Non si può capire l'Italia degli anni Novanta senza Berlusconi; non si può capire Berlusconi senza l'impatto che ha avuto nel mondo del calcio.
O come ci dice Pippo Russo nel nuovo articolo settimanale per «agon»: cambiare il calcio per cambiare l'italianità.
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Esistono secoli brevi ma anche decenni sterminati. Entrambi trovano il punto d’intersezione nell’ultimo ventennio del XX secolo italiano, e un’espressione antropomorfica in un soggetto che ha cambiato nel profondo le categorie fondanti dell’italianità: Silvio Berlusconi. Personaggio che deve suscitare in ciascuno di noi un atto di consapevolezza, che per molti è anche di arrendimento; perché ci costringe a ammettere quanto costui ci ha cambiato. Berlusconi è stato un fenomeno culturale, allo stesso modo in cui il berlusconismo è stato un modo di essere che ha riplasmato l’italianità e le ha tracciato una via verso la modernizzazione. E si badi bene che la considerazione appena enunciata ha carattere soltanto descrittivo, non certo valutativo. Perché qui non si tratta di specificare se il berlusconimo sia stato un bene o un male per il paese (ché non serve nemmeno dirlo, quale devastazione ne sia derivata), ma di riconoscere che esso ci ha trasformati. Tutti. Silvio Berlusconi ci ha cambiato la testa. Lo ha fatto in un modo che magistralmente è stato descritto da Nanni Moretti in alcune sequenze de «Il Caimano». Soprattutto in quel passaggio in cui gli si fa dire che con le sue televisioni ha scardinato un mediascape italiano composto da due canali televisivi di Stato dal tono ingessato e stancamente pedagogico, ancora di fatto in bianco e nero nonostante la recente diffusione delle trasmissioni a colori; e invece lui regalava agli italiani «la tv che vogliono», fatta di spensieratezza e disimpegno, «colorata» nelle sue fibre più profonde. Ma soprattutto, nel film di Moretti, è di fortissimo impatto quella scena dai toni felliniani che descrive il raduno precampionato del primo Milan berlusconizzato (estate 1986), con atterraggio in elicottero sul prato dell’Arena di Milano mentre l’impianto audio diffondeva le note della «Cavalcata delle Valchirie». Tutti dettagli veri, tutto realmente accaduto e non certo invenzione cinematografica.
Quest’ultimo frammento di berlusconismo, legato alla sua dimensione calcistica, è cruciale per comprendere il fenomeno, e per cogliere lo spirito del decennio lungo incardinato nel secolo breve. In un paese dove il calcio è da sempre l’autobiografia della nazione, Berlusconi ha convertito il passatempo nazionale una killer app. Lo strumento infallibile per costruire la leadership carismatica e spenderla dentro un’arena politica che nel frattempo era stata ridisegnata a sua misura, il ridotto di uno spirito del tempo nuovo cui pienamente Berlusconi si era allineato.
Ideologia dell’innovazione a tutti i costi
Un modo alternativo di concepire l’industria culturale. È stata questa la strategia di Silvio Berlusconi, sin dai primi passi della sua scalata verso l’egemonia. Perché esattamente di questo si è trattato: una lunga partita per la conquista dell’egemonia, di una posizione dominante nella produzione delle strutture valoriali, delle rappresentazioni sociali dominanti, delle categorie interpretative diffuse, delle visioni di società, fino a arrivare a stereotipi e luoghi comuni che sono merce simbolicamente indispensabile per il nostro pensarci come individui calati all’interno di un ordine sociale.
Si fosse trattato soltanto di un progetto per la conquista del potere economico e poi del potere politico, non avremmo assistito a una parabola del genere. Avremmo fatto un’esperienza molto più contenuta (macerie comprese) del personaggio Silvio Berlusconi. Soprattutto, non avremmo conosciuto il berlusconismo.
E invece, proprio perché era l’egemonia il vero oggetto del contendere, le cose sono andate nel modo che conosciamo. Con tanto di funerali di Stato, e poi di francobollo commemorativo. Due sigilli di solennità che certificano la riuscita del progetto culturale. Un progetto che non a caso si è deciso di etichettare, poco sopra, come «partita». Perché, dopo l’affermazione come imprenditore della cultura che ridisegna il panorama mediatico nazionale, il fondatore di Fininvest si lancia nel mondo del calcio con un solo obiettivo da realizzare: vincere. Un imperativo da affermare non soltanto sul campo, ciò che sarebbe missione persin banale. Piuttosto, c’è da vincere a tutto campo. Non limitarsi a domesticare sui campi da gioco una molteplicità di variabili aleatorie, pressoché impossibili da ricondurre entro i binari del controllo e della pianificazione. C’è da andare oltre. E imporre uno stile, una mentalità, un linguaggio e un’estetica che parlino di innovazione. Fin quasi a diventare paranoia. Berlusconi ha ben chiara questa idea quando decide di comprare un Milan sull’orlo del fallimento dall’imprenditore vicentino Giussy Farina. E in seguito molto si speculerà sulle condizioni che portano a quel passaggio di proprietà; così come sull’ipotesi che, prima di comprare la società rossonera, il signor Fininvest ci abbia provato con l’Inter. Versioni inverificabili. Tanto più che, proprio con l’avvento del berlusconismo, viene messa in moto una macchina per la ricostruzione dei passati che, di volta in volta, vede il leader calcistico narrato come se fosse rossonero già in fasce, e molto più avanti il leader politico che racconta di quando, assieme al padre, visitava il cimitero dei soldati americani caduti in guerra.
L’innovazione berlusconiana nel calcio era cominciata già con l’inizio degli anni Ottanta, quando Canale 5 aveva comprato i diritti televisivi del Mundialito disputato in Uruguay. Da lì si erano succeduti giorni di dramma nazionale, poiché c’era la prospettiva che due partite dell’Italia allenata da Enzo Bearzot non venissero trasmesse dalla Rai e dunque non fossero visibili alla nazione intera. Ovviamente una soluzione di compromesso è stata poi trovata, ma intanto un segnale era stato inviato e lasciava una traccia: si inaugurava l’epoca della concorrenza nel mercato dei diritti televisivi.
Cambiare il calcio, cambiare l’italianità
Ciò che viene sperimentato nei giorni a cavallo tra la fine del 1980 e l’inizio del 1981 è una prima espressione di innovazione. Altre ne seguiranno e investiranno il mondo del calcio italiano in tutte le sue dimensioni. La dimensione comunicativa, innanzitutto. Che vede il Milan trasformato in un partito-azienda, un mix di modernità e paternalismo che fa del leader una figura a tutto campo. Berlusconi interviene sulla comunicazione e sull’immagine, detta la filosofia del gioco e pretende di entrare nell’ambito delle scelte tecniche. Gioca anche a fare il consigliere dei calciatori, arrivando a vantarsi di averli guidati nelle scelte di investimento del patrimonio personale o persino di indirizzarne le scelte nella vita privata e sentimentale, con convincimento a «lasciar perdere quella ragazza lì, che non è la donna giusta per te». Racconterà anche di queste amenità, quando nella fase declinante della sua leadership (ma anche della lucidità mentale) si presterà a interviste più compiacenti del solito, congegnate per pilotare la storicizzazione di se stesso – ultimo passaggio del progetto di costruzione dell’egemonia. Ma conoscendo il personaggio, c’è da ritenere che certa aneddotica corrisponda al vero.
A ogni modo, nella prima fase successiva all’ingresso nel mondo del calcio il focus del progetto egemonico è completamente orientato sul Milan, sullo sforzo di fare della squadra rossonera il manifesto di un’idea di innovazione il cui significato vada oltre l’ambito calcistico. Ma intanto è proprio nell’ambito calcistico che bisogna mantenere la barra. Lì Silvio Berlusconi trova un perfetto esecutore del piano egemonico, l’Utile Io che possedesse il giusto grado di furore mistico per sposare una missione da interpretarsi con spirito millenarista: Arrigo Sacchi.
In quell’epoca storica l’allenatore di Fusignano è il perfetto interprete dello zelo modernizzatore predicato dal suo datore di lavoro. Ha opportunità di farlo grazie a una serie di fattori concomitanti: certamente le abilità personali, che gli sono state riconosciute anche da chi ne ha denunciato gli integralismi; altrettanto indiscutibile è che l’allenatore romagnolo si giovi di un gruppo di calciatori fra i più forti al mondo, ciò che molto gli agevola la missione; ma è soprattutto lo sfondo storico a fare la differenza. Un fattore, quest’ultimo, che più degli altri due necessita di approfondimento.
Il calcio italiano degli Anni Ottanta è già attraversato da una contrapposizione fra l’interpretazione tradizionale «a uomo» e l’interpretazione innovativa «a zona». Tale contrapposizione è stata vissuta anche in altri paesi calcisticamente rilevanti, e sempre è stata elaborata come il confronto fra due idee di calcio rispetto alle quali si tratta di scegliere quale sia la più efficace e funzionale. Invece in Italia la contrapposizione è vissuta come una guerra di religione, narrata alla stregua di una contrapposizione fra un italianismo becero e antimoderno e un neo-italianismo novatore. Questa contrapposizione è avviata proprio con l’avvento del sacchismo. Fino a quel momento, le rare squadre che in Italia applicavano la zona erano viste come simpatiche anomalie, cui peraltro veniva associata (con estremo gusto per la mistificazione) un’idea di calcio esteticamente superiore. Ma da Sacchi (e dal suo Milan) in poi la contrapposizione è stata rappresentata, da parte dei predicatori della zona, come una missione per la creazione di una neo-italianità calcistica. Una cosa più al passo coi tempi e con le necessità modernizzatrici di un movimento calcistico nazionale che era già grande – il più grande al mondo – in termini di forza tecnica e economica, ma veniva anche tratteggiato come refrattario a compiere il salto verso la sua massima realizzazione. I successi di quel Milan, raggiunti grazie alla proposta di un calcio che davvero è stato rivoluzionario, sono stati accompagnati da una macchina propagandistica che faceva della squadra rossonera un emblema di un’italianità diversa. Portatrice di una missione neo-civilizzatrice del calcio le cui implicazioni non potevano non avere ripercussioni al di fuori del calcio. E su questo tema lo stesso Sacchi insisterà a più riprese negli anni seguenti, ormai diventato macchietta di se stesso. Soffermarsi a valutare questa pretesa di avere incarnato una svolta epocale ci porterebbe troppo lontano. Meglio limitarsi a una considerazione: in Italia il calcio è sempre stato la politica proseguita con altri mezzi, e invece in quel momento storico è stato politica anticipata con altri mezzi.
Prigionieri di uno Spirito Ottantesco
Quando nel 1994 il cavalier Silvio Berlusconi decide di avviare l’impegno politico, lo fa pescando a piene mani nel linguaggio calcistico: dalla discesa in campo, all’appellativo di «azzurri» per etichettare parlamentari e militanti della suia formazione politica, all’adozione dello slogan «Forza Italia» come denominazione del nuovo partito. A dare il senso all’intera operazione è ciò che Alessandro Dal Lago etichetta come «calcistizzazione della politica». I partiti ridotti a squadre che se la giocano su un campo in cui anche le scorrettezze sono ammesse, e l’opinione pubblica trasformata in una platea di tifoserie animate da passioni e sentimenti anziché dalla propensione a dibattere e elaborare criticamente i temi dell’agenda politica.
A questa commistione contribuisce ampiamente lo stesso Berlusconi, che non perde occasione per mixare i due registri. Durante la prima campagna elettorale, col seggio parlamentare da conquistare in un collegio romano, parla dell’avversario del campo progressista chiedendo: «Ma questo professor Spaventa quante Coppe dei Campioni ha vinto?». E a tale confusione delle lingue contribuisce anche la stampa sportiva, che nei giorni della discesa in campo non sa da che parte ricominciare a prendere le misure al magnate calcistico-televisivo che nel frattempo è diventato leader politico. Il cortocircuito massimo è raggiunto all’indomani del (complicato) voto di fiducia ottenuto in Senato dal primo governo Berlusconi, proprio mentre il Milan trionfa contro il Barcellona (4-0) nella finale di Coppa dei Campioni. Un sommario di prima pagina del Corriere dello Sport-Stadio raccontato il giorno dopo che «sul 2-0 è arrivata la fiducia», come se due partite parallele si stessero giocando in due diverse arene, con Berlusconi che esce trionfatore da entrambe. La confusione delle lingue è grande sotto questo cielo e lo rimarrà per lungo tempo. Tanto più che nel frattempo Berlusconi ha trasformato il calcio stesso, consegnandolo agli anni Novanta con uno status geneticamente modificato. Quel calcio ha smesso definitivamente di essere un campo della competizione per essere convertito nell’arena di un’esibizione di forza monopolistica.
Il Milan di Berlusconi ha fatto in tempo ad alienarsi le simpatie suscitate dal primo Milan di Arrigo Sacchi. Al pari del suo proprietario è diventata una squadra animata da spirito monopolista, rafforzata nei giocatori e nella forza economica ben oltre la misura necessaria a mantenere un livello vincente. Anche a costo di tesserare calciatori del massimo livello che però vengono spediti in tribuna, perché in campo possono essene mandati soltanto undici e perché fino a dicembre del 1995 (momento in cui è stata pronunciata la sentenza Bosman) gli stranieri schierabili sono non più di cinque. Ma non importa, il solo fatto di averli sottratti alla concorrenza è motivo sufficiente per portarli in rossonero.
Questo modo di essere, che è stato motivo di laceranti pene per il vasto esercito di tifosi milanisti politicamente schierati a sinistra, si ripropone nel momento in cui Silvio Berlusconi decide di assumere la veste di leader politico e successivamente diventa capo di governo, a più riprese. Circa un quarto di secolo della vita pubblica italiana porta la sua cifra. E in questo lasso di tempo sono compresi gli anni in cui la sua stella sportiva declina molto più velocemente di quanto avvenga alla sua stella politica. Ciò che più di ogni altra cosa è un segno della sua traiettoria di egemonia sulla vita italiana e del suo indissolubile legame con l’elemento calcistico. Il Berlusconi da calcio totale, visto all’opera nel decennio lungo fra Ottanta e Novanta, diventa un Berlusconi da ricerca dello 0-0, dell’interdizione sistematica dell’avversario, nel periodo che va dagli anni Dieci in poi. Esulta anche quando perde 6.000.000 di voti da una consultazione politica a un’altra e lo fa soltanto perché gli riesce di sabotare un governo Bersani. Non è più lui, non è più ciò che era stato negli anni Novanta, dapprima per l’Italia calcistica e poi per l’Italia tout court: una persistenza degli anni Ottanta, dell’epoca in cui credevamo di poter essere felici senza misura. I suoi anni Novanta, nel calcio come altrove, sono stati anni Ottanta che ce l’hanno fatta, mentre per il resto della società italiana coincidevano con un’epoca dell’incertezza che non si è mai esaurita. Berlusconi regalava un sogno retrò, la nostalgia dell’altro ieri che però si allontanava già a velocità incontrollata. L’uomo che predicava l’innovazione ma offriva la postumità. E chissà se mai se ne sarà reso conto.
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Pippo Russo (Agrigento, 1965) è ricercatore di Sociologia dell’ambiente e del territorio presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Firenze. Giornalista e saggista, ha dedicato diversi studi all’analisi sociologica dello sport. Ha pubblicato quattro romanzi, fra i quali la duologia dedicata a Nedo Ludi.
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