Gérard Giachi, da «Doc(k)s», 2004-2005
Tolkien, Vollmann, Miyazaki, tre autori cult e le loro mappe. Siamo nel dopo, il punto di non ritorno è dietro di noi, il mondo è cambiato, il futuro è inimmaginabile, per orientarci abbiamo bisogno di tracciare nuove mappe. Mappa come luogo dell’immaginario possibile, come narrazione, come selezione di ciò che si vuole trasmettere, evidenziare, ricordare, inventare, mappa come cosmogonia alternativa. Ci guida in questo sentiero Giuseppe Sorce, un giovane autore laureato in italianistica che scrive di antropocene, geografia, letteratura e tecnologia come frontiera del possibile.
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In questi giorni sto guardando Altair: racconti di battaglia, un anime ambientato in una sorta di Europa e Medio Oriente rinascimentali fantastici. Il protagonista è un giovane pascià pacifista di un regno che ricalca quello ottomano il quale si trova costretto a fronteggiare l’espansione dell’Impero, ispirato al sacro romano impero, guidato dal ministro Louis, principale antagonista della storia. Nelle fasi iniziali della narrazione, l’Impero riesce con straordinaria facilità a strappare alleanze alle nazioni vicine mentre il protagonista è costretto a lottare ogni volta con ogni mezzo, intellettuale, militare, politico ed economico, per cercare di convincere le potenze delle altre città-stato ad allearsi con lui e la sua nazione, ricorrendo perfino a golpe pilotati e attuati da lui stesso. A circa metà della serie ci viene rivelato finalmente come il ministro dell’Impero riusciva a convincere così facilmente le altre nazioni a passare dalla sua parte: il ministro semplicemente si recava dal capo o dai capi della nazione o città-stato con cui voleva stringere alleanza mostrando una mappa del continente ridisegnata da lui stesso. In questa mappa di volta in volta il continente presentava i nuovi confini geopolitici del futuro in cui l’Impero avrebbe vinto la guerra di conquista e i suoi alleati si sarebbero così espansi di conseguenza arricchendosi con nuovi territori, avrebbero perciò assunto nuovi domini e quindi una nuova forma. Una mappa del futuro insomma, che è insieme mappa del mondo del futuro e mappa del futuro del mondo. È in questi due piani percettivi e immaginativi che agisce la mappa del ministro Louis. Bastava questo allora, bastava la sua mappa per convincere qualsiasi capo di qualsiasi altra nazione a dire di sì all’Impero. Non solo l’Impero era talmente audace da riuscire a immaginare un futuro nuovo per tutto il continente, ma era talmente potente nella sua visione delle cose da riuscire a prevedere, nel senso di vedere-prima, il continente e il mondo tutto del futuro e nel futuro, in quanto questa geografia futura-del-futuro, riusciva già a rappresentarla, a dargli forma concreta, a realizzarne cioè un’immagine.
Perché la questione delle mappe è questa, non tanto di che tipo sono quanto come funzionano. Concentrarsi sulla funzione cognitiva delle mappe ci aiuta quindi a inquadrare su quale campo di forze cognitive, percettive e immaginative si combatterà la battaglia per il futuro, ove la capacità di immaginare, in quanto facoltà di pre-visione e pre-figurazione, il futuro del mondo in termini empirici oltre che concettuali gioca un ruolo cruciale. Riflettere sulla dimensione cognitiva delle mappe ci aiuta a comprendere quanto e come la mappa sia uno strumento sia intellettuale sia pratico che non è vincolato soltanto alla prospettiva geo-cartografica della percezione spaziale bensì pertiene all’esperienza e alla cognizione spaziale di Homo nel suo complesso. Il mapping riguarda il pensiero quanto la Terra ed è forse nella mappa come fenomeno cognitivo che possiamo cogliere il legame viscerale fra l’umanità e il mondo, in diacronia e in sincronia. Per questo le mappe sono cognitive e sono anche geografiche (da non fraintendere con «cartografiche») e, azzardo a dire, sono cognitive poiché sono geografiche e viceversa. Poi si possono costruire carriere accademiche cercando di speculare sulle une e sulle altre ma qui vorrei provare a tenere insieme questi due aspetti [1].
Come ci ricorda Golledge, con cognitive mapping si intende il processo di integrazione mediante il quale le strategie di apprendimento di un percorso in un ambiente portano alla costruzione di mappe cognitive che possiamo quindi definire come rappresentazioni interne delle caratteristiche percepite di un ambiente, degli oggetti che vi si trovano e delle relazioni spaziali fra loro [2]. L’utilità delle mappe cognitive è duplice: da un lato facilitano la ricognizione dei luoghi e il wayfinding, e dall’altro agiscono come organizzatrici stesse di esperienze propriamente spaziali (cioè di uno spazio) o anche spazializzate (si pensi alle cosiddette mappe concettuali che ci suggeriscono che pensiero, immagini e linguaggio sono fatti, fenomeni, processi, in qualche modo attraversati e legati dalla spazializzazione, ossia la conversione/traduzione di qualcosa in qualcos’altro che si struttura in uno spazio; lo spazio come qualità del pensiero, come comportamento, come termine di una disposizione cognitiva). Le mappe quindi non sono solo le cartografie né le vedute rinascimentali, non sono cioè solo una convenzione di segni grafici che rappresenta qualcosa ma soprattutto un fenomeno cognitivo che pensa, ordina, distribuisce, trova, razionalizza, annienta, complica, cela, inventa. Come? Provo a sondare fra tre casi di mappe di tre opere narrative, l’esperienza delle quali non si esaurisce affatto nella fiction.
1. Inventare una mappa: la mappa di Arda in Il Silmarillion di J. R. R. Tolkien
La mappa del continente inventato da Tolkien, del mondo-universo inventato da Tolkien, puramente fiction diremmo. Certo. La geografia di Arda può avere affinità, in qualche misura, con un pezzo di mondo reale? Sì, in certe misure certo che sì. La bellezza e la potenza dell’universo di Tolkien sono dovute al fatto che, prima di tutto, il suo mondo è un mondo geograficamente strutturato e costruito, che funziona geograficamente come un ipotetico mondo fisico, similterrestre, con la sua geologia, col suo clima e i suoi microclimi, con le sue pianure, le catene montuose, i mari e le foreste? Sì. Possiamo dire che se si accosta il lavoro di Tolkien a quello delle mitopoiesi e cosmogonie delle civiltà umane si fa una cosa esatta da un punto di vista analitico interpretativo? Sì. Si sa infatti che Tolkien disegnasse mappe ovunque potesse e dalle mappe e dalle lingue inventate per diletto è nato poi tutto il resto. Se non avessimo una mappa disegnata di Arda all’interno dell’edizione italiana del Silmarillion che si trova oggi comunemente in commercio, saremmo quasi costretti a disegnarla noi stessi. Saremmo invogliati molto probabilmente a disegnarla. Saremmo portati in qualche modo a tracciarla perché è il gesto grafico successivo al gesto mentale dell’«orientarsi in quel mondo», oltre che una possibile risposta alle preziose descrizione dei luoghi e delle culture dei popoli di Arda. La mappa di Arda è costitutiva della sua narrazione, ne è l’essenza, ne tracciare medesimamente le origini e i destini. Quindi diciamo: la mappa come culla dell’immaginario geografico, la mappa come strumento dell’immaginazione geografica [3], la mappa come creazione, ordinamento, funzionamento spaziale.
2. Ritracciare una mappa: la mappa ridisegnata dell’artico canadese in I fucili di William T. Vollmann
Vollmann una mappa l’aveva già. L’artico canadese esiste. È reale, è fisico, e già stato cartografato. Nessuna necessità di inventare, di fare assolutamente fiction, per scrivere la bella storia, nessuno sforzo eccessivo di subcreation e, ancora, worldbuilding [4], l’artico è già romanzabile di suo per il cittadino occidentale, esotismo, clima estremo, genocidi e deportazioni. Nonostante ciò Vollmann oltre alle parole, oltre a scrivere e descrivere e narrare i luoghi pensa bene di ritracciarli, ridisegnarli, ridescriverli (non solo i luoghi perché il testo e cosparso di disegni, schizzi diremmo, di piante artiche, di oggetti, carcasse, vere e proprie illustrazioni ecc.). Così mappe, carte, scene e cose, sospese fra il reale-documentale-biografico e l’immaginario-romanzato vanno a costruire un flusso immersivo di immagini (grafiche e letterarie) che restituisce ciò che è la sua – del Vollmann autore e narratore – esperienza dello spazio del mondo artico, quel mondo lì, che nell’unità dell’opera è il sovrapporsi e il fondersi continuamente del mondo narrato (creato) con il mondo (cartografico) artico. È così che vecchie cartografie dell’artico vengono ridisegnate, ritracciate, ricalcate [5] dal Vollmann autore che mima forse il gesto del Vollmann narratore e del Vollmann biografico, che inevitabilmente ritorna con l’occhio, la parola e la mano che traccia, sullo spazio cartografico percorso, abitato e sognato. Ritorna per ricomporlo a suo modo, un rituale di riappropriazione e di assorbimento delle forme del continente quando ricalca e ridisegna e di pura pratica geografica nelle mappe non propriamente cartografiche delle cittadine che ha frequentato, talvolta anche più volte nel tempo del racconto e nel tempo della sua vita. Le mappe vengono minate in ciò che le rende tali, ossia proporzioni e proiezioni matematiche, e vengono ritracciate perché lo spazio geografico viene rimappato e rirappresentato necessariamente dall’atto cognitivo che allo stesso tempo, inevitabilmente, lo percepisce, lo pensa, lo immagina e lo crea. Quindi diciamo: la mappa come riappropriazione, come ripensamento, come ricognizione dell’esperienza spaziale del mondo, come ponte cognitivo fra landscape e mindscape.
3. Mappe cognitive: la mappa assente in Dark Souls di Hidetaka Miyazaki
Dark Souls è un videogioco che ha fatto la storia del medium per molte ragioni. Perché si trova qui con Tolkien e Vollmann? Perché Miyazaki è considerato uno dei più grandi creativi viventi? Quando esce, nel 2011, Dark Souls si colloca fra il genere action RPG e il dungeon crawler a tema fantasy, ma l’esperienza che offre al giocatore è talmente diversa dal solito da inaugurare un genere a sé stante (il soulslike appunto). Sono molti gli aspetti che contribuiscono a creare l’unicità di Dark Souls, ma qui ovviamente ci concentriamo su uno in particolare: la mappa. O meglio: l’assenza di una mappa [6]. Infatti, solitamente i videogiochi a cui Dark Souls si ispira, nelle sue meccaniche di gioco (che poi innova) e ambientazione più tradizionali, presentano nella schermata una piccola mappa ove vi è indicato dove si trova il personaggio e vengono indicati gli obbiettivi da raggiungere per andare avanti nella trama o nelle varie sfide; vengono inoltre indicati alle volte luoghi importanti del gioco per esempio dove poter acquistare armi, equipaggiamento, i Png (personaggi non giocabili ma che spesso offrono sfide, indicano ricompense ecc.). Altra soluzione solita è affidare la visualizzazione di tutta la mappa ad un tasto del joypad e mostrare invece sulla schermata di gioco una barra che indica le direzioni da prendere, la vicinanza o lontananza rispetto all’obiettivo o i vari obiettivi. Ora, Dark Souls costruisce la sua identità nell’assenza di una mappa. Non c’è una mappa del mondo-del-gioco all’interno del gioco. Non c’è all’interno del gioco alcuna rappresentazione dall’alto degli ambienti del mondo del gioco stesso. Gli obiettivi non vengono segnalati perché non ci sono obiettivi predefiniti, né vengono in alcun modo indicati altrettanti percorsi predefiniti, che difatti non esistono. Lo sgomento e la sensazione di spaesamento del giocatore è inoltre acuita dalla mancanza di informazioni sul mondo del gioco stesso, non ne sappiamo nulla. Oltre che un brevissimo filmato iniziale, ciò che il giocatore possiede per ricostruire una storia, costruirsi una mappa mentale, inventarsi/scoprire una direzione di esplorazione, sono le brevi descrizioni degli oggetti raccolti, pochissimi e spesso criptici dialoghi con gli Png, l’architettura e lo stato degli edifici e la natura degli ambienti che via via si percorrono (tecnicamente gamedesign e level design) [7]. A questo aggiungiamo la decadenza dei luoghi, la maestosità dei castelli, delle prigioni, il buio delle paludi e della foresta e così via. Inoltre, è fondamentale considerare che il fatto che tutto l’ambiente di gioco è costruito in rapporto uno a uno. L’esperienza dello spazio-mondo di Dark Souls è quindi totalmente affidata, oltre alla bravura o meno del giocatore pad alla mano, come si suole dire, alla capacità di orientamento, esplorazione e cognitive mapping in questo mondo senza direzioni e senza apparenti mete e destinazioni. Il giocatore meno smaliziato può rischiare di vagare per ore e ore e ore, con il rischio anche di entrare, senza saperlo, in aree del gioco dove i nemici sono troppo più forti, con la conseguente frustrazione che infatti ha portato molti videogiocatori ad abbandonare Dark Souls. Avere una raffinata cognizione dello spazio è quindi l’unica facoltà essenziale che permette al videogiocatore di «giocare». Lo spazio-mondo di Dark Soul emula infatti lo spazio fisico materiale nelle sue componenti più disturbanti: labirintico, disorientante, incognito, incartografibile nella sua totalità. Occorre perciò che il videogiocatore costruisca mappe cognitive essenziali per fare esperienza del mondo, per proseguire con la narrazione, per recuperare quegli oggetti necessari ad andare avanti. Per costruire mappe cognitive come sappiamo dobbiamo saper stabilire landmarks efficaci il che comporta il saper riconoscere snodi, luoghi cardine, collegamenti nascosti (shortcut in gergo), e saper quindi costruire percorsi di senso attraverso gli ambienti nonostante le scarsità di informazioni date riconoscendo tracce, segni, memorizzando nomi di luoghi, parole chiave.
Detto così, sembra impossibile completare il gioco, eppure lo si fa, eppure Dark Souls ha generato una community di giocatori enorme in tutto il mondo, perché proprio nelle sue peculiarità, nella sua disorientante e sopraffacente natura, è un’opera videoludica che si offre a molte più interpretazioni e stili di gioco differenti rispetti altre. Per non parlare del fatto che se si gioca online e si è umani (nel gioco si può essere umani e non-morti), capita che il nostro ambiente venga invaso da un altro giocatore collegato (un utente quindi, un altro videogiocatore, non l’IA del gioco) che ha l’obbiettivo di sconfiggerci; giocatori da altri mondi possono essere evocati e possono aiutarci a sconfiggere nemici; degno di nota è anche il fatto che ogni giocatore può lasciare un messaggio per terra in qualunque punto (avvertimenti per esempio che ci dicono che più avanti ci sarà un imboscata per esempio) che può essere letto da altri giocatori durante le loro esperienze del mondo, e ancora il fatto che si possono scorgere durante il gioco gli spettri di altri giocatori nel momento in cui muoiono in un determinato punto, perché caduti da una scalinata o uccisi da un dardo nemico, o semplicemente li si vede vagare per le aule dei castelli, per le vie dei borghi o fra i boschi, nei pressi di un fabbro o di un falò (il punto di salvataggio del gioco).
Pensiamo allora al nostro mondo, alle geografie dell’Antropocene che andranno pensate prima che scritte. Pensiamo a questi nostri tre casi, qui: mappe geografiche eppure immaginate, mappe geografiche da riscrivere, mappe da pensare per una geografia immaginata. Il mondo dell’Antropocene ci pone infatti molteplici sfide sul piano scientifico e non solo. Al contrario di ciò che pensano alcuni, tra i quali ci sono anche, ahinoi, umanisti diffusamente proclamati, le sfide dell’ingegneria, della biochimica, dell’informatica in ogni caso necessitano, per essere concepite, concettualizzate e applicate, di un ripensamento del mondo in quanto esperienza-fenomeno spaziale. L’Antropocene ci costringe a considerare allora la pluralità di scenari possibili, cioè le possibili infinite combinazioni fra le possibili conseguenze del cambiamento climatico, come geografie del possibile, geografie che vengono dal futuro ma che come fantasmi popolano già l’adesso-qui. Siamo invasi, come in Dark Souls, da spettri che abbozzano la loro fine o il loro inizio per poi dissolversi fra le architetture degli ambienti terrestri. In questo senso, decodificare ciò che il mondo ci dice è un compito che le mappe cartografiche non possono più assolvere. Ci servono mappe cognitive per essere reattivi ai labirinti, ai disorientamenti, ai vicoli ciechi e ai silenzi, perché il cambiamento climatico ci pone davanti a un futuro di eventi non lineari [8] che come spettri sono tutti in qualche modo già. Landscape e mindscape, geografia e immaginazione, Terra e Homo, giocano adesso un'altra partita e alcune mappe sono già lì, devono essere soltanto ridisegnate, altre verranno insieme al mondo a venire, altre dovranno essere inventate, tracciando nuovi percorsi di senso, individuando snodi, landmarks, ricordando vecchi nomi, e altre ancora non ci saranno mai.
Note
[1] Sulla geografia come attitudine cognitiva si rimanda a Meschiari M. 2019, Neogeografia, Milano, Milieu edizioni; Loukaki A. 2014, The Geographical Unconscoius, Farnham, Ashgate; Farinelli F. 2003, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Torino, Einaudi.
[2] Golledge R. G. (ed.) 1999, Wayfinding Behavior. Cognitive Mapping and Other Spatial Processes, Baltimore, Johns Hopkins University Press, p. 6.
[3] Si veda a tal proposito Cosgrove D. 2008, Geography and Vision. Seeing, Imagining and Representing the World, London-New York, IB Tauris; Gregory D. 1994, Geographical Imaginations, Malden, Blackwell.
[4] Se ne discute così in Wolf M. J. P. 2012, Building Imaginary Worlds. The Theory and History of Subcreation, London Routledge.
[5] Non mi dilungo su questo rimandando a quanto ne ho scritto io stesso su «Dialoghi Mediterranei» (2020), in Il mondo e il suo discorso: problematizzare le prospettive (http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/il-mondo-e-il-suo-discorso-problematizzare-le-prospettive/), ma soprattutto al prezioso contributo di Meschiari (2019) in William T. Vollmann il corpo della Terra, alfabeta2.it ( https://www.alfabeta2.it/2019/02/24/william-t-vollmann-il-corpo-della-terra/).
[6] Ovviamente qui si intende la mappa come rappresentazione dell’alto dello spazio del mondo del gioco (quando si parla di giochi «open map» oppure «open world» si intende invece una caratteristica del mondo di gioco che consente in gradi diversi di libertà al giocatore di esplorare gli ambienti del gioco).
[7] Oltre che dalla difficoltà (fra le tante peculiarità, Dark Souls è un gioco che fa della morte una meccanica fondamentale della narrazione oltre che del gioco in sé), anche delle modalità di combattimento, dalla crescita o meno del personaggio e dal design dei nemici e degli ambienti.
[8] Si rimanda a Bonneuil C., Fressoz J.B. 2019, La terra, la storia e noi. L'evento antropocene, Treccani; Ghosh A. 2017, La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Vicenza, Neri Pozza.
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