«Very messy». Un gioco di parole semplice e geniale. Lo piazza l’agenzia di stampa AP per commentare la tournée asiatica condotta tra gennaio e febbraio dall’Inter Miami, franchigia della Major League Soccer statunitense. Doveva essere un giro di promozione del marchio. Si è trasformata in un disastro d’immagine. E la causa del disastro è proprio Lionel Messi, che non ha capito di essere entrato in una fase post-agonistica della carriera, nella quale deve spendere più l’immagine/presenza che la prestazione. Pippo Russo discute le implicazioni economiche, politiche e sociologiche del caso Messi. L’articolo inaugura una nuova sezione, Agon, curata dallo stesso Russo, che settimanalmente ci accompagnerà dentro l’industria globale dello sport.
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«Very messy». Un gioco di parole semplice e geniale. Lo piazza l’agenzia di stampa AP per commentare la tournée asiatica condotta tra gennaio e febbraio dall’Inter Miami, franchigia della Major League Soccer (MLS) statunitense. Doveva essere un giro di promozione del marchio. Si è trasformata in un disastro d’immagine. E la causa del disastro è proprio Lionel Messi. Che invero, di suo, ha fatto nulla. Ma proprio qui sta il punto. Fare nulla era la cosa che non poteva permettersi. Non aveva capito di essere entrato in una fase post-agonistica della carriera, nella quale deve spendere più l’immagine/presenza che la prestazione. La serie di amichevoli era stata disegnata intorno a lui. Ma arrivati al dunque, lui non c’era. Sicché l’effetto della tournée di Messi è stato «very messy»: un gran casino. Con implicazioni economiche e politiche dalle ripercussioni che si allungano pure su soggetti che nulla c’entrano. E con una serie di considerazioni a margine dalle profonde implicazioni sociologiche.
Il lato sbagliato della killer app
L’operazione pareva facile. Prendi una franchigia giovane di un campionato calcistico in fase di sviluppo. Impreziosisci la squadra di quella franchigia col calciatore più forte di questo scorcio di XXI secolo, giunto in una fase anagrafica e di carriera in cui, dopo aver vinto tutto quello che c’era da vincere, può accettare l’idea di monetizzare il capitale d’immagine senza curarsi della competitività dei tornei cui prende parte. Costruisci intorno al fuoriclasse uno spettacolo che trasformi la mestizia del viale del tramonto in uno show itinerante e ipermediatizzato. E punta i nuovi mercati strategici del calcio globale: quelli asiatici. Che sono riserve sterminate di passione e risorse economiche, dove il calcio della tradizione novecentesca (quello sviluppato lungo l’asse Europa-Sud America) esercita un’attrattiva irresistibile poiché da quelle parti la tradizione calcistica maturata nel corso del Secolo Breve è fatta di storie minori, di eroi locali rimasti fuori dai riflettori e delle competizioni che contano.
Entro un tale quadro della situazione Lionel Messi è per l’Inter Miami come una killer app. Una risorsa che nessun altro concorrente possiede, lo strumento di un vantaggio competitivo soverchiante. Lo è sui campi da gioco, lo è ancora di più nei termini dello sviluppo del business. E lo è in special modo per l’Inter Miami, una franchigia fondata sulla centralità del testimonial. La sua nascita è giunta infatti sotto il segno di uno dei suoi proprietari: David Beckham, cioè uno degli emblemi dello stile metrosexual che ha cambiato l’idea di maschilità negli anni a cavallo dei due secoli, colui che ha preso per mano il profilo pubblico del calciatore e lo ha accompagnato nella traiettoria della narcisizzazione. Nei primi anni di vita della franchigia della Florida (fondata nel 2018), essa non è stata identificata come «l’Inter Miami», bensì come «la franchigia di David Beckham». Tanto che in occasione delle sue gare il pubblico guardava più nella direzione della tribuna d’onore, dove prendeva posto l’ex Spice Boy, che nella direzione del campo dove la squadra in maglia rosa sfidava la squadra avversaria.
L’arrivo del fuoriclasse argentino non ha fatto altro che imprimere una variazione sul tema, perché dalla scorsa estate l’Inter Miami è la franchigia di Leo Messi anziché di David Beckham. Un mutamento auspicato dallo stesso Beckham e dal suo socio Jorge Mas, un miliardario statunitense di origine cubana, figlio di un dissidente anti-castrista fuggito negli Usa dopo la rivoluzione a L’Avana. Dal loro punto di vista la possibilità di schierare Messi è stata da subito l’occasione di fare impennare la competitività sportiva ed economica della franchigia. Soprattutto la seconda, grazie allo sfruttamento delle tournée. E tuttavia, cosa succede se il punto di forza si trasforma in un punto di debolezza? E se la killer app rischia di ammazzare chi la possiede? Con questi interrogativi deve fare adesso i conti la ditta Beckham & Mas. Ma molte riflessioni toccano allo stesso Messi, che nei giorni della tournée ha scoperto una crudele realtà: tutti hanno diritto di infortunarsi, tranne lui.
Scena allestita con primattore assente
Il tour asiatico prevedeva due tappe in Arabia Saudita, una a Hong Kong e una in Giappone. In particolare, generava grandi suggestioni il secondo appuntamento in terra saudita, l’amichevole fissata per il 1° febbraio fra Inter Miami e Al-Nassr. Che doveva significare l’ennesima riedizione del duello fra Leo Messi e Cristiano Ronaldo, i due mattatori del calcio globale degli anni Dieci. Sul motivo dell’ennesimo duello fra «la Pulga» e CR7 è stato costruito il battage pubblicitario globale. Ma poi, sul più bello, lo show si è visto sfilare la sola attrattiva: niente duello fra i due perché l’argentino è infortunato. Messi salta la gara contro l’Al-Nassr, che è la seconda tappa della tournée asiatica, e salta pure la precedente contro l’Al-Hilal. E a quel punto, dato che scatta l’istinto da Dialettica fra Maschi Alfa, anche Cristiano Ronaldo diserta la sfida. Può mica fare la figura di quello che si presenta alla tenzone e si trova al cospetto del disprezzo di un avversario assente? I duelli posseggono una mistica secondo la quale è meglio perdere nel sangue che vincere per contumacia. Dunque anche CR7 si sfila. Con l’effetto che il duello fra le due superstar, venduto alle stazioni televisive di tutto il mondo come evento imperdibile, si trasforma in un’insignificante amichevole fra due squadre di nessuna importanza per il grande pubblico del calcio globale. Per di più l’Inter Miami rimedia un’umiliante sconfitta per 6-0, che si aggiunge alla sconfitta 4-3 di tre giorni prima contro l’Al-Hilal. E poiché anche i risultati sportivi servono a dare qualche lustro al brand, incassare due sconfitte contro squadre della lega professionistica araba non è cosa che dia lustro all’immagine.
Ma la vera emergenza arriva tre giorni dopo, 4 febbraio. Per la terza tappa del tour di sviluppo del brand l’Inter Miami sceglie Hong Kong, dove sfida una selezione locale. Sarebbe la tappa di maggior richiamo, tenuto conto dell’eruzione di entusiasmo che soltanto pochi mesi prima il pubblico cinese aveva riversato sul fuoriclasse argentino. In occasione dell’amichevole contro l’Australia giocata a giugno dalla nazionale argentina nello Stadio dei Lavoratori di Pechino gli spalti erano popolati di maglie biancocelesti numero 10. E i prezzi dei biglietti avevano toccato cifre inimmaginabili in Europa, compresa l’esosa Premier League inglese: fra i 400 e i 680 dollari, senza che ciò impedisse di avere sugli spalti circa 68.000 spettatori.
Prezzi analoghi vengono pagati dagli appassionati di Hong Kong; fino a 4800 dollari HK, che al cambio fanno 575 euro. Cifre sborsate non certo per veder giocare l’Inter Miami e men che meno la selezione di Hong Kong. La gente ha strapagato un posto sugli spalti per vedere giocare Lionel Messi. E invece Lionel Messi è su una panca a bordo campo, messo ancora fuori causa dall’infortunio. Ma a differenza di quanto successo in Arabia Saudita, il pubblico di Hong Kong reagisce in modo furente. Indispettito anche dalla presenza dell’idolo sul campo, ma soltanto per passeggiare sul prato prima che inizi la partita, e poi a bordo campo per fare da spettatore pagato. Coi soldi loro. Hanno mica pagato per guardare lui che guarda la partita?
La contestazione verso l’argentino dura dal primo all’ultimo minuto di una partita per la quale, in sua assenza, il pubblico avrebbe pagato nemmeno 1 euro. E finisce per prendere a bersaglio anche David Beckham, che un grado così elevato di impopolarità non lo aveva sperimentato nemmeno nei giorni dell’espulsione nella gara dei mondiali 1998 contro l’Argentina, indicata come causa dell’eliminazione della nazionale inglese agli ottavi di finale. Seduto in tribuna d’onore e circondato dall’umor nero dei tifosi di Hong Kong, l’ex Spice Boy affronta una realtà che non aveva calcolato: avere in squadra un fuoriclasse come Messi significa anche non potersi permettere di farne a meno. L’estasi o la catastrofe possono dipendere da un banalissimo problema agli adduttori. E come se non bastasse, la situazione viene peggiorata tre giorni dopo. Quando in occasione dell’ultima amichevole del tour, quella fissata in Giappone contro il Vissel Kobe, Leo Messi scende in campo per giocare l’ultima mezz’ora di una partita terminata 0-0 e poi vinta dai giapponesi ai rigori. All’indomani la prima pagina del «South China Morning Post», il quotidiano di Hong Kong, dedica il titolo di apertura alla notizia, rimarcando come l’episodio abbia esacerbato l’opinione pubblica locale.
Come la fai, la sbagli
Ma davvero Leo Messi era in grado di giocare in Giappone dopo aver dovuto marcare visita a Hong Kong soltanto tre giorni prima? Su questo punto emerge un altro elemento di riflessione. Le immagini disponibili su You Tube mostrano un giocatore in condizioni frizzanti, capace di creare pericoli per la difesa avversaria ogni volta che tocca palla. Lo hanno rimesso in condizione nel giro di tre giorni? Probabile piuttosto che la sua condizione fisica fosse più o meno questa anche a Hong Kong. Dunque cosa ha fatto la differenza? Le risposte possibili sono due. La prima: a fare la differenza è stato un netto recupero fisico, ciò che appare improbabile. La seconda: a fare la differenza è stato proprio quanto accaduto a Hong Kong. Cioè, oltre alla pesante protesta dei tifosi, anche la richiesta di rimborso del biglietto che spinge l’organizzatore (Tatler Asia) a promettere di rifonderne il 50%. Questa seconda risposta non è verificabile perché nessuno dei protagonisti, a cominciare dallo stesso Messi, ammetterebbe che le cose siano andate così. La cosa sicura è che l’argentino deve affrontare una situazione in cui la precaria condizione di salute si trasforma in una variabile secondaria rispetto alle pressioni economiche e alle esigenze dello spettacolo. Messo pure nelle condizioni di sbagliare, qualsiasi scelta facesse. Se rinunciasse a giocare contro il Vissel Kobe, scatenerebbe le proteste anche da parte del pubblico giapponese. Invece, scendendo in campo, accende ulteriormente il malanimo dei suoi (ex?) tifosi di Hong Kong, che si sentono discriminati oltreché maltrattati. Una situazione senza uscita. Che non ha ancora smesso di produrre conseguenze negative.
Cina colpisce Argentina
Succede infatti che l’assenza di Messi in campo a Hong Kong (al pari della sua presenza in campo a Kobe) provoca la dura presa di posizione del governo cinese. Che vive come un affronto quanto accaduto il 4 febbraio in un territorio che viene amministrato da Pechino con oscillazione fra paternalismo e pugno di ferro. Ma ciò che più di tutto indispettisce il regime cinese è la voce secondo cui il fuoriclasse argentino non abbia voluto giocare a Hong Kong per una questione di dissenso politico nei confronti del regime cinese. Anche per smentire questa versione dei fatti, oltreché per scusarsi di quanto accaduto il 4 febbraio, Lionel Messi invia un videomessaggio tramite Weibo, il social network cinese più frequentato.
Abbigliamento grigio Ferragni (ma rigorosamente griffato Adidas), tono imbarazzato e parole arruffate per spiegare che l’assenza nelle prime tre gare della tournée è stata causata da un problema all’adduttore, attenuato giusto in tempo per giocare uno spezzone dell’ultima amichevole in Giappone. Messi conclude il breve messaggio ribadendo il proprio legame speciale col popolo cinese e salutando con un inusuale «ciao». E al di là del sospetto che quel video sia stato prodotto con aiuto dell’intelligenza artificiale, le scuse non sono sufficienti per far cambiare atteggiamento ai fan cinesi e tanto meno al governo di Pechino. Che anzi decide una ritorsione durissima: Messi non deve tornare a giocare partite in suolo cinese. Va in questo senso l’annullamento delle due partite amichevoli che la nazionale argentina aveva organizzato per la pausa dedicata all’attività delle nazionali, programmata per il mese di marzo. La squadra albiceleste avrebbe dovuto affrontare la Nigeria a Hangzhou e la Costa d’Avorio in Bejing. Tutto annullato, tutto da rifare. La federcalcio argentina (AFA) deve frettolosamente riprogrammare gli impegni spostando le sedi negli Usa, dove giocherà contro El Salvador (Filadelfia, 22 marzo) e Nigeria (Los Angeles, 26 marzo). Ovviamente anche per l’AFA, come per l’Inter Miami, la scelta di giocare in Cina era motivata dal business, non altro. Di fatto la federazione è vittima collaterale di un’operazione di sfruttamento del marchio montata da altri e sfociata in un disastro. Il danno economico è evidente, ma pensate che sia ipotizzabile un contenzioso nei confronti del governo cinese? Col rischio di alienarsi definitivamente ogni futura possibilità di partnership? A Buenos Aires e dintorni si sono detti quello che si sarebbero detti a Roma: «Stacce». Con la speranza che l’incazzatura dei cinesi passi presto.
C’è un diritto all’infortunio?
Questa è una storia con molte implicazioni, tutte legate al mutamento culturale cui lo sport è stato soggetto nel passaggio d’epoca fra il XX e il XXI secolo, segnato dalla chiara svolta che porta lo sport dalla centralità della performance alla centralità dello spettacolo. Lo spettacolo comanda che tutti gli attori siano in scena quando è il giorno dello show. Le assenze non sono ammesse, né le sostituzioni contemplate. Tanto più se lo show si basa sulla centralità del singolo soggetto.
Ma soprattutto c’è la riflessione sul tema del corpo. Che nel caso degli atleti di alta competizione segna uno dei gradi più elevati di alienazione nella contemporaneità. Il corpo dell’atleta è infatti una macchina da prestazione di cui il soggetto atleta è mero manutentore per tutto il ciclo di vita occupato dalla carriera agonistica. La dinamica della spettacolarizzazione, che comanda sempre più «eventi» non esclusivamente di natura agonistica, ha comportato un’ulteriore esposizione del corpo dell’atleta allo stress illimitato. In queste condizioni è ancora possibile il diritto all’infortunio? Il quesito resta sospeso. Poiché è chiaro che, in termini formali, questo diritto esiste e viene garantito. Altra cosa è la dimensione di fatto. Che comanda all’atleta di essere sempre «fit», cioè adeguato alla prova. Senza che ciò corrisponda, in automatico, a una condizione di piena salute. Ciò vale ancora di più per atlete e atleti della massima esposizione mediatica. Specie se, come nel caso delle partite che hanno visto come protagonista l’Inter Miami, si tratta di gare non agonistiche, organizzate a scopi esclusivamente commerciali. In questi giorni il corpo di Messi è diventato anche corpo politico e corpo diplomatico. Due fra le tante variazioni sul tema del corpo sportivo nella post-modernità. Variazioni alle quali dovremo fare l’abitudine.
Ma soprattutto c’è la riflessione sul tema del corpo. Che nel caso degli atleti di alta competizione segna uno dei gradi più elevati di alienazione nella contemporaneità. Il corpo dell’atleta è infatti una macchina da prestazione di cui il soggetto atleta è mero manutentore per tutto il ciclo di vita occupato dalla carriera agonistica. La dinamica della spettacolarizzazione, che comanda sempre più “eventi” non esclusivamente di natura agonistica, ha comportato un’ulteriore esposizione del corpo dell’atleta allo stress illimitato. In queste condizioni è ancora possibile il diritto all’infortunio? Il quesito resta sospeso. Poiché è chiaro che, in termini formali, questo diritto esiste e viene garantito. Altra cosa è la dimensione di fatto. Che comanda all’atleta di essere sempre «fit», cioè adeguato alla prova. Senza che ciò corrisponda, in automatico, a una condizione di piena salute. Ciò vale ancora di più per atlete e atleti della massima esposizione mediatica. Specie se, come nel caso delle partite che hanno visto come protagonista l’Inter Miami, si tratta di gare non agonistiche, organizzate a scopi esclusivamente commerciali. In questi giorni il corpo di Messi è diventato anche corpo politico e corpo diplomatico. Due fra le tante variazioni sul tema del corpo sportivo nella post-modernità. Variazioni alle quali dovremo fare l’abitudine.
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Pippo Russo (Agrigento, 1965) è ricercatore di Sociologia dell’ambiente e del territorio presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Firenze. Giornalista e saggista, ha dedicato diversi studi all’analisi sociologica dello sport. Ha pubblicato quattro romanzi, fra i quali la duologia dedicata a Nedo Ludi.
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