Presentiamo la bozza di programma di Transuenze per il progetto sulla cartografia dei decenni di Machina.
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Nelle prossime settimane questa sezione di Machina, accogliendo l’invito lanciato a dicembre su queste pagine (www.machina-deriveapprodi.com/post/per-una-cartografia-dei-decenni-smarriti) ospiterà diversi contributi nell’ambito del progetto sui «decenni smarriti». Transuenze, tenuto conto di intersezioni e sconfinamenti, è dedicata a contributi su lavoro/soggettività e trasformazioni dell’economia, dunque dinamica capitalista, imprese e mercati. L’apporto ai «decenni smarriti» muoverà da questa prospettiva: qui intendiamo fornire una cornice introduttiva ai contributi che solleciteremo o che accoglieremo, focalizzati sugli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso (i «decenni del Post» - fordismo, industriale, moderno, ecc.).
Compito non semplice. Senza dilungarsi (come sarebbe necessario) sull’utilità del periodizzare e sul rapporto tra eventi simbolici e lunghe derive di trasformazione, i «decenni del Post» hanno effettivamente rappresentato una transizione tra regimi di accumulazione, assetti regolativi, geopolitici, tecnologici, produttivi, forme concrete del lavoro, rapporti tra le classi. Ma anche delle mentalità, della «cultura», della vita quotidiana, della rappresentanza politica e via di seguito. Proprio il carattere sistemico della transizione suggerirebbe uno sguardo olistico all’altezza di questo. Un lavoro del genere risponderebbe tuttavia (anche quando forzosamente contenuto ai «temi» del lavoro e dell’economia) ad un progetto di Enciclopedia, non alla decentrata esigenza di elaborare una cartografia di servizio ad «un’analisi genealogica, volta a individuare i nodi centrali nel presente, a riarmare il pensiero di fronte all’attualità», come indicato nell’articolo di lancio del progetto. Lontani da ogni velleità di indagine sistematica, il contributo che intendiamo portare sarà strutturato intorno ad alcuni paletti e delimitazioni di campo.
Quella cronologica è stata anticipata. Poco importa stabilire la simbolica data di inizio dei «decenni smarriti»: la realtà del capitalismo è in perenne movimento, secondo logiche che la striano e stratificano spazialmente e temporalmente. Gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, a seconda della variabile in esame, potrebbero essere visti i) come prolungamento o maturità di un ciclo capitalistico (il ciclo fordista o se si preferisce del capitalismo organizzato o regolato, ecc.) in esaurimento ma ancora in grado di strutturare la dialettica politica e sociale, ii) come preludio di un nuovo ciclo poi dispiegatosi o iii) come transizione da un paradigma declinante a uno solo oggi emergente e di cui si fatica a individuare le coordinate, una fase dotata però di specificità che ne giustificano l’analisi in quanto momento autonomo da ciò che lo ha preceduto ma forse anche da ciò che lo segue. Dipende, come si è detto, da cosa si pone al centro del discorso e non solo dalle lenti interpretative. Se guardassimo agli assetti geopolitici, ad esempio, dovrebbe prevalere la seconda opzione (non è poco quanto accadde tra il 1989 e il 1991!). Per la curvatura che intendiamo dare al discorso, preferiamo tuttavia un registro prossimo alla terza. Gli anni Ottanta e Novanta erano stati annunciati dalle cesure del decennio precedente (alla rinfusa e muovendosi tra diversi livelli della realtà sociale ed economica, eventi periodizzanti relativamente riconosciuti furono la fine degli accordi di Bretton Woods, il rapprochement tra Stati Uniti e Cina, lo shock petrolifero, l’apice delle lotte della classe operaia fordista), e del resto la seconda metà degli anni Settanta furono anche anni di ricerca proiettata «oltre Ford». Tuttavia le anticipazioni «postfordiste» – «oggettive» e «soggettive» – dei 70’s diventeranno pienamente visibili solo negli anni Ottanta e Novanta. La ricostruzione del lungo ’68 italiano consegnataci da Primo Moroni e Nanni Balestrini ne «L’orda d’oro» si chiudeva simbolicamente con i 35 giorni alla Fiat e la marcia dei sedicenti 40mila a Torino nel 1980 (città in cui fu davvero anno spartiacque). Dopo, anche se retrotopie comprensibili o meno hanno portato a lungo una parte dei militanti politici e sindacali a volgere lo sguardo verso i cumuli di macerie che si accumulavano alle spalle, non si poté più evitare di fare i conti con le trasformazioni ormai dispiegate dell’economia e del lavoro. E ci sembra appropriato, spingendoci oltre i «decenni dei post», individuare nella crisi del 2008 l’annuncio di una nuova discontinuità, che forse solo gli ultimi anni consentono di mettere a fuoco. In breve, per quanto lontani dal contingentismo (per cui dopo ciascun evento «nulla sarà come prima»), riteniamo vi siano fondate ragioni per una relativizzazione – per venire al punto – di parte delle letture con cui le soggettività politiche non sclerotizzate sul passato e la ricerca teorica avevano interpretato la nuova «grande trasformazione» degli anni Ottanta e Novanta.
Non meno importanti sono le coordinate spaziali e soggettive da cui si osserva. Un ipotetico lettore cinese (o magari argentino e forse anche slovacco) quasi certamente non riconoscerebbe questa periodizzazione, che crediamo viceversa dotata di senso per chi sia nato e viva in questa parte del mondo. Restringeremo l’obiettivo, situando questo scavare a ritroso perlopiù nel nostro paese. Una delimitazione problematica (non vi sono vere ragioni per distinguere un «caso italiano» e la maggioranza dei temi proposti sono trasversali almeno ai paesi a capitalismo maturo, tenuto conto di varietà regolative e istituzionali che certo non trascuriamo), ma anche necessaria sia per esigenze di sobrietà nella scelta degli argomenti sia di profondità nel trattarli, posizionandoli nella cornice del vivace dibattito che suscitarono. Dunque, concetti che riguardano trasformazioni generali del capitalismo, ma autori e testi perlopiù italiani.
La prospettiva soggettiva (che si rifletterà nella scelta dei concetti-chiave e degli autori da coinvolgere) non pretende di essere oggettiva. I «decenni del Post» saranno interrogati muovendo da una prospettiva militante, in cui istanze interpretative ed esigenze di analisi materialmente fondate si saldano senza soluzione di continuità con l’urgenza di elaborare macchine trasformative. Da qui la scelta dei temi e del modo di affrontarli. Senza pretesa di esaustività, abbiamo scelto alcune parole-chiave, corrispondenti ad altrettanti concetti abbinabili ad analisi, testi, autori che per diverse ragioni hanno avuto una parte nel forgiare rappresentazioni e immaginario dei militanti – o dei movimenti, o degli spazi di politicizzazione - dei decenni in esame.
Non c’è nulla di originale nella loro scelta, poiché questi concetti, perlopiù entrati nel dibattito proprio durante gli anni Ottanta e Novanta sono divenuti lessico corrente da molto tempo e forse qualcuno è già «invecchiato». All’epoca dei fatti, però, i temi indicati non erano acquisiti pacificamente e talvolta erano anzi oggetto di vivace confronto. Ciascuno di questi concetti incorpora una dimensione analitico-descrittiva e (quasi sempre) una dimensione «politica». Per maggiore chiarezza, laddove la prima riferisce di trasformazioni sistemiche, agite anzitutto dalla parte dominante anche come risposta e incorporazione nei propri dispositivi della critica (sociale e valoriale) e dei comportamenti dei subalterni, la seconda consisteva nella ricerca all’interno dei medesimi processi di spazi di formazione e innesco di contro-soggettivazione potenzialmente curvabile in una prospettiva di trasformazione/superamento del capitalismo.
A partire dagli anni Ottanta, si afferma la rappresentazione di una società post-industriale,già preconizzata (con significati e oggetti di attenzione tra loro differenti) da Alain Touraine e Daniel Bell. Laddove per il secondo si trattava di porre in luce lo spostamento dell’attività produttiva sui servizi e sulle sue figure sociali di riferimento, per il sociologo francese al centro è l’azione sociale nel trasformarsi dei rapporti sociali e di potere. Certamente, gli anni Ottanta sono gli anni del post-industrialismo, anche come ideologia che trascina nel post i concetti fondativi del conflitto e della politica del novecento (primo tra gli altri, le classi sociali intese nella fondazione materiale e come concetto politico). E non a caso un autore molto frequentato in queste pagine, Romano Alquati, replicava, in termini non reattivi, affermando che piuttosto era in corso una trasformazione iper-industriale della società. Il secondo concetto è postfordismo, termine fin troppo ampio e abusato, allora utilizzato tanto da quanti riducevano lo spettro dell’analisi alle trasformazioni dell’organizzazione produttiva quanto, a nostro avviso in senso più proprio, da coloro che (seguendo la «scuola della regolazione») con tale termine indicavano una prospettiva sistemica e istituzionale, che teneva insieme produzione e sistema regolativo. Con postfordismo si sono nominati tanti e diversi oggetti. Un aspetto peculiare, che rinvia ad una specificità italiana, è il postfordismo inteso come destrutturazione e distribuzione dell’organizzazione produttiva dalla «fabbrica al territorio», da taluni interpretato come semplice flessibilizzazione o variante dell’industrialismo fordista, da altri come nuovo paradigma. Su questi processi, che in Italia davano sottostante materiale a nuove forme di politicizzazione e di egemonia culturale a base territoriale. Per altri autori, lo stesso termine denominava le trasformazioni interne alla grande impresa e alla sua organizzazione; il concetto-chiave, qui, era toyotismo, in Italia affermatosi alla fine degli anni Ottanta che costringeva gli studi organizzativi (e i sindacalisti) a ripensare «al contrario» l’organizzazione del lavoro, muovendo dal cliente-consumatore per risalire a ritroso la catena del valore, verso principi di flessibilizzazione, commitment, snellezza, simultaneità, poi affermatisi nel management dei decenni successivi.
La cornice entro cui si riposizionavano era la cosiddetta globalizzazione, termine che si afferma in realtà solo negli anni Novanta, dopo il tracollo del blocco socialista. La nuova «globalizzazione», rispetto ai precedenti cicli di espansione e formazione dell’economia-mondo, poneva al centro la possibilità, tecnicamente data per la prima volta con il diffondersi degli standard internazionali, la razionalizzazione logistica e le nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione, di ridislocare la produzione in «catene globali del valore» al fine di sfruttare vantaggi di costo, regolativi, ambientali. Prendeva forma, per riprendere Castells, un nuovo «spazio dei flussi» corrispondente allo strato di vertice del capitalismo in ristrutturazione (finanza, big tech, imprese multinazionali, integratori logistici) che fondava la sua potenza su più sofisticate e intensive capacità di mettere al lavoro ed estrarre valore dai territori, dalla forza-lavoro globale, dal capitale fisso incorporato dai luoghi (materie prime, terra, spazio). Era questo il dato nuovo, a cui facevano contrappunto i movimenti per un’altra globalizzazione a cavallo del passaggio di millennio. Tema quantomai attuale, nell’apparente ritrarsi dei processi che (a cui alludono neologismi quali slowbalisation e de-globalizzazione) che segnalano l’incrinarsi degli assetti geopolitici che della globalizzazione di fine secolo erano stati pilastri, in primis l’asimmetrico e complementare rapporto tra Stati Uniti e Cina. Negli anni Novanta la nascita del world wide web afferma il paradigma sociale e tecnologico che abilita, l’idea di una nuova economia edella società in rete, di fatto concetti gemelli che, nella fase espansiva e di stato nascente di Internet, incorporavano un immaginario libertario e «no collar» che teneva insieme istanze antiburocratiche, di decentramento e diffusione di conoscenza e potere, neo-imprenditoria disruptive e impregnata di lessico anti-corporate, ma anche a pratiche partecipative e «pubblici produttivi» che nelle visioni più utopistiche potevano essere immaginate come basi di democratizzazione radicale e di esodo dalla «gabbia d’acciaio». Anche le ambivalenze della cultura Internet hanno progressivamente lasciato spazio, nell’ultimo decennio, a visioni meno edificanti se non distopiche, lungo un tragitto che partendo dalla «ricchezza della rete» approda al «capitalismo della sorveglianza» e delle «piattaforme» di comando sulla cooperazione e sul lavoro.
A queste trasformazioni corrispondevano anche quelle contestuali del lavoro; dagli anni Novanta, nelle traiettorie più dibattute, prevaleva la visione di una tendenza all’incremento del contenuto qualitativo, di autonomia e relazionalità, a fronte di una perdita di tutele, salario e del controllo e potere sulle condizioni generali della produzione. Le tendenze salienti del lavoro «postfordista» (usiamo il lessico del periodo) rinviavano ad alcuni grandi assi in cui, di nuovo, si combinavano descrizione analitica e istanze di possibile soggettivazione. Così, la tendenza alla precarizzazione dei rapporti di lavoro contestuale alla perdita di quote di salario (se non la de-salarizzazione tout court) conquistava il centro del dibattito sindacale, giuslavorista e della sociologia del lavoro. Il medesimo processo poteva tuttavia costituire anche una base per progettare nuove forme di azione collettiva di un precariato non vittimizzato, con istanze e immaginario assenti nel repertorio novecentesco del lavoro. La forte crescita, tra gli anni Settanta e Novanta del lavoro indipendente, costituì una delle più visibili trasformazioni della composizione sociale e base di processi di formazione dei ceti medi peculiare del nostro paese. In particolare, la crescita delle componenti professionali del lavoro autonomo, portatrici di valori e con condizioni materiali diverse dalle tre storiche del lavoro indipendente (lavoratori in proprio, liberi professionisti tutelati, piccola borghesia), alimentarono la ricerca e la sperimentazione su ciò che – sulla scorta dell’omonimo testo curato da Sergio Bologna e Andrea Fumagalli – iniziò a essere definito lavoro autonomo di seconda generazione. Le trasformazioni della composizione «tecnica» del lavoro, con la resistibile crescita degli strati di lavoratori istruiti e dotati di conoscenze più complesse o creative (e, dunque, la formazione già preconizzata negli anni Settanta di una intellettualità di massa), unitamente alla crescita nei nuovi movimenti (con una parte rilevante nelle occupazioni universitarie del 1990, il movimento della «Pantera») delle corrispondenti figure sociali, favorì l’elaborazione teorica che precipitò intorno ai concetti, per molti aspetti sovrapponibili, di lavoro immateriale e lavoro cognitivo. Non si trattava, anche in questo caso, di registrare unicamente la crescita quantitativa dei «lavoratori della conoscenza», quanto del tentativo di leggere una tendenza nel lavoro vivo e nel modo di produzione all’altezza del nuovo stadio dello sviluppo capitalistico. Una tendenza contradditoria e ambivalente verso l’egemonia del lavoro cognitivo, in processi di cooperazione più autonomi dal comando capitalistico almeno nei cicli della produzione immateriale, in cui il capitale-mezzi era costituito in gran parte dalle capacità intellettuali incorporate dal lavoro. E dunque, una potenza inedita dell’intelligenza collettiva, ad un tempo motore primario dell’innovazione capitalistica ma – in potenza – della liberazione dal comando del capitale. Ulteriore tendenza, anch’essa ambivalente, i processi di femminilizzazione del lavoro che, di nuovo, si fondavano su una base empirica costituita dalla forte crescita, a partire dagli anni Settanta, della partecipazione delle donne al mercato del lavoro - anche in un paese che su questo piano vedeva e vede tuttora uno svantaggio strutturato – che metteva in crisi l’architettura del settore riproduttivo basato sullo sfruttamento del lavoro gratuito delle donne. Su un altro versante (vedi il contributo di Cristina Morini, www.machina-deriveapprodi.com/post/lo-sguardo-delle-donne-sul-lavoro-tra-gli-anni-settanta-e-i-duemila-una-sintesi-retrospettiva), la femminilizzazione indicava una corrispondenza tra contenuto più frequentemente immateriale e relazionale delle prestazioni di lavoro nella produzione postfordista e «qualità socio-culturali del “femminile”»; e dunque di una «messa a profitto nella sua capacità di creare relazione, nel piano della creatività e della rigenerazione (sempre vitale) dei rapporti, nell'attitudine all’ascolto».
Altri concetti-chiave sono qui stati intenzionalmente esclusi (ad es. neoliberismo), mentre altri («svolta finanziaria» o «finanzcapitalismo»; lavoro migrante; ecc.) saranno ripresi nella seconda parte dell’approfondimento sui «decenni smarriti», gli anni Duemila, nei quali peraltro la riflessione sulle categorie suesposte proseguì e si affinò. Siamo consci di avere scelto (intenzionalmente) concetti fin troppo generici o abusati, nella formulazione che usavamo all’epoca dei fatti. Inediti o riediti che fossero, per le generazioni politiche di quegli anni, la riflessione intorno a queste (e ovviamente altre) categorie, fornì una costellazione relativamente coerente che alcune minoranze usarono nel tentativo di armare la critica e la pratica organizzazione di istanze rinnovate di conflitto e rottura. Senza infingimenti: tornare oggi sugli stessi concetti implica verificarne la tenuta ovvero l’invecchiamento. Non è tuttavia di abiure intellettuali né di rivendicazioni di continuità teorica che siamo alla ricerca. Si tratta semmai, così abbiamo inteso la sfida del progetto sui «decenni smarriti» di sottrarre le tracce e i nuclei ancora vitali di quelle ipotesi di rinnovamento teorico e delle correlate sfide politiche, alla fatidica critica roditrice dei topi, causa eccesso di schiacciamento sul presente o ansia di denominare il nuovo. In altri termini, di dare respiro di medio periodo a quelle riflessioni sottraendole alla contingenza. Le ricostruzioni prive di profondità temporale hanno di norma orizzonte breve. Occorre dunque recuperare il senso del rapporto tra passato e futuro non imprigionando quelle elaborazioni nello sguardo contingente del periodo. È per noi, questo metodo, anche antidoto verso la (questa sì, postmoderna) nostalgia conservatrice verso passati mitici forse mai esistiti, come verso la velleitaria futurologia senza radici. E i giorni nostri, in cui proliferano sia i richiami a mondi perduti immaginifici sia le visioni che imprigionano il presente in un futuro già scritto da ChatGPT e replicanti vari, ci sembra mostri di quanto ve ne sia bisogno. Il trionfo dell’emergenza, la semantica della «permacrisi» di cui siamo impregnati, richiede una postura sottratta al «presentismo» e attenta a rintracciare nessi, genealogie, tendenze alla ricerca di un «medio raggio» in cui posizionare il lavoro teorico e di analisi. Ovviamente, non sarà lo scavare nei «decenni smarriti» di Machina a realizzare questo programma; è tuttavia questa la postura con cui ci piacerebbe intraprendere questo percorso.
Dietro ai concetti succintamente e in modo sicuramente parziale sopra esposti, vi sono autori, ricerca, sperimentazione politica, testi. Da qui il nostro proposito: sollecitare alcuni dei protagonisti di quelle elaborazioni e di quei testi a ritornare sui propri passi, riprendendo le fila del ragionamento riportandolo al presente. Non necessariamente gli autori cui ci rivolgeremo saranno i più rappresentativi e i testi proposti come base di riflessione retrospettiva e prospettica i migliori o i più influenti. Saranno però, almeno, esemplificativi e sufficientemente pertinenti rispetto alle categorie indicate. A ciascuno degli autori contattati, saranno rivolti gli interrogativi (opportunamente adattati e integrati) sotto riportati.
La genesi della riflessione che ha portato l’autore (il gruppo, la rivista, ecc.) alle elaborazioni oggetto di approfondimenti: perché quel libro? Qual era il processo materiale, la tendenza che intendeva portare alla luce e perché era ritenuta importante?
Quali erano (negli anni in cui il testo venne elaborato) le potenziali implicazioni «politiche» o comunque inerenti l’azione collettiva, la soggettività, le ipotesi di trasformazione, sottese alla proposta teorica e conoscitiva pubblicata?
Vi sono state riflessioni successive che hanno portato a confermare o rivedere le tesi espresse? Quali riflessioni teoriche, quali verifiche empiriche, quali trasformazioni del contesto hanno spinto questa revisione?
A distanza di venti-trenta anni, per quali aspetti ritiene ancora attuali le ipotesi e proposte teoriche avanzate all’epoca? Quali previsioni, scommesse si sono rivelate «bersagli centrati»? Per quali ragioni?
Per quali aspetti, viceversa, ritiene che le stesse siano «invecchiate» o almeno in parte superate e non più riproponibili? Per quali ragioni?
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