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Il nuovo progetto della sezione «miraggi»


In questo articolo Grabriele Proglio presenta il nuovo progetto della sezione «miraggi», da lui curata.


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Miraggi si propone come spazio aperto e di dibattito per analizzare da più prospettive il rapporto tra crisi ambientali e movimenti ecologisti, le resistenze ai progetti estrattivistici delle multinazionali, le tante forme di neocolonialismo e le resistenze nel Sud globale. L’obiettivo è stimolare una riflessione collettiva che prenda in considerazione più punti di vista, evitando l’appiattimento su modelli o paradigmi da applicare in modo rigido ai diversi contesti coinvolti su scala globale.

Per raggiungere questo obiettivo, sono molteplici gli strumenti di cui si dota «miraggi». Per prima cosa, i diversi tagli dei contributi: verranno pubblicati documenti e fonti con commenti critici, così come interviste ad espert* che non avranno l’obiettivo di presentare un libro, un film, un documentario, ma partiranno da questo prodotto culturale per rintracciare i prodromi della crisi e le possibili forme di resistenza, le prassi come sintesi di elaborazioni teoriche e pratiche. Non mancheranno, poi, dei percorsi di lettura che avranno lo scopo di indicare traiettorie di analisi da condividere e, anche queste, da commentare e discutere insieme. Inoltre, il linguaggio intende essere accessibile a tutt*, non in accademichese per capirci, ma immediato e diretto, capace di raggiungere molteplici lettrici e lettori.

I diversi temi trattati saranno interpretati in prospettiva storica. È necessario, dunque, aprire una riflessione sull’approccio, sulla cornice ampia di lettura. Partiamo dal termine «storica» che non si riferisce unicamente allo studio del passato, ma anche all’oggi e ai possibili futuri; l’approccio storico, nella rubrica, si propone di rimettere in discussione le forme canonizzate di narrazione del passato che sono state generate attraverso interpretazioni di fonti prodotte da un’istituzione e organizzate nella forma dell’archivio. Non che ci sia nulla di male nell’adottare questa pratica di analisi. Il punto è, invece, problematizzare l’iscrizione di questa forma di sapere nella norma, in ciò che si definisce «normale» e criticarne l’afflato universalistico. Ogni archivio è un potere, ogni potere ha un archivio.

Standardizzare un processo di ricostruzione del passato – soprattutto se riguarda tematiche ambientali, ma in senso lato potremmo estendere la riflessione a ogni evento – porta con sé limiti sul come (non) si deve operare, ma anche rispetto alle aree di visibilità e invisibilità della storia: chi sono i soggetti del racconto del passato (o del presente) e chi o cosa ne rimane fuori. Per esempio, per un effetto illusorio la storia ambientale delle campagne italiane potrebbe corrispondere alle interpretazioni delle fonti prodotte dalle istituzioni italiane – in primis il ministero dell’agricoltura – con il varo della legge n. 841 del 1950. Ma, non appena si adotta lo sguardo sopra sorgono criticità di prima importanza. Perché nelle carte si troveranno indicazioni delle mosse degli attori istituzionali, ma non di chi abitava le campagne, né, tanto meno, si concepirà l’ecosistema come soggetto diretto di quelle trasformazioni. Antonio Gramsci aveva già problematizzato il rapporto tra storia e subalternità nel processo di modernizzazione italiano, e così anche i Subaltern Studies hanno portato in un contesto diverso, l’India post-decolonizzazione, la sfida di ripensare la storia in prospettive differenti. Ma vengono in mente anche, per rimanere in Italia, i lavori con le fonti orali di Nuto Revelli ed Ernesto De Martino, di Rocco Scotellaro o Danilo Dolci. Voci fuori dagli archivi delle istituzioni, voci marginali.

Pur contemplando i molteplici approcci e prendendo in considerazione le scuole storiografiche di pensiero nella lettura di un evento, il minimo comun denominatore pare essere l’accento sull’uomo. Scrivo «uomo» già in una prospettiva critica, rimarcando come sovente per definire l’essere umano, l’umanità o persino il vivente, si elevi a loro rappresentante unico il genere maschile. E volendo, potremmo approfondire questo passaggio, andando a ragionare sul «non detto», sul piano implicito di un’associazione così grossolana, giungendo poi a definire le varie genealogie sottese a questo immaginario. Prendiamo l’idea di apocalissi, ad esempio. Frank Kermode ha spiegato come sia passata dall’essere imminente al divenire immanente. Essa è una rappresentazione, il più delle volte, della possibile fine dell’umanità. Basti pensare ai film sull’Armageddon in cui la «natura» si rivolta contro lo sfruttamento e l’inquinamento subito: non prende corpo, ma si manifesta nella sua materialità (inondazioni, terremoti, surriscaldamento climatico), passando dall’essere risorsa a pericolo. Tutto, la rottura dell’equilibrio, la crisi, il baratro possibile e la risoluzione del problema si gioca intorno alle azioni dell’essere umano. Che presunzione, che volontà di onnipotenza!

Dunque, nella struttura epistemologica del discorso è già contenuta, di per sé, la forma del problema. Una rapida disamina critica sulla filosofia della storia permette di comprendere, a prescindere dalle diverse interpretazioni, quanto l’essere umano sia stato per secoli il soggetto unico della narrazione o lo strumento attraverso cui imporre teleologie capaci di fagocitare ogni elemento, il vivente e il non, il cosiddetto «reale» e il mondo dell’immaginario. E, definendo l’essere umano come centro, tutti gli altri oggetti (la flora, la fauna, ecc.) sono stati confinati sullo sfondo o sono entrati nei discorsi sulla crisi a seconda della loro relazione con i problemi generati. La distanza dall’essere umano sembra, riprendendo il modello geocentrico, ricordare l’orbita dei satelliti ed è quindi espressione di un livello di dipendenza dal centro. Le traiettorie potrebbero essere espressione di una materialità, delle posizioni che occupano gli oggetti-satellite rispetto all’essere umano, ma anche dello spazio, ossia dell’invenzione delle temporalità e di come queste dettino forme compatibili con le idee di modernità. Il caso più esemplare e immediato è la standardizzazione delle epoche, e, in particolare l’identificazione col termine «preistoria», in pieno Illuminismo, del periodo precedente la «civilizzazione» e relativo al dominio del primitivo.

Dunque, ricapitoliamo: l’uomo – quale rappresentante non eletto dell’essere umano. L’uomo, ancora, al centro del mondo, dell’universo. La sua centralità nel racconto della storia. Il suo metro, la linearità del tempo, nel proporre uno sviluppo cronologico delle questioni, dal prima al poi. E poi il contesto come regola storica per circoscrivere l’evento. Bisognerebbe chiedersi, rispetto a questo ultimo tassello, come si faccia a definire un solo contesto nel caso di un disastro nucleare come quello di Fukushima o dell’attuale pandemia da Covid-19. Insomma, un approccio storico allo studio delle ecologie politiche deve necessariamente rimettere in discussione gli strumenti, le cornici e le modalità con cui si è creato sapere, con cui si è legittimano lo sfruttamento, con cui si è depauperato il territorio.

Partendo da questi presupposti, «miraggi» parlerà di movimenti ecologisti, delle loro parole d’ordine e delle pratiche, di resistenza al land e water grabbing, di Antropocene e Capitalocene.



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Gabriele Proglio (1977) è ricercatore di Storia contemporanea presso l’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo. Ha lavorato come ricercatore al Centre for Social Studies dell’Università di Coimbra, all’European University Institute, all’Università di Berkeley, è stato docente presso l’Université El Manar di Tunisi e la Social Sciences University di Ankara. Tra le sue più recenti pubblicazioni I fatti di Genova. Una storia orale del G8 (Donzelli 2021) e Bucare il confine. Storie dalla frontiera di Ventimiglia (Mondadori 2020). Cura per «Machina» la sezione «miraggi».


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