In vista della giornata in memoria di Mario Tronti, organizzata dal Centro Riforma Stato in collaborazione con la Fondazione Giuseppe Di Vittorio che si terrà domani 8 novembre 2023 a Roma, pubblichiamo un ricordo scritto da Andrea Cerutti. All'interno della giornata, la prima presentazione dell'ultimo grande progetto a cui Tronti ha lavorato, «Per un atlante della memoria operaia», che uscirà proprio in questi giorni per i tipi di DeriveApprodi.
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«Mario è un uomo simpatico: umbro, fanatico e mite come ogni santo di quella terra»
T. Negri
Qualche anno fa, presentando Dello spirito libero, Roberto Esposito esordì dicendo che Mario Tronti è stato per molti più che un nome proprio, ha significato un modo di essere, una forma di vita, un ethos da condividere. Proprio in questi giorni, le parole di Esposito aiutano a capire perché Mario fosse così importante nelle nostre vite, perché definirsi trontiani era ed è un segno di distinzione e di orgoglio.
All’origine e poi sempre vi è un’irresistibile fascinazione, che non riguarda l’adesione ad una specifica dottrina filosofica, la cui elaborazione, peraltro, non lo ha mai interessato. E, infatti, se si vuole prendere una strada sbagliata, senza uscite, si inizi a discutere se Mario fosse gentiliano, marxista seppur eterodosso, realista, teologo, mistico. Così facendo l’enigma Tronti rimarrà inesplicabile. Dunque, «lasciamo le minute analisi cieche ai pedanti». Certo nei suoi scritti ci sono spunti, riflessioni ricavate dalle più varie correnti filosofiche e coesistono, come in un mondo, pure un trontismo di destra, di sinistra e di centro. Ma tutto ciò non è rilevante di per sé, sono esperimenti. D’altronde un esperimento fu anche l’operaismo, il cui tratto più peculiare, sempre rivendicato da Tronti, il punto di vista di parte, discendeva direttamente dalla Vienna di inizio Novecento, laddove si era sancita l’inconoscibilità del mondo moderno, l’inconcepibilità di un sistema di pensiero che racchiuda tutta la realtà, perché «ciò che è pensabile deve essere certamente una finzione» e ciò che ci interessa è soltanto «tutto quanto ha in sé la forza di crescere e svilupparsi».
Ciò che invece conferisce una precisa fisionomia alla sua opera, il nucleo irriducibile del trontismo, immutabile attraverso numerose svolte e variazioni spiazzanti, consiste in nient’altro che nel dispiegamento, nell’uso spregiudicato di ogni mezzo in grado di aprire con efficacia una breccia nel sistema di dominio, sempre più onnipervasivo e annichilente. Trovare la frattura e provocare la voragine. Non è ovviamente un compito facile perché vi è sempre il rischio di finire vittime di facili abbagli. Per evitarlo, Mario ci ha insegnato che il conflitto deve essere «serio», deve dividere non includere, deve contemplare una disciplina della mente e dello spirito. Non può essere ideologico, di facciata, pieno di slogan vuoti e di retoriche antipotere, sempre al seguito di ogni moda del momento: «ogni giorno sentiamo parlare di rivoluzioni copernicane per individui che hanno spostato da un angolo all’altro della stessa stanza il proprio tavolo da studio». Detto allora, vale ancor più per l’oggi.
Si è anche parlato, in modo suggestivo, di un pensiero incarnato, quindi inseparabile dai corpi inquieti in rivolta contro l’ordine dato. Un pensiero che non esiste prima ma che appunto si incarna nel conflitto. E non a caso la lettura dei suoi scritti coinvolge, indivisi, corpo e intelletto, in una sorta di esperienza sensoriale. La scrittura sfolgorante di Tronti è come se si rivolgesse a tutto il nostro essere facendo risuonare un ritmo, vibrante di vita e nostalgico della vita che ci è negata. Un pensiero, uno stile, che si abbraccia istintivamente, intuitivamente, perché lo si riconosce come proprio. Certo non vale per tutti. Vale solo per chi immagina grandi imprese, cortei trionfali, tragiche sconfitte. Ovvero, tutto ciò che innalza contro ogni medietà, insignificanza, insipienza, ovvero contro il nostro mondo. Questi sono i trontiani.
A Mario non interessavano i dibattiti accademici. Era incurante dei suoi critici. L’ha ripetuto in modo toccante in quella che è stata la sua ultima lezione (tenuta con Adelino Zanini e rintracciabile su questo sito): partecipava ai dibattiti a cui era invitato non per difendere una tesi contro un’altra, ma perché in qualche anonimo giovane capitato lì ad ascoltare si accendesse una scintilla. E dunque per capire cos’è il trontismo a loro bisogna chiedere. L’ho fatto e ho messo in fila le risposte. Filippo è un dottorando (ma essendo trontiano ha già rinunciato ad ogni ambizione accademica), Mattia è un grafico, Matteo è un dipendente di una casa editrice, Gianmarco è un commesso installatore.
Filippo: «istintivamente essere trontiani vuol dire essere dentro e contro. Più che un punto di vista è avere uno sguardo di traverso, guardare ai punti più pericolosi di contraddizione con le balle che fumano, senza paura e tanta rabbia… Tronti è quello che mi ha indicato come farlo, anche con l’esempio. Poi c’è tutto il resto. Ma la prima cosa, quella più importante, è il rimanere dentro e contro, sempre».
Mattia: «I trontiani sono uomini di memoria, in cammino. Ad ogni battaglia, ne osservano il campo. I loro sguardi si incrociano, vispi, nel capire il nemico. Sono classe combattente, costruttori di mondi con il compito di distruggere il proprio, quello in cui gli è dato vivere. Possiedono la serietà della politica e la capacità dello scherno; è sapere operaio: sorriso della rabbia contro sghignazzare borghese. Coltivano la spiritualità guerriera del monaco e la profondità di senso del teppista. In loro vi è lo spirito del tempo, la garanzia dello slancio e la serenità nella forza. Lenin sussurra all’uomo del futuro la presa del potere, lo sbocciare della liberazione sociale. Loro, armi in pugno, ascoltano. Partono ancora, in comunità, per un’azione differente dal già noto. Tra le schegge dell’assalto al presente si può scorgere la disillusione organizzata, la tensione per la libertà e l’odio innato per il fatalismo capitalista».
Matteo: «essere trontiani è l’irriducibilità di essere contro. Ma non in senso povero, ovvero adolescenziale, anarchico o romantico. È l’antagonismo radicale – nelle radici di quello che siamo – a questo mondo, coltivato strategicamente nella profondità della storia, dello spirito, del pensiero: della militanza politica – per noi comunista e rivoluzionaria. È il punto di vista, fondamentale, senza il quale non siamo più riusciti a vedere, e a muoverci. Siamo trontiani perché abbiamo sto demone dentro, senza il quale non potremmo essere liberi».
Gianmarco: «Guerra irriducibile. Conflitto come esperienza interiore. Uso operaio della Mitteleuropa».
Mario ne sarebbe compiaciuto. Poi, leggendo le parole di Gianmarco, che, come dice lui, «porta frigoriferi e lavatrici su per le scale», sono certo che Mario avrebbe ricordato quella sua antica, folle e magnifica esortazione affinché i giovani in rivolta ascoltassero Mahler e leggessero Musil – come cultura critica dell’orizzonte capitalistico alternativa a quella logora della tradizione del movimento operaio e a quella insulsa delle mode libertarie-studentesche.
Si potrebbero aggiungere tante cose. Mi limito a un ricordo personale. Gli dissi che avevo appena letto in un libro dei fratelli Strugatzki una frase che mi aveva colpito, «perché voi siete messi in un modo che non solo non avete amici. Voi siete talmente soli che non avete nemmeno nemici» e Mario mi rispose: «è perfetta per noi».
Questo era Mario Tronti: uno stile, una forma di vita antiborghese, che celebra la forza, la nobiltà dello spirito, che pratica la spregiudicatezza del pensiero, con passione, ironia e disincanto.
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Andrea Cerutti (Torino, 1968) è un avvocato. È animatore del blog trontiano www.azioneparallela.org. Insieme a Giulia Dettori ha curato il volume collettaneo La rivoluzione in esilio. Scritti su Mario Tronti, pubblicato per Quodlibet.
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