
Il filosofo della tecnica Bernard Stiegler ha disseminato nei suoi scritti una teoria del desiderio profondamente radicata nel comportamento tecnico dell’essere umano. Tale teoria porta con sé un importante avvetimento sul futuro della politica e del vivere comune. In questo contributo di Diego Chece, si evidenziano alcuni aspetti rilevanti.
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A una lettura superficiale, l’eredità della filosofia di Bernard Stiegler risulta quantomeno paradossale: una carriera iniziata mettendo in luce l’importanza fondamentale della tecnica nel processo di formazione dell’umano – tanto da definire umano e tecnica come elementi che si co-costituiscono (argomentazione che emerge soprattutto dal primo volume de La tecnica e il tempo) –, nel suo prosieguo ha articolato una critica, sempre più aspra, dell’orizzonte tecnologico contemporaneo, espressa in formule come miseria simbolica, società automatica, bêtise, entropocene e così via. A una lettura più approfondita, invece, tale paradosso si esprime in maniera differente: nella sua filosofia, Stiegler riesce a porre le basi per una critica della tecnologia che non sia un semplice rifiuto di questa, bensì sia radicata nella consapevolezza che non possiamo farne a meno. O, in altre parole, che la tecnologia è pienamente parte di noi, delle nostre società, dei modi di pensare e agire, della nostra memoria e della nostra cognizione. Su tale sfondo, criticare una tecnologia diviene il primo passo per prendersi cura dell’ambiente di vita nel suo complesso tecnico, sociale e individuale.
Uno dei possibili percorsi da seguire per comprendere la via indicata da Stiegler, consiste nell’evidenziare quanta parte della sua filosofia consista in un’elaborazione del rapporto che intercorre fra tecnica e desiderio, analizzato alla luce delle trasformazioni tecnologiche e politiche cui il filosofo francese ha assistito nel corso della sua vita. Sono frequenti, infatti, i testi e gli articoli che prendono spunto dalla situazione politica (ad es. l’affermazione del Front National alle elezioni francesi del 2002, punto di svolta per i due tomi de La miseria simbolica), da fatti di cronaca (gli omicidi commessi da Richard Durn al consiglio municipale di Nanterre, analizzati in Amare, amarsi, amarci) o dall’affermazione di determinate tecnologie (l’esplosione di Facebook analizzata nell’articolo Five Hundred Million Friends: The Pharmacology of Friendship del 2012). Tali spunti sono stati di sovente motivo di rielaborazione del pensiero stiegleriano, inciampi e ostacoli decisivi per la direzione del cammino speculativo. Cercherò, in questo breve contributo, di ricostruire alcuni punti salienti della teoria stiegleriana del desiderio, mostrando come sia imprescindibile da una articolazione di questo con la tecnica.
Il tentativo di Stiegler, coerente con la sua filosofia, consiste nel pensare il desiderio da una prospettiva organologica, ovvero dalla prospettiva di un’intersezione necessaria fra tre tipologie di organi: organi fisiologici, organi tecnici, organizzazioni sociali. In altre parole, osservare il fenomeno in una dimensione che tenga conto del reciproco formarsi dei meccanismi anatomico-fisiologici (di cui la cognizione è l’aspetto più evidente), della tecnologia e del modo in cui gli esseri umani vivono in comunità. La tecnica, in questa tripartizione, ha un ruolo fondamentale, perché è il «processo attraverso il quale il desiderio si costituisce come difetto d’origine (défaut d’origine), ossia il processo che causa, in maniera costitutiva, il fare difetto (faire-défaut) dell’oggetto desiderato [c.d.a.]»[1]. Per comprendere la complessa citazione stiegleriana, sono necessarie almeno due precisazioni, per quanto stringate:
1. Per défaut d’origine, il filosofo intende il fatto che la natura umana è tecnica sin dal primo momento, ovvero: la tecnica, lungi dall’essere un mero supplemento, è ciò che costituisce la natura umana. Natura che tende a snaturarsi, a de-naturalizzarsi attraverso la produzione e l’utilizzo di strumenti tecnici. Tale azione, inoltre, non è una semplice aggiunta, bensì ciò che produce l’essere umano, che viene prodotto esattamente nel momento in cui agisce tecnicamente. Da questa prospettiva, diviene estremamente difficile vedere una netta distinzione dei ruoli fra il chi e il cosa della produzione tecnica: di qui l’utilizzo eterodosso del concetto derridiano di différance[2], in cui il difetto d’origine è, al contempo, espressione del difetto anatomico che caratterizza la specie umana e difetto di un’origine vera e propria del comportamento tecnico, poiché quest’ultimo non deriva dal risarcimento del difetto anatomico – mitizzato nelle vicende di Prometeo ed Epimeteo –, bensì è consustanziale a esso: «Frutto di una doppia colpa – una svista e poi un furto – sono nudi come animaletti prematuri, senza pelo né zanne, arrivati presto, come in anticipo, e anche troppo tardi (non ci sono più qualità, tutto è già stato distribuito). Non possiedono ancora l’arte della politica che sarà richiesta dalla loro prematurità, che procederà dalla tecnica. Ma questo ‘non ancora’ non significa che ci saranno due colpi, un momento di piena origine seguito da una caduta: all’origine ci sarà stato solo il difetto, che è appunto il difetto d’origine e l’origine come difetto. Ci sarà stata solo un’apparizione della scomparsa. Tutto questo sarà avvenuto in una sola volta [corsivo mio]»[3].
2. La seconda precisazione concerne la questione inerente la tecnica come ciò che causa il fare difetto dell’oggetto desiderato. La prospettiva di Stiegler si discosta nettamente da un’interpretazione immediata e potenzialmente fuorviante: il fatto che il desiderio abbia una costituzione tecnica, non implica che questa sia il mezzo attraverso cui si producono oggetti atti a colmare una presunta mancanza. Al contrario, tale lettura rappresenta una distorsione del rapporto tra tecnica e desiderio. Tuttavia, la diffusione di questo fraintendimento suggerisce la presenza di un modello di pensiero profondamente radicato nella nostra tradizione culturale, segnando un elemento significativo del nostro immaginario collettivo. Nel senso comune, infatti, il desiderio è spesso inteso come una condizione di mera mancanza, concepita specificamente in relazione a un oggetto: da qui l’espressione oggetto del desiderio. Di conseguenza, affermare che il desiderio ha una costituzione tecnica può indurre a credere che la tecnica operi con l’obiettivo di produrre oggetti capaci di soddisfarlo. Tuttavia, una simile conclusione si scontra con un’evidenza altrettanto immediata: l’accumulo di beni non determina un incremento proporzionale della soddisfazione, e anzi, spesso produce l’effetto opposto. Questa riflessione trova un’importante conferma nel pensiero di Jacques Lacan, in particolare nella sua conferenza del 1972 sul discorso del capitalista[4]. Molto in breve, Lacan evidenzia come la produzione tecnologico-industriale di beni destinati al consumo non solo non riesca a soddisfare il desiderio – che, per sua natura, resta inappagabile – ma finisca per erodere i legami sociali, alimentando l’illusione che la felicità sia accessibile attraverso il possesso e il consumo di oggetti sempre diversi. Senza entrare nel dettaglio della teoria lacaniana, è utile sottolineare un elemento chiave che emerge anche nel pensiero di Stiegler: la soddisfazione del desiderio è strutturalmente posticipata, poiché il suo autentico oggetto rimane irraggiungibile.
Fatte le due dovute precisazioni, è possibile ora affermare che il desiderio nasce necessariamente da un contesto tecnologico e politico, di cui, al contempo, è il motore fondamentale. L’idea stiegleriana, benché profondamente innovativa e radicata in una filosofia della tecnica, eredita le caratteristiche principali del desiderio dalla tradizione psicoanalitica. In particolare, i concetti di rifunzionalizzazione e sublimazione dell’energia pulsionale consistono in una rielaborazione, per alcuni aspetti radicalizzata, dell’eredità freudiana. La tecnica, infatti, viene a porsi come condizione della rifunzionalizzazione dell’energia pulsionale: nel comportamento tecnico, infatti, l’energia libidinale, oltre ad essere diretta verso gli organi anatomici (come per le altre specie animali), viene deviata e differita – rifunzionalizzata – anche verso gli organi sociali e tecnici. Dunque, la rifunzionalizzazione dell’energia sessuale è organologica, perché tecnica e sociale.
La rifunzionalizzazione della gestualità e degli organi anatomici conseguente l’utilizzo di apparecchi tecnologici esprime la rifunzionalizzazione attraverso una doppia polarità: il polo della defunzionalizzazione, che risiede nella ridotta capacità di eseguire il gesto naturale correlata all’introduzione del gesto tecnico, e il polo della rifunzionalizzazione vera e propria. La mano che, con la stazione eretta, abbandona la funzione motrice, divenendo fabbricatrice, è un esempio chiaro della defunzionalizzazione (riduzione della capacità motoria)/rifunzionalizzazione (aumento della capacità di lavorare le selci). In quest’ottica, vediamo come «le riassegnazioni canalizzano le energie dell’ «economia libidinale» che ne risulta, create da questa defunzionalizzazione. Perché se la libido non è la pulsione sessuale, ma il desiderio in quanto capace di deviare la sua energia verso oggetti non sessuali, ciò è possibile solo nella misura in cui la defunzionalizzazione, alla base di ciò che Freud chiama la rimozione organica, permette l’amovibilità degli oggetti tecnici, condizionando essa stessa quello che chiamo il processo di adozione»[5].
Per quanto riguarda la sublimazione, l’interpretazione stiegleriana la conduce a essere, sotto molti aspetti, sovrapponibile al desiderio. Infatti, è solo attraverso di essa che è possibile desiderare, ovvero aprire nuovi spazi di possibilità verso il futuro, immaginando – e progettando – pratiche, usi, rapporti, che non siano semplici reiterazioni instupidite del presente. In questo caso, l’operazione stiegleriana consiste nell’appropriarsi, a suo modo, del concetto freudiano di pulsione, radicalizzandolo e rendendolo la pietra angolare nella costruzione del desiderio. La sublimazione, in prima istanza, consiste nella deviazione della spinta pulsionale, che dagli oggetti sessuali e anatomici deve dirigersi verso gli oggetti propri della vita comune. L’attenzione e la spinta dinamica, date dalla pulsione, devono cioè essere catturate, deviate e differite verso degli oggetti differenti da quelli immediatamente anatomici, acquisendo una temporalità che sia apertura verso il futuro anziché immediata soddisfazione. Dunque, verso la costituzione socio-tecnica delle società, verso l’arte, la politica, l’amicizia, il lavoro e così via. È così che la pulsione, situandosi nell’orizzonte delle tecnologie, della società, delle altre persone, incontra il presente – e il passato – costituito socio-tecnicamente della specie, per orientarsi e attualizzarsi verso un futuro, per trasformarsi cioè in desiderio.
La sublimazione delle pulsioni, inoltre, per Stiegler è ciò che rende possibile la produzione e la conservazione delle memorie esterne, ovvero di ciò che primariamente e costitutivamente caratterizza gli esseri umani e le loro società. Deviando la spinta pulsionale verso oggetti sociali e verso il differimento, la sublimazione ha così permesso tanto la produzione del saper-fare e della conoscenza, quanto la loro temporalizzazione: «La questione del sapere in generale, sotto tutte le sue forme, fra cui la conoscenza, che è un caso che appare solo con la grammatizzazione, è la questione della sublimazione in quanto essa presuppone una defunzionalizzazione e una rifunzionalizzazione del vivente organico, essa stessa indotta dall’apparizione degli organi morti che sono gli oggetti tecnici»[6].
Il desiderio consiste, dunque, nella versione denaturalizzata e temporalizzata della pulsione; nella versione artificiale e inorganica di un’energia naturale e organica. La questione consiste, dunque, nell’intendere la pulsione come l’energia dinamica del desiderio. Quest’ultimo, infatti, per attuarsi deve giocoforzalavorare le pulsioni, trasformandole «in socialità, in sublimità, in infinità – in un’energia infinita e superiore» [7]. È, dunque, la sublimazione a porsi come conditio sine qua non, tanto del legame sociale, quanto della produzione dello sfondo tecnico. È per questa serie di motivazioni che la sublimazione viene quasi a sovrapporsi con il concetto stesso di desiderio, come afferma lo stesso Stiegler in un’intervista: «La sublimazione è il desiderio in sé: se Freud esita su questo punto, lo afferma comunque dicendo che l’amore si sublima nell’idealizzazione. Non c’è amore senza idealizzazione e non c’è idealizzazione senza sublimazione. La sublimazione non è questione di divieto ma di vincolo: è questione di impegno e fedeltà [corsivo mio]»[8].
Alla luce di tali considerazioni, sembra maggiormente chiaro il tono di molti dei testi di Stiegler riguardo i pericoli delle tecnologie contemporanee, in particolare del digitale. Molto in breve, le tecnologie digitali, in special modo quando attuate attraverso una regolazione algoritmica automatizzata, tendono a precludere la possibilità di immaginare un futuro, la possibilità cioè di sublimare le pulsioni rendendole desiderio, poiché lavorano nella reiterazione – su base statistica – degli impulsi precedenti, calcolati e previsti in virtù dell’enorme quantitativo di dati estraibili dalle attività on line. In sostanza, i contenuti dei reel, gli annunci pubblicitari, i luoghi di interesse segnalati su maps, dipendono tutti da calcoli automatizzati basati sui dati estratti precedentemente dalle attività di milioni di utenti. Tale modalità di funzionamento, è evidente, è influenzata e programmata in virtù del guadagno delle aziende-piattaforme che possiedono gli spazi d’azione digitali. Il mix fra il funzionamento del digitale, in quanto tecnologia che riesce a prevedere e incanalare i comportamenti, e la sua estensione organologica, ovvero l’implementazione della tecnologia in funzione di guadagni privati, produce, secondo Stiegler, un immiserimento collettivo e una diffusa incapacità di desiderare. Se pensiamo a quanto detto finora, tali preoccupazioni sono più che giustificate: se il desiderio è progetto, apertura del futuro, che deve avvenire necessariamente attraverso la capacità di innovare e immaginare dinamiche alternative del complesso psichico-tecnico-sociale, l’orizzonte prodotto attraverso le tecnologie digitali non può che tendere alla reiterazione automatizzata del calcolabile. Cioè, per dirlo nei termini psicoanalitici introdotti poc’anzi, la società delle piattaforme, lavorando nella produzione di meccanismi che impediscono la dinamica della sublimazione, non può che reiterare un instupidito soddisfacimento pulsionale.
A ben guardare, l’avvertimento stiegleriano è profondamente politico proprio perché giunge da una prospettiva che non può, per la sua stessa filosofia, essere meramente pessimista – o apocalittica – nei confronti della tecnologia. La sua filosofia, infatti, come ho provato ad accennare, assegna alla tecnica un ruolo fondamentale nell’emersione dell’umano, pensando appunto tecnica e umano come elementi che si costituiscono reciprocamente. Per i suoi stessi fondamenti ontologici, tale filosofia può portare, ed è esattamente quello che ha fatto Stiegler, una prospettiva critica su alcuni aspetti della tecnologia. Riesce a farlo perché riconosce, sin dal primo momento, l’ambivalenza della tecnica – pensata come pharmakon – e, al contempo, perché la pensa come componente organologica, dunque tutto fuorché un elemento separato dall’organizzazione socio-economica. È questo un punto importante: l’avvertimento, seppur possa assumere toni apocalittici, non deve essere inteso in senso strettamente negativo nei confronti della tecnologia in sé, bensì del complesso che questa produce – e da cui è reciprocamente prodotta – nell’orizzonte organologico. In altre parole, occorre guardare alla dinamica su cui una determinata tecnologia si innesta con uno sguardo che tenga conto, fino in fondo, delle altre componenti in gioco.
Dunque, non si può semplicemente affermare che il digitale stia uccidendo la politica, l’immaginazione o il desiderio (o che tale operazione verrà effettuata dall’intelligenza artificiale), ma tale lettura deve essere accompagnata dalla consapevolezza che la dinamica è molto più complessa e ciascuno degli elementi in gioco concorre al risultato. Infatti, il bersaglio principale della critica, lungi dall’essere la tecnologia in sé, è la cornice socio-economica che contribuisce a creare. Tale cornice, in virtù della con-stituzione di umano, tecnica e società, è estremamente pericolosa per tutti gli attori. L’unica maniera per prendersene cura, consiste nel modificarla, aprendo nuove sentieri (Bifourquer) grazie alla forza innovativa del desiderio.
[1] Stiegler B., Mécréance et discrédit, 3. L’esprit perdu du capitalisme, Galilée, Paris 2006, pp. 61-62 (traduzione mia).
[2] « La différance non è né il chi né il cosa, ma la loro co-possibilità, il movimento della loro reciproca venuta, della loro convenzione. Chi non è nulla senza cosa – e viceversa. La différance, essendo al di qua e al di là del chi e del cosa, li pone insieme, dando l’illusione di un’opposizione. Questo passaggio è un miraggio: quello della corteccia nella selce è un protostadio dello specchio. Tale protomiraggio è l’inizio paradossale e aporetico dell’esteriorizzazione. Si svolge tra lo Zinjantropo e il Neantropo durante le centinaia di migliaia di anni in cui inizia il lavoro della selce, un incontro della materia in cui si riflette la corteccia. Si riflette, come in una psyche minerale, una modalità archeologica o paleo-logica di riflessività, tenebrosa, sepolta, come l’emergere lentamente dall’ombra, come da un blocco di marmo, di una statua. Il paradosso è che dobbiamo parlare di esteriorizzazione anche se non c’è un interno che la precede: esso si costituisce nell’esteriorizzazione». Stiegler B., La tecnica e il tempo - vol. 1. La colpa di Epimeteo, tr. it. a cura di Vignola P., Luiss University press, Roma 2023, p.184.
[3] Ivi, p. 228.
[4] Cfr. Lacan J., Lacan in Italia (1953-1978), La salamandra, Milano 1990. È bene ricordare che, nella teoria di Lacan, i discorsi sono, sostanzialmente, le strutture di organizzazione del legame sociale, fondate sulla dinamica del desiderio; cfr. Lacan J., Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970), Einaudi, Torino 2001.
[5] Stiegler B., Pensare, curare. Riflessioni sul pensiero nell’epoca della post-verità, tr. it. a cura di Gruppo Ippolita, Meltemi, Milano 2024, p. 162.
[6] Stiegler B., La miseria simbolica 2. La catastrofe del sensibile, tr. it. Corda R., Meltemi, Milano 2022, p. 179.
[7]Stiegler B., Bissonette J.-F., De l’industrialisation du mal-être à la renaissance du politique. Un entretien avec Bernard Stiegler, in «Symposium», 2010 (2), 14, p. 92 (traduzione mia).
[8]Stiegler B., Ghislain Deslandes G., Paltrinieri L., Entretien avec Bernard Stiegler, in “Rue Descartes”, 2016 (4), 91, pp. 119-140 (traduzione mia).
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Diego Chece è dottorando in Medium e Medialità presso l’università eCampus. Si occupa principalmente delle trasformazioni etiche e sociali delle tecnologie digitali.
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