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Il mutualismo delle origini tra resilienza e resistenza



Con questa intervista di Antonio Alia a Maria Grazia Meriggi (pubblicata il 17 marzo 2016 su «Commonware») intendiamo aprire una serie di interventi sul tema del mutualismo, o meglio del neomutualismo, che ha visto impegnata in questo ultimo anno di pandemia in molte parti del paese una rete significativa di situazioni collettive. Volontariato, volontarismo, nuove modalità della militanza, aspirazioni alla costruzione di «egemonia sociale» sono tematiche sulle quali crediamo quindi opportuno aprire un’ampia e articolata discussione.


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Il mutualismo ha un’interessante e complessa origine storica che si intreccia e a tratti si sovrappone con quella del movimento operaio. È stato, anche se in maniera contraddittoria, presupposto delle prime organizzazioni di classe. Cooperative di produzione, società di mutuo soccorso, società di miglioramento, cooperative di consumo, hanno accompagnato i processi di costrizione al lavoro salariato e lo sviluppo delle lotte contro di esso. Da un lato forme di resilienza collettiva – direbbero i policy makers di oggi – contro gli effetti drammatici della proletarizzazione di massa, dall’altro strumenti di resistenza di classe: nel primo caso apprezzati, nel secondo osteggiati dalla borghesia liberale dell’epoca. Sin dalle origini quindi il mutualismo è stato un fenomeno ambivalente. Oggi però, forse più di allora e probabilmente proprio per un certo malinteso storico, viene spesso assunto come una forma di immediato superamento dei rapporti capitalistici. In questa intervista Maria Grazia Meriggi, storica delle culture politiche e dei movimenti sociali, ci aiuta a schivare la ripetizione farsesca della storia, facendo un po’ di chiarezza su alcuni nodi problematici che caratterizzano il fenomeno. La lezione più importante che attraverso questa intervista possiamo trattenere dalla storia del movimento operaio è che il conflitto di classe ha sempre fatto piazza pulita degli approcci ideologici, apprezzando invece un più smaliziato pragmatismo strategico.

È ritornato con forza nel dibattito di movimento il tema del mutualismo. Una prima domanda di carattere storico: che cos’è stato il mutualismo all’origine del movimento operaio?


Senza voler fare troppa filologia, ma siccome la richiesta è rivolta a una storica, debbo fare delle precisazioni storiche. Certamente su questa questione della riproposizione in termini di autonomia e conflittualità del mutualismo c’è un certo malinteso rispetto alle origini storiche. Il mutualismo è stato l’organismo a cavallo tra il movimento operaio e la filantropia – c’è dentro il movimento mutualista un grande conflitto a questo proposito – è certamente l’organismo più antico che ha la continuità più lunga nella storia del movimento operaio che possiamo far risalire alla metà del Settecento in Inghilterra. La ragione di questa continuità storica è che quando le coalizioni, le organizzazioni per la resistenza, quelle che sarebbero diventate i sindacati, erano illegali; sono illegali in Inghilterra fino al 1825, però hanno poi grandissime difficoltà a operare fino alla metà degli anni ’60 dell’Ottocento, in Francia diventano legali nel 1864, data della fondazione della Prima Internazionale, mentre in Italia bisogna aspettare il codice Zanardelli, quindi il 1889. Per tutto questo periodo invece il mutuo soccorso è legale. Le cooperative hanno una vita a volte approvata a volte contrastata, a seconda che siano interpretate come una forma che acclimata gli operai al mercato, oppure come una forma di conflitto e di autonomia. Il mutualismo è approvato dalle classi dirigenti perché constatavano l’infinita sofferenza sociale del mondo del lavoro, le difficoltà provocate dai salari di sussistenza, che non permettevano risparmi tali da potersi curare dalle malattie e meno che mai di garantirsi una pensione. Con molte differenze da paese e paese e da periodo e periodo, pure inizialmente c’è una grande resistenza da parte delle classi dirigenti ad assumersi direttamente la gestione di organismi di quello che poi sarebbe diventato il welfare, il mutualismo appare come una forma di self-help che scarica le classi dirigenti e gli Stati dalla responsabilità di affrontare i problemi gravissimi della vita quotidiana delle classi lavoratrici. Infatti ci sono società di mutuo soccorso che hanno dei soci d’onore, dei filantropi, soprattutto dei notabili locali che aiutano economicamente le società. Direi che il conflitto politico all’interno del movimento mutualistico non è tanto sulla presenza di soci d’onore quanto sul loro ruolo: cioè se debbano o non debbano assumere dei ruoli dirigenziali all’interno delle società di mutuo soccorso. Per esempio molte società di mutuo soccorso repubblicane mazziniane (Mazzini e i mazziniani sono tra i principali promotori del mutuo soccorso in Italia) tendevano a escludere i soci d’onore dalla gestione dei fondi e quindi a usare il mutualismo come una forma di autogoverno, sia pure modesto, del mondo del lavoro. Poi c’è un altro aspetto importante, che ho studiato soprattutto in Francia: in tutto il periodo in cui le mutue sono legali e gli scioperi sono illegali, alcune società di mutuo soccorso raccolgono fondi per sostenere gli operai durante gli scioperi. Questo era illegale e poteva costare qualche giorno di carcere, ma soprattutto, cosa più temuta, poteva costare la requisizione dei fondi. In Italia c’è una questione assai interessante: nel 1882 all’interno del movimento mutualistico, che era sostanzialmente mazziniano e repubblicano, cominciano a muoversi dei militanti di base che avrebbero poi fondato un’organizzazione dalla vita breve ma importante, il Partito Operaio, e a cambiare gli statuti delle società di mutuo soccorso, trasformandole in società di miglioramento. Con il termine miglioramento bisogna intendere un obiettivo politico di lotta e di trasformazione. Quindi si può dire che ci sono società di mutuo soccorso che si sono sviluppate in forme di resistenza, ma cambiando radicalmente la loro originaria natura. Quindi fondamentalmente le società di mutuo soccorso nascono come un sostituto di un welfare che lo Stato non vuole organizzare in prima persona. Per esempio nella Francia del secondo impero, dal 1851 al 1870, quindi nel ventennio che vede il vero decollo industriale della Francia, c’erano società di mutuo soccorso dette «approvate», cioè registrate presso il ministero dell’Interno, ed erano guidate da notabili locali. Il fatto di essere registrate dava loro dei modesti ma sempre rilevanti vantaggi in termini soprattutto fiscali e di interessi nella gestione dei fondi depositati presso le casse di risparmio. Però c’erano anche delle associazioni di mutuo soccorso non approvate ed erano queste che spesso erano anche degli organi di resistenza. Bisogna ricordare che era scoraggiata la finalità pensionistica, perché il denaro che si poteva raccogliere non permetteva un’erogazione così prolungata come la pensione. Ciò che le mutue in qualche modo assicuravano erano soprattutto la malattia, l’infortunio, la maternità, i costi del funerale, gli esborsi di denaro improvviso che i salari fondamentalmente di sussistenza degli anni fino agli inizi del Novecento non permettevano di affrontare.


Si trattava quindi di organizzazioni caratterizzate da una sorta di ambivalenza. Da un lato strumenti di lotta, dall’altro forme di gestione funzionali alla riproduzione capitalistica. Approfondiamo allora il ruolo, dentro questa ambivalenza, che ha avuto il movimento mutualistico nello sviluppo delle prime organizzazioni di classe...


Esattamente, ambivalenza è il termine corretto. Torniamo all’Italia, un caso abbastanza noto e significativo. Partiamo da quando nasce il movimento camerale, cioè il movimento delle Camere del lavoro in Italia, grosso modo negli anni ’90 dell’Ottocento, poi molte di esse vengono sciolte, con la repressione di Bava Beccaris, dopo i «moti del pane» del 1898, successivamente si ricostituiscono. Però già negli anni ’90 a Milano le Camere del lavoro non nascono solo come organismi di conflitto. Le Camere del lavoro nascono come luoghi di incontro tra l’offerta e la domanda di lavoro. Solo in seguito, abbastanza presto, diventano delle sedi di organizzazioni conflittuali. Molte Camere del lavoro hanno come sede dei locali forniti dalle amministrazioni comunali, perché sono considerate dei modi per evitare quello scambio all’aperto, per esempio dei manovali e degli edili precari, che era ritenuto pericoloso e umiliante da molti lavoratori, ma che tutto sommato era ritenuto superato anche da molti esponenti delle classe dirigenti, soprattutto lombarde. Allora alla fondazione di molte Camere del lavoro partecipano parecchie Società di mutuo soccorso, insieme a delle società di miglioramento, che hanno entrambi i ruoli, e a militanti provenienti dal Partito Operaio. Fondamentalmente il modo in cui i militanti spingono il mutualismo verso forme di sostegno della resistenza, che poi è il grande passaggio, è la battaglia per la modifica degli statuti, affinché comprendano anche quella finalità.


Qualcosa l’ha già accennata. Sarebbe interessante capire quali erano le diverse posizioni all’interno del dibattito dell’epoca rispetto al mutualismo. Immagino che ci fosse una profonda divisione per esempio tra marxisti e mazziniani...


I mazziniani e i marxisti si combattono ideologicamente e politicamente tra loro, ma quando si parla di marxismo nell’Ottocento, bisogna utilizzare molta cautela. Il pensiero di Marx era pochissimo conosciuto, le traduzioni erano pessime, si può dire che il marxismo fosse noto solo per quello che era pubblicato: fondamentalmente il primo libro del Capitale, solo fra gli anni ’80 e ’90 dell’Ottocento cominciano a uscire gli altri libri curati da Engels dopo la morte di Marx; i Grundrisse escono a Mosca soltanto negli anni ’30 del Novecento. Quindi il corpus marxiano era molto più ridotto ed era soprattutto noto nei paesi di lingua tedesca. Un dirigente del movimento socialista francese, Jules Guesde, dichiarava di essere arrivato al marxismo insieme a Marx: diciamo che per quanto si possa apprezzarne il ruolo politico, lo storico non può che sorridere di questa pretesa. Quindi Marx era allora quasi una parola d’ordine, rifarsi al marxismo, proclamarsi marxisti voleva dire essere fautori del conflitto sociale al posto della mediazione nazionale. Però, nella concretezza dei fatti, fra militanti che erano stati mazziniani e lavoratori che cominciavano a spostarsi su posizioni conflittuali non c’era una divisione così netta. Per esempio Osvaldo Gnocchi Viani (una figura molto interessante e molto cara ad alcuni degli storici che più si sono occupati di mutualismo, come Pino Ferraris) era stato mazziniano in gioventù, aveva aderito poi al garibaldismo e alla Prima Internazionale, però nelle sue opere non si vede questo passaggio come rottura radicale. Il mazzinismo era stato il primo incontro della sua vita, non dimentichiamo che Mazzini nel suo esilio in Inghilterra aveva assistito allo sviluppo del movimento cartista e quindi aveva creato all’interno della Giovine Italia degli istituti specifici per operai. Quindi Mazzini era convinto che le classi lavoratrici avessero bisogni di luoghi specifici per l’organizzazione. Perciò nel concreto ci sono delle società operaie mazziniane negli anni ’80 dell’Ottocento i cui dirigenti, dopo alcune esperienze, si spostano su posizioni di finanziamento del conflitto, che è sostanzialmente il grande passaggio. Per esempio Costantino Lazzari, in seguito un importante dirigente socialista e segretario del Partito socialista (è l’uomo della formula «né aderire né sabotare»), in gioventù era stato un importante dirigente del Partito Operaio, ma la sua prima notte di carcere l’aveva fatta nel 1882 come militante repubblicano, per una manifestazione contro l’esecuzione di Oberdan. Alla sua fondazione il Partito socialista si proclama marxista, ma il marxismo di Filippo Turati non può ritenersi certo «ortodosso» o rigoroso. Mazzini però era rigorosamente contrario allo sciopero, è stata questa la ragione di frattura rispetto alla Prima Internazionale anche se suoi emissari avevano partecipato alle discussioni preparatorie del congresso di fondazione. L’adesione a posizioni fautrici del conflitto è dunque causa di rottura all’interno del mazzinismo. Lo stesso Osvaldo Gnocchi Viani negli anni ’70 dell’Ottocento è stato espulso dal coordinamento delle società operaie mazziniane, che si chiamavano società operaie affratellate. Però se guardiamo le sue posizioni, quando lui ripercorre la sua storia tutto sommato c’è una continuità tra il suo impegno nella Consociazione operaia genovese (Genova è per ragioni biografiche al centro del mazzinismo di sinistra) e la sua militanza nel Partito Operaio. Quando poi Osvaldo Gnocchi Viani partecipa alla fondazione della Società umanitaria, i due aspetti si uniscono perché Prospero Moisé Loria, un filantropo progressista che lascia tutti i suoi averi alla Società Umanitaria, aveva una formazione politica e culturale mazziniana – pur senza essere stato un militante cospiratore – e però nella sua lunga e complessa vita di commerciante si era convinto che i lavoratori dovevano emanciparsi da sé e che quindi il modo migliore per aiutarli era lasciare le sue ricchezze a un organismo che li aiutasse a organizzarsi nel mercato del lavoro, dunque alla Società umanitaria che si trovava al crocevia tra l’esperienza mutualistica «filantropica» e l’auto-organizzazione dei lavoratori.


Quindi predominante è stata la funzione di mutuo-aiuto rispetto al ruolo conflittuale di queste organizzazioni nella storia del mutualismo?


Non c’è una divisione così netta, nelle Camere del lavoro ci sono le sedi dei sindacati, ma per esempio alla fondazione della Camera del Lavoro di Milano partecipano le Società di mutuo soccorso, ovviamente non quelle mazziniane; tutto sommato disporre di somme per affrontare i problemi drammatici della vita quotidiana poteva servire a essere più coraggiosi nell’affrontare una situazione difficile come quella dello sciopero. Ma non c’era un dibattito particolarmente accanito. Le Società di mutuo soccorso che erano coordinate in un’associazione nazionale rivendicano la continuità della loro importanza nella formazione delle capacità di autogoverno dei lavoratori e quindi rivendicano anche nei confronti del Partito socialista, che tende a valorizzare molto di più il rapporto con il sindacato, l’importanza della loro storia. C’è però una cosa molto importante da dire: le Società di mutuo soccorso hanno avuto eventualmente questo valore di esercizio di addestramento all’autogoverno, ma poi di fatto raramente sono riuscite a rispondere ai bisogni economici che stavano alla loro base. Soprattutto non sono mai riuscite a risolvere il problema delle pensioni. Quindi non a caso il movimento operaio, anche con delle resistenze, ha ceduto all’idea che era lo Stato che doveva farsi carico di questo gravoso impegno.


Una domanda più sull’attualità. Nel dibattito di oggi sembra invece che le organizzazione di self-help siano di per sé delle forme di superamento dei rapporti capitalistici. Cosa ne pensa?


Indubbiamente ci sono degli aspetti di creatività nella cooperazione che è sempre una capacità di resistenza in un contesto economico difficile, ma non è certo un territorio libero dai rapporti di forza. Anzi esattamente le sconfitte politiche hanno contratto lo spazio del welfare pubblico, perché l’interesse dei grandi gruppi finanziari è di vendere sul mercato quello che un tempo era affidato alla mediazione statale. Scambiare la necessità di affrontare questa dura condizione per uno spazio libero dai rapporti capitalistici mi sembra francamente ideologico. C’è un aspetto rispetto al passato che può suggerire un’analogia. Per esempio, il movimento sindacale fra i più diffidenti nel rapporto con lo Stato fu quello francese. Nel 1910 il gruppo parlamentare socialista sostiene una proposta che viene da un governo radicale, una legge sulle «pensioni operaie e contadine» che prevedeva un contributo dello Stato, un contributo imprenditoriale ma anche un contributo dei lavoratori. Il movimento sindacale afferma la sua contrarietà ai versamenti dei lavoratori alla cassa dello Stato per varie ragioni. Innanzitutto perché l’erogazione doveva avvenire oltre i 65 anni e secondo coloro che partecipano a questo dibattito ben pochi lavoratori superavano quell’età: un’osservazione realistica. Poi perché non si fidavano dello Stato che avrebbe utilizzato quei fondi per scopi diversi da quelli dichiarati e inoltre poiché i lavoratori erano i principali produttori il loro contributo andava prelevato dalla fiscalità generale. Questo è certamente una peculiarità del movimento operaio francese che ha teso a fidarsi poco e molto tardi dello Stato, però di fatto poi sui giornali sindacali c’era scritto: «noi diciamo così, ma diciamo così anche per avere di più, perché non bisogna cedere subito a un contributo paritario dei tre partecipanti all’istituto, noi invece vogliamo semplicemente che lo Stato ci metta di più, bisogna chiedere molto per ottenere un po’». Quindi c’è un’ambiguità anche nei momenti di massima rivendicazione dell’autonomia. È evidente che lo Stato finisce per essere il garante più sicuro della continuità dell’erogazione di queste prestazioni. Posso raccontare un aneddoto significativo. Io ho scritto tempo fa – nel 2005 – un libro, Cooperazione e mutualismo. Esperienze di integrazione e conflitto sociale in Europa fra Ottocento e Novecento, in cui si studiano anche le cooperative. C’erano, in Italia, delle cooperative che venivano fondate dai lavoratori in sciopero perché gli scioperi duravano molto e loro avevano bisogno di lavorare; non avendo fondi di resistenza abbastanza ricchi per reggere lo sciopero, con la cooperativa potevano prendere in appalto dei lavori, senza lavorare per il padrone contro cui scioperavano, quindi la cooperativa finisce per essere un organismo le cui risorse sono utilizzate per la resistenza. Questo avviene molto anche nel mondo agricolo. Gli organizzatori ortodossi, per esempio i funzionari della Società umanitaria, come Alessandro Schiavi, erano contrari a questa confusione perché la ritenevano poco utile al buon funzionamento dei sindacati, delle mutue, e delle cooperative stesse, ma i lavoratori tendevano spesso a utilizzare uno strumento a sostegno dell’altro. Detto questo, un giovane collega, ricercatore precario fino a ieri, che ha fatto la sua esperienza nei centri sociali e che ha incontrato le cooperative solo nella forma delle false cooperative che voi conoscete molto bene, ha letto il libro e mi ha detto: «ma allora le cooperative possono essere uno strumento di lotta, facciamo un seminario». Quindi in fondo questi organismi sono letteralmente ambigui, cioè sono aperti a un uso di sfruttamento dei soci ma sono anche stati, possono essere in una certa fase, strumenti di autogoverno e di esperienza di autogestione. Sono esperienze, il mutualismo e la cooperazione, che però non possono essere pensate illusoriamente come forme di superamento dei duri rapporti di forza. Queste letture si sono sempre rivelate ideologiche.


Qual è quell’elemento che consente a queste esperienze di non essere assimilate dentro l’apparato di Stato, dentro i rapporti capitalistici?


Tutto ciò che agisce dentro i rapporti capitalistici ne fa parte, questo il marxismo ce lo ha insegnato in maniera fulminante. La cosa essenziale è che i rapporti di lavoro dentro una cooperativa o le prestazioni rispettino rigorosamente quello che i rapporti contrattuali e sindacali impongono, cioè non fare in modo che in una cooperativa il salario sia più basso o addirittura più incerto che in un’impresa privata. In sostanza il rigore delle prestazioni risponde a un’etica di relazione ugualitaria tra i soci. Questo non significa non far parte del capitalismo-ambiente, di cui facciamo tutti parte sia pure spesso cercando di contrastarne i meccanismi; però non esistono luoghi, isole fuori dal capitalismo. Forse le isole sono i rapporti privati e affettivi, gli affetti più intimi, ma questo è sempre esistito. Anche nella guerra dei trent’anni ci potevano essere dei momenti felici. È poco più di una battuta, dire che un contadino tedesco poteva essere felice durante la guerra dei trent’anni, vuol dire che è possibile tutto, ma le isole sociali ed economiche liberate non esistono.


Non vede la possibilità di un utilizzo conflittuale delle forme contemporanee di mutualismo, della loro autonomia?


Dirò una cosa in qualche modo arcaica. Questa autonomia se vuole essere spesa per modificare i rapporti di forza, un obiettivo politico generale se lo deve dare. So che oggi viviamo tra le macerie delle organizzazioni politiche tradizionali, a parlarne se ne ha pudore. Non credo che sia possibile affrontare la questione solo più sul piano nazionale perché i problemi economici e del mercato del lavoro sono perlomeno europei. Io sono quindi assolutamente contraria a tutte le forme del cosiddetto «sovranismo di sinistra». Però non si può contare solo sulla rete di un arcipelago di isole liberate. Credo che il problema del coordinamento politico non possa essere eluso, anche se oggi è problematico.


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