett (2012), L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano.


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Fabrizio Denunzio è professore associato presso il Dipartimento di Studi Politici e Sociali presso l’Università degli Studi di Salerno dove insegna Sociologia dei processi culturali del lavoro.

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