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Impero e globalizzazione dopo la fine della storia


Impero, globalizzazione
Immagine: Oliver Ressler & Zanny Begg, What Would it Mean to Win, digital print (Zanny Begg), 2008

«La società non esiste», afferma Margaret Thatcher negli anni Ottanta; «we are all middle class now», le fa eco Tony Blair alla fine dei Novanta, un decennio aperto dall’ideologia della «fine della storia» e precipitato nell’incubo dello «scontro di civiltà». È in questo quadro che Toni Negri e Michael Hardt formulano l’ipotesi dell’impero per leggere la globalizzazione e soprattutto, sostiene Elia Zaru in questo articolo, per riportare al centro della scena la possibilità dell’antagonismo di classe.

 

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«Who is society? There is no such thing. There are individual men and women, and there are families». Così Margaret Thatcher nel 1987, all’alba del suo terzo mandato da Primo ministro britannico. Il suo secondo incarico, tra il 1983 e il 1987, è stato segnato dallo scontro (per lei vittorioso) con i sindacati britannici e la classe operaia inglese. Le sue parole, dunque, hanno il sapore della resa dei conti. Thatcher, nel 1987, si sente vincitrice. Affermare che non esiste la società, ma solo gli individui, significa dichiarare l’inconsistenza di forme collettive di organizzazione e azione di classe. Il tratto esplicito di questo discorso consiste nella scomparsa della semantica classista: non esistono più le classi sociali. Il suo tratto implicito riconosce in questa sparizione l’estinzione della classe operaia. «We are all middle class now» dirà, con un certo ottimismo, Tony Blair nel 1999.

Alla fine degli anni Ottanta il movimento operaio è in crisi sia sul piano politico-sindacale, sia su quello teorico. Si parla, da almeno un decennio, di «crisi del marxismo». Tra il 1989 e il 1991 il crollo del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica contribuiscono all’acuirsi di tale crisi. Si diffonde, con sempre maggiore intensità, il verbo della «fine delle ideologie». Da questo punto di vista, gli anni Novanta hanno ereditato e radicalizzato ciò che una certa scienza politica, soprattutto americana, predicava già tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta. Non a caso, La fine dell’ideologia di Daniel Bell, pubblicato originariamente negli anni Sessanta, viene tradotto in italiano proprio nel 1991. Sulla scorta di questa letteratura si cerca di comprendere il mondo post-sovietico e la sua natura ora pienamente globale. La globalizzazione – termine che si diffonde in modo esponenziale negli anni Novanta – è oggetto di tante e diverse interpretazioni. Due di esse, tra loro apparentemente contrapposte, diventano egemoni.

Nella prima, Francis Fukuyama (La fine della storia e l’ultimo uomo, 1992) dichiara la «fine della storia». La sua tesi è nota: la storia termina perché viene meno la concorrenza alla democrazia liberale. La dissoluzione dell’Unione Sovietica e la fine della guerra fredda indicano la vittoria del mercato capitalistico come modello globale per lo scambio dei beni e la supremazia della democrazia liberale quale architettura giuridica e politica a garanzia di questo scambio. Quella di Fukuyama è una tesi intimamente post-conflittualista. Egli, riprendendo dalla dialettica hegeliana la questione del rapporto servo-signore, concepisce la storia come una lotta per il riconoscimento che si sviluppa tanto sul piano delle relazioni internazionali, quanto su quello dei movimenti interni alla società. Se la storia inizia come una lotta per il riconoscimento, il «primo uomo» vive una sorta di stato di natura hobbesiano, mentre «l’ultimo» è colui che, giunto alla «fine della storia» non ha più bisogno di tale lotta perché ottiene comunque il riconoscimento che cerca. «Fine della storia» significa fine della lotta per un riconoscimento che, nel mercato democratico liberale, viene garantito senza «spargimenti di sangue». Dunque, come è evidente, «fine della storia» significa fine del conflitto. Secondo Fukuyama, la caratteristica delle società giunte alla fine della storia è l’assenza di contraddizioni fondamentali che non possano essere risolte nel contesto del liberalismo moderno – prima tra tutte (e unica, se si vuole) la contraddizione tra capitale e lavoro. La storia giunge al suo termine e apogeo nel momento in cui nessun conflitto è materialmente in grado di provocare un rovesciamento dell’ordine esistente e la formazione di una nuova società. Certo, secondo Fukuyama permangono alcune contraddizioni «minori», alcuni possibili momenti «locali» di conflitto legati, ad esempio, all’integralismo religioso (che però non sarebbe in grado di assumere una valenza realmente universale mancando così di rappresentare una vera minaccia per l’universalismo liberale) e al nazionalismo (considerato tuttavia generalmente compatibile con il liberalismo), ma si tratta di situazioni residuali e compossibili con la democrazia liberale. Per Fukuyama, in breve, la globalizzazione manifesta l’esaurimento del conflitto tra capitale e lavoro e dunque l’estensione globale di un liberalismo pacificato.

La seconda interpretazione viene sviluppata da Samuel Phillips Huntington (Lo scontro di civiltà, 1996) e discute Fukuyama in modo critico. Secondo Huntington, infatti, il fatto che la democrazia liberale sia o possa essere la forma di governo ideale universalmente riconosciuta non esclude a priori l’insorgenza di conflitti. A partire da ciò, Huntington articola la sua idea – che tanta fortuna avrà dopo l’11 settembre – dello «scontro di civiltà». Secondo Huntington, Fukuyama esclude la possibilità di conflitti radicali nel prossimo futuro poiché ascrive tali conflitti alla sola sfera ideologica o economica, ormai satura dopo la fine della guerra fredda. Tuttavia, egli afferma, lo scontro dei prossimi decenni non avrà basi economico-ideologiche, ma si svilupperà tra civiltà, in particolare tra la civiltà occidentale e le civiltà non-occidentali. Huntington chiarisce che ciò non significa la sparizione di conflitti interni alle singole civiltà, ma essi non avranno l’intensità di quelli che si produrranno all’esterno. Huntington, al contrario di Fukuyama, considera il conflitto come elemento centrale del nuovo sistema mondiale, ma lo declina in chiave culturalista. Lo scontro decisivo oppone le «civiltà» – blocchi monolitici che si confrontano sul terreno globale – e non si definisce più in termini di classe. Per Huntington, dunque, la globalizzazione ha un carattere conflittuale, ma si tratta di un conflitto di tipo nuovo, che non ha più nulla a che fare con il modo di produzione capitalistico.

Al di là della loro differente angolazione, questo è l’elemento che accomuna Fukuyama e Huntington (e le rispettive politiche che hanno ispirato). Entrambi, infatti, pensano il superamento del conflitto tra capitale e lavoro. Ambedue ritengono che tale esaurimento dipenda dalla natura globale del mondo dopo la fine della guerra fredda. Sebbene speculari, queste interpretazioni condividono un’idea di globalizzazione in cui scompare, per dirla con Marx, il «segreto laboratorio della produzione». Con le loro teorie apparentemente contrapposte, Huntington e Fukuyama non fanno altro che ribadire il discorso implicito ed esplicito di Thatcher e Blair: non esistono più forme collettive di organizzazione e azione di classe né il loro scontro. There is no society poiché, nel mondo globale, we are all middle class.

È questo il quadro in cui, nel 2000, Toni Negri e Michael Hardt danno alle stampe Impero, libro terminato nel 1997 e divenuto una pietra miliare della teoria politica contemporanea. Al di là dei concetti formulati dagli autori, della loro postura operaista e dei dibattiti che essi hanno provocato dentro e fuori il marxismo, ciò che qui interessa evidenziare è precisamente l’originalità e la forza di quest’opera in relazione al suo contesto. Negri e Hardt, infatti, riportano la critica marxiana dell’economia politica dentro l’analisi della globalizzazione e al di fuori di una prospettiva globofobica (senza, cioè, opporre al globale la difesa di – presunta – dimensione locale). Detto altrimenti, Impero legge la globalizzazione alla luce del conflitto tra capitale e lavoro. La globalizzazione, secondo questa prospettiva, non rappresenta né la vittoria di un liberalismo pacificato ed esente da contraddizione, come in Fukuyama, né uno scontro tra civiltà contrapposte, come per Huntington. Essa, invece, si presenta come un prodotto della lotta di classe, il risultato di uno scontro che oppone, ora sul piano globale, il capitale e il lavoro. Nel fare ciò, Impero sovverte il discorso post-classista e rimette al centro dell’analisi la presenza di un soggetto collettivo operaio (pur affermando l’esistenza di una differenza quantitativa e qualitativa rispetto alla classe operaia formatisi tra Otto e Novecento) antagonista rispetto al capitale. Impero osserva con una lente marxiana la riarticolazione del rapporto tra Stato e capitale intercorsa dopo la fine della guerra fredda e i mutamenti prodottisi nei processi di estrazione del valore e dell’accumulazione di capitale su scala globale. Soprattutto, Negri e Hardt portano in primo piano i soggetti autonomi e i movimenti conflittuali del lavoro vivo che, lungi dall’essere realmente spariti nella globalizzazione, erano stati semplicemente liquidati con troppa superficialità da chi, in maniera ideologica, pensava la fine dell’ideologia e, con essa, degli antagonismi. In questo si trova parte della ragione della sua diffusione e importanza nei movimenti alter-mondialisti a cavallo degli anni Duemila e nel nuovo millennio.

Uno dei motivi per tornare a parlare di Impero e della sua proposta in questa sede a vent’anni dalla sua comparsa consiste nel fatto che Negri e Hardt non si rivolgono semplicemente «ai» movimenti, ma parlano «di» movimenti. Essi, cioè, partono dall’esistenza di conflitti materiali che continuano a presentarsi nel capitalismo globale, dentro la presunta pacificazione del there is no alternative e contro la supposta degenerazione bellica dello scontro tra civiltà. Fuori da una logica meramente resistenziale, Impero mostra la funzione produttiva («costituente», direbbe Negri) dell’antagonismo del lavoro vivo anche nei cosiddetti «decenni smarriti», che fanno da sfondo alla stesura del libro. Del resto, se di «controrivoluzione» capitalistica si può parlare è perché (al netto di facili entusiasmi e con tutti i limiti e le differenze del caso) i tentativi di trasformazione della realtà non sono del tutto scomparsi.


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Elia Zaru è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna e cultore della materia presso il Dipartimento di Studi Storici dell’Università degli Studi di Milano. È autore di Crisi della modernità. Storia, teorie e dibattiti (1979-2020) (ETS, 2022) e La postmodernità di «Empire». Antonio Negri e Michael Hardt nel dibattito internazionale (2000-2018) (Mimesis, 2019). Per DeriveApprodi ha recentemente pubblicato: Antonio Negri. Costituzione. Impero. Moltitudine. Democrazia. Comunismo

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