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Identità smarrite. I dilemmi della soggettività tra lavoro dipendente e indipendente



Nel quadro dei testi che «Machina» sta pubblicando a fondamento del Festival 6 di DeriveApprodi, dedicato alla riflessione sul decennio Ottanta, riproponiamo un breve saggio di Sergio Bianchi comparso in origine sul n. 2 della rivista «DeriveApprodi», nel giugno 1993, e ripreso poi nel suo Figli di Nessuno. Storia di un movimento autonomo, Milieu, Milano 2014.


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Il contributo che si intende qui offrire al dibattito sul tema delle soggettività del «lavoro autonomo» non ha la pretesa di rivelare nulla di assolutamente nuovo ma piuttosto di tentare la verifica «sul campo» di alcune intuizioni teoriche[1]. Il metodo utilizzato è l’intreccio tra analisi dei processi di trasformazioni del lavoro e analisi delle soggettività in un territorio alquanto circoscritto ma abbastanza rappresentativo di un’area territoriale più vasta che ha visto la genesi della «rivolta autonomista» e, nella Lega Lombarda, la sua formalizzazione politica. Da una parte, quindi, l’osservazione di un micro-territorio dell’alto milanese che contiene la trama del tessuto economico produttivo lombardo, dall’altra, l’indagine non tanto su un campionario di soggettività rappresentativo della medierà dell’universo del lavoro autonomo, quanto su una specificità di questo universo costituita da un insieme di soggettività accomunate dall’esperienza di un precedente percorso nel lavoro salariato in fabbrica e dalla memoria delle lotte condotte contro di esso nel pieno della ristrutturazione nella metà degli anni Settanta, fino alla sconfitta operaia dell’inizio degli anni Ottanta. Quali trasformazioni sono intervenute in queste soggettività nel loro percorso dal lavoro dipendente al lavoro indipendente è poi la domanda a cui si tenta di dare alcune parziali risposte.


Prima della sconfitta: genesi ed espressioni organizzate dell’«altro movimento operaio»

II territorio tradatese – in provincia di Varese – è un esempio di multiformità produttiva. Accanto a segmenti produttivi anche di ridottissima dimensione con alta intensità tecnologica convivono segmenti più tradizionali. Ne risulta una forza lavoro molto frammentata e differenziata: operai generici, operai a varia gradazione professionale, lavoratori autonomi, lavoratori di comparti tecnico-scientifici. Vi è inoltre, difficile da individuare e quantificare, un circuito di «economia sommersa» che impiega forza lavoro non normata.

All’inizio del decennio Ottanta la struttura industriale della provincia varesina si ritrovò a scontare una crisi allarmante e il territorio tradatese fu quello che risentì i danni maggiori. Eppure, quella che sembrava l’inizio di una dura fase recessiva, si ribaltò in un veloce rilancio produttivo. Supporto di questo rilancio non fu unicamente la mitica tenacia e intraprendenza del ceto imprenditoriale locale ma il lungo processo di incubazione di una nuova struttura produttiva, di una nuova forma dell’organizzazione del lavoro che faceva perno su un massificato processo di autoimprenditorialità incentivato a monte dalle innnovazioni tecnologiche e organizzative dispiegate precedentemente a livello regionale, nazionale e internazionale.

In questo stesso territorio, negli anni Settanta, nonostante la differenziazione degli indirizzi produttivi, vi erano medie e grandi concentrazioni con una classe operaia molto conflittuale. La «centralità operaia» era un dato concreto e operante su tutti i piani della pratica politica, sia istituzionale che extraistituzionale. Nella generalità delle realtà operaie conflittuali erano particolarmente i giovani a distinguersi per determinazione e radicalità. Una trentina di loro, occupati in diverse fabbriche di diverse dimensioni, nella prima metà del decennio Settanta diedero vita a un’aggregazione in cui, accanto agli interessi specificatamente operai, convivevano anche temi di carattere controculturale, provenienti dalla grande ondata di lotte del ’68. Fu questa la genesi delle soggettività antagoniste qui prese in considerazione. Questa realtà collettiva divenne punto di riferimento per una vasta area dell’universo giovanile locale nel momento in cui la critica al regime di fabbrica divenne critica della totalità dell’esistenza dominata dai princìpi capitalistici.

Nelle fabbriche la polemica di questi giovani con gli operai più anziani e con i sindacati si fece aspra. Ad essere attaccata era l’etica del lavoro che faceva da fondamento a un’identità giudicata subordinata, incapace di immaginarsi e di agire oltre la propria funzione di forza-lavoro, disponibile sì a lottare, ma solo entro il quadro delle compatibilità dello sviluppo e della riproduzione capitalistica. Era la stessa polemica, non priva di rotture e anche di scontri, che contemporaneamente stava avvenendo, dentro e fuori i luoghi di lavoro, in tutto il Paese, tra movimento operaio tradizionale e l’«altro movimento operaio». Il processo di politicizzazione di questo collettivo di giovani operai favorì l’elaborazione di un’analisi concentrata sulla specificità dell’organizzazione produttiva del territorio abitato, basata sul modello della «fabbrica diffusa» come articolazione della grande impresa. In questa analisi i «ghetti di paese» venivano individuati come assetti urbani funzionali alla riproduzione delle condizioni di flessibilità della forza-lavoro da contrapporre alla rigidità dell’operaio massa, dell’operaio generico, dequalificato, nella media e grande impresa. A partire da questo presupposto venne individuata nei «ghetti di paese» la funzione di riserva di caccia per lavori precari, neri, sottopagati, finalizzati a consentire il massimo di produttività con il minore costo possibile. Questa analisi concordava nel conferire centralità alla classe operaia ma, sottolineando i processi di ristrutturazione in atto, individuava nuove figure operaie presenti nel mercato del lavoro del circuito della «fabbrica diffusa» e del lavoro non normato, niente affatto marginali nel processo di valorizzazione capitalistico.

La proposta politica che scaturì da questa analisi si articolò tra: salvaguardia dei livelli di potere operaio conquistato nelle medie concentrazioni contro gli obiettivi padronali di ristrutturazione; organizzazione delle lotte nel sociale per la difesa del reddito e soddisfazione dei bisogni operai e proletari; creazione di spazi sociali per l’aggregazione, la ricomposizione e l’organizzazione delle diverse figure del lavoro (la creazione in specifico di un Centro sociale). Questa proposta politica innescò un processo di lotte che portò a materializzare, nella seconda metà degli anni Settanta, un movimento politico a dominanza giovanile con presenze nelle medie concentrazioni produttive e nel circuito della «fabbrica diffusa» oltre che in altri luoghi di lavoro non operaio.

Fu in quel contesto che mosse la ristrutturazione che portò ai nuovi assetti produttivi di questi anni. Lì, come altrove, la ristrutturazione partì dal basso, dalle fondamenta, cioè dalla fabbrica, là dove si produceva e riproduceva il potere operaio che poi si dispiegava in tutto il sociale. Partì piano e lavorò con metodo prudente laddove il suo nemico era più forte, perché omogeneo oggettivamente e soggettivamente, come nei casi delle grandi e medie concentrazioni produttive. Partì con maggiore decisione nel circuito della «fabbrica diffusa», dove le figure operaie erano disomogenee. Passata nei luoghi della produzione la ristrutturazione ebbe poi gioco facile nell’agire in tutto il sociale[2]. E lì, come altrove, la ristrutturazione non fu solo un’operazione di innovazione tecnologica. Il passaggio, nell’organizzazione del lavoro, dal sistema industriale a impianto «fordista», a quello basato sull’alta flessibilità degli impianti tecnologici e della forza-lavoro impiegata, fu contrassegnata dall’uso politico della repressione: ricatti e intimidazioni contro le avanguardie operaie, licenziamenti politici, criminalizzazione dei comportamenti operai indisciplinati e poco compatibili. Fu questo il preludio a un processo, via via più massiccio e violento, del cambiamento dei valori fondamentali della società, del cambiamento delle regole del gioco che proprio in questo periodo vanno formalizzandosi nel passaggio a un nuovo sistema di regole costituzionali in cui il fondamento dell’ordine sociale non è più basato sul principio-valore del lavoro ma su quello dell’interesse d’impresa[3]. Le organizzazioni sindacali del movimento operaio tradizionale fecero della salvaguardia del posto di lavoro la debole trincea di una resistenza che presto sfociò in trattativa della sconfitta mentre di quanto accadeva nel circuito della «fabbrica diffusa», che col progredire della ristrutturazione diveniva ambito di operazioni strategiche, poco vedevano e quasi nulla capivano. I collettivi dell’«altro movimento operaio», piuttosto che trincerarsi, tentarono di elaborare un progetto che permettesse un «uso operaio» della ristrutturazione in corso, un uso cioè dei suoi elementi fondamentali: flessibilità e mobilità ribaltati in conflittualità diffusa nella vastità del territorio sociale su cui andava rimodellandosi la giornata lavorativa della nuova organizzazione del lavoro. Nei fatti questo progetto non trovò sufficiente capacità di espressione, fatta eccezione per alcune sporadiche sperimentazioni e verifiche pratiche.

La repressione, arrivò con facili pretesti, generati dal clima incupito dell’emergenza terroristica nazionale, a colpire, criminalizzare e ghettizzare, la vitalità teorica e pratica di quel movimento.


Davanti alla sconfitta, e dopo: annientamenti omologazioni resistenze esodi

La modernizzazione degli anni Ottanta ha comportato una deflagrazione dei riferimenti materiali, ideologici, valoriali, attorno ai quali i soggetti si addensavano e unificavano configurando quei grandi schieramenti sociali che si sono resi riconoscibili fino alla fine degli anni Settanta. La deflagrazione ha mandato in pezzi lo scenario di questi schieramenti, ha rotto il processo tendente all’omogeneità dei soggetti ribaltandolo nel suo contrario. Il movimento del ’77 ha rappresentato il segno premonitore di questo passaggio, si è manifestato come crinale, come punto critico di questo passaggio: da un’epoca a un’altra, dalla società industriale a quella postindustriale. Il frammento, la specificità, la differenza, sono divenuti i tratti dominanti delle soggettività.

Come ovunque, questo complesso di trasformazioni sociali ha estinto i presupposti che avevano originato anche il movimento autonomo del tradatese, i suoi progetti e le sue pratiche espresse nella seconda metà degli anni Settanta. La grande maggioranza dei soggetti che costituivano quel movimento ha gradualmente abbandonato impegni e interessi politici rifluendo in ambiti privati. La durezza del confronto con le regole del sistema societario vigente, resa ancora più aspra dalle specificità del territorio abitato, ha finito col determinare comportamenti che hanno variato da una volontaria o forzata omologazione al rifiuto più radicale che in taluni casi si è risolto in autodistruzione. L’annientamento degli elementi antagonisti delle soggettività si è realizzato nell’alternanza di queste due varianti: ricerca di una normalità, di riferimenti e di equilibri certi e affermazione del diritto al piacere e alla felicità immediata attraverso l’uso e abuso di eroina.

Una minoranza ha invece conservato l’abitudine della frequentazione dei luoghi fisici conquistati o costruiti nei momenti alti dell’esistenza del movimento, principalmente il Centro sociale, ed è stata questa continuità di frequentazione a costituire il nocciolo duro di una resistenza al processo di completa omologazione nell’esistente.

Nel percorso di questa resistenza va però registrata la dominanza di una specie di psicosi depressiva derivata dalla consapevolezza degli esiti di una bruciante sconfitta politica e sociale, subita anche nella concretezza di una dura repressione poliziesca e giudiziaria. Tale psicosi depressiva si è tradotta in una autoghettizzante chiusura difensiva nei rassicuranti confini di una socialità avvertita come sicura perché passata attraverso le verifiche imposte dalla resistenza alla repressione. Chi ha vissuto questa esperienza si è definito con una certa identità e con chi ha riconosciuto elementi di identità simili alla propria ha serrato vincoli contraddistinti da una forte appartenenza affettiva. È anche per questi motivi che nel corso del trascorso decennio i tentativi di rapporto con altri soggetti, provenienti da altre esperienze, si sono risolti, nella quasi totalità dei casi, in fallimenti sia subiti che voluti. È stata vissuta, e pesantemente, una difficoltà, un disagio, nel comunicare la propria memoria, cultura, identità, i propri caratteri, quei modi di essere, quegli stili di vita usciti sconfitti e quindi emarginati dai circuiti della comunicazione sociale. Lo spazio del Centro sociale ha man mano assunto le forme di un ghetto, e come accade in tutti i ghetti, anche le frustrazioni e alienazioni si sono riprodotte e incentivate in proporzione alla mancanza di alternative esistenziali, culturali e politiche anche soltanto immaginate. La quotidiana constatazione, protratta negli anni, di un isolamento del proprio gruppo di appartenenza dal contesto sociale generale del territorio abitato, ha generato e radicato, tra l’altro, anche un sentimento di emarginazione al quale si è reagito con il meccanismo difensivo dell’autoreferenzialità.

Vi è stata, inoltre, la rimozione di alcune cause che hanno concorso a determinare la sconfitta politica del passato, cioè il rifiuto di affrontare una riflessione sulle ragioni personali e politiche che hanno determinato scelte e comportamenti negli anni bui della sconfitta e della repressione. In questo modo il passato, non risolvendolo, non lo si è affatto superato. Ne è prova l’atteggiamento di insofferenza con la quale questi soggetti reagiscono in genere ogni qual volta viene loro indirizzata una critica. È una reazione infastidita verso ciò che invece d’essere considerato un contributo è avvertito come un disturbo dell’ordine degli elementi che costituiscono e regolano il funzionamento delle relazioni collettive. Un disturbo all’ordine dei modi di vedere e di essere che presiedono alla definizione delle proprie identità e dei propri linguaggi.

Questo fenomeno di rigetto di elementi perturbatori di un proprio ordine, dentro il quale ci si inscrive per poter dare definizione alla propria identità, può essere visto in connessione al processo della cosiddetta riterritorializzazione. Tra i presupposti che hanno fatto da base alla crescita e all’affermazione della «rivolta autonomista» vi è stato l’impatto traumatico che le popolazioni di questi territori hanno subìto con i fenomeni della modernizzazione accelerata degli ultimi due decenni. Velocificazione delle trasformazioni e mobilità negli scambi di risorse e informazioni tra soggetti di differente identità, origine e appartenenza, hanno sconvolto gerarchie e riferimenti valoriali, producendo incrinature, indebolimento e a volte estinzione proprio di quelle identità forti fondate sull’appartenenza a luoghi fisici e modi di produzione facilmente decifrabili. La complessificazione delle relazioni produttive, culturali e sociali, indotte dalla modernizzazione, hanno cioè prodotto un processo di progressiva deterritorializzazione che per i soggetti ha significato sradicamento, smarrimento delle abitudini, crisi di senso. La necessità di ricostituire un’identità di appartenenza certa si è espressa nella riterritorializzazione, la messa in atto, cioè, di un processo inverso di ripiegamento sui propri luoghi di origine, nel tentativo di ristabilire le regole dell’abituale, del tradizionale, del conosciuto, del comprensibile e controllabile[4].

Può stupire il fatto di utilizzare elementi di analisi riferite al fenomeno «autonomista», ma in realtà la situazione è meno paradossale di quanto sembri. I processi materiali indotti dalla modernizzazione hanno investito anche questi soggetti al cui spaesamento, oltre che la crisi di identità generata dalla ricollocazione produttiva (dal lavoro dipendente al lavoro indipendente, dall’essere stati operai salariati all’essere diventati imprenditori di se stessi), ha contribuito in maniera rilevante la perdita di quei riferimenti culturali, politici, ideologici, progettuali, sui quali in passato avevano investito la totalità della loro identità antagonista. Tutte cose di cui ora percepiscono la crisi. Da qui la chiusura, l’abbarbicamento ai propri spazi, il rifiuto di socializzare se non con quei soggetti in cui intravedono elementi di identità simili alla propria. Le frustrazioni per una mancata riproduzione di sé, così come si era data in forma socialmente allargata nel passato ha finito col riversarsi in forma di reiterata auroreferenzialità familiare.

La continuità delle pratiche militanti da parte di un gruppo di questi soggetti ha assunto il significato di una testimonianza altamente generosa ma caratterizzata da una indistintività di riferimenti teorici e pratici: difesa di ideali e tradizioni della «sinistra» nella sua genericità; pratiche volontaristiche di agitazione e propaganda di temi progressisti, democratici, riformisti, mischiati a quelli radicali e antagonisti: dall’animalismo all’estremismo sindacale, dall’ecologismo fondamentalista a quello raccordabile con le «compatibilità dello sviluppo», dal solidarismo terzomondista alla controinformazione alimentare, fino alla propaganda di sostegno alle lotte dei «movimenti di liberazione nazionale». Il tutto senza un minimo retroterra di impianto teorico di riferimento, ma semmai con l’assunzione, spesso contraddittoria, di pezzi di impianti diversi e tra loro difficilmente compatibili: pensiero «verde» con pensiero critico, antagonismo con pacifismo, gestione amministrativa istituzionale e paraistituzionale con intenzioni extraistituzionali.

La ragione di questa indeterminatezza delle pratiche militanti è molto probabilmente conseguenza della messa in crisi del riferimento al concetto forte di «lotta di classe»[5] concomitante al ridimensionamento e al progressivo declino della «centralità operaia», così come si dava dentro gli assetti della produzione industriale a impianto «fordista», prima della ristrutturazione. Il venir meno del riferimento teorico fondativo dell’esperienza collettiva di queste soggettività – cioè il venir meno della «comunità operaia» come soggetto forte – è stata compensata con una altalenante rincorsa di frammenti di tematiche «alternative» (ecologismo, ambientalismo, differenze sessuali, etnicismo ecc.) in grado di offrire delle occasioni di conflittualità con i poteri istituzionali, da cui ricavare la conferma di una qualche continuità della propria identità antagonista.


Tra lavoro dipendente e lavoro indipendente

Intorno alla metà degli anni Ottanta tra questi soggetti si sviluppò una polemica nella quale si impose per la prima volta la presa d’atto delle trasformazioni intervenute nelle soggettività di ciascuno in seguito alle specifiche scelte di ricollocazione nel mercato del lavoro ristrutturato. In sostanza la polemica si concentrò sulla questione del rapporto tra i soggetti ancora interni alle forme del lavoro dipendente e quelli che si erano ricollocati nell’area del lavoro indipendente.

Quella polemica, proprio perché era fondata su un processo di trasformazione materiale in atto, diede origine a una divisione tra due aree di soggettività, che ancora oggi riflettono, nonostante le interne specifiche differenziazioni, due modi di pensare i rapporti sociali e le pratiche politiche.

I soggetti rimasti nell’area del lavoro dipendente interpretarono la ricollocazione degli altri nel lavoro indipendente come scelta che comportava conseguenze oggettive di «individualismo», di «integrazione», di «imborghesimento». Questi ultimi rifiutarono tale interpretazione, anche se in effetti accentuarono la loro estraneità verso le forme dell’impegno politico tradizionale. Questa rottura si è protratta negli anni successivi e solo recentemente si sono segnalati tentativi di ripresa di un dibattito.

Ma come si è caratterizzata la fuoriuscita dalla fabbrica da parte degli ex operai dopo il loro percorso di lotta incentrato sul rifiuto del lavoro salariato? La fuoriuscita per alcuni si è indirizzata verso forme di autoimprenditorialità nell’artigianato industriale e commerciale, una fuoriuscita, questa, a volte favorita dall’eredità di preesistenti impianti familiari; per altri la fuoriuscita si è indirizzata verso impieghi nel terziario di servizio medio-basso; per una minoranza verso forme di costante precariato, consistenti in prestazioni lavorative alternativamente operaie e non operaie. La fuoriuscita dal regime di fabbrica, soprattutto dall’arcipelago della «fabbrica diffusa», è stata, per tutti costoro, una scelta volontaria e dichiaratamente irreversibile e si è determinata alla fine del ciclo di lotte di resistenza alla ristrutturazione.

Dalle testimonianze raccolte[6] risalta l’estraneità e l’ostilità maturata nell’esperienza di fabbrica per il lavoro operaio ed è costante il rifiuto di definire la propria attuale identità in base a quel percorso, la convinzione di aver operato, nell’abbandono della fabbrica, una scelta di liberazione, di aver maturato una valorizzazione di sé, di aver superato una condizione coatta e alienante.

La ricollocazione produttiva nell’area del lavoro autonomo si è svolta all’interno di un territorio contraddistinto da una diffusa microimprenditorialità fondata sulla flessibilità dell’uso, sia degli impianti tecnologici che della forza lavoro. A monte, una fortissima tradizione di etica dell’autorealizzazione produttiva.

Il processo di riterritorializzazione, seguito alla crisi degli anni Settanta, ha investito queste soggettività rimodellandone i comportamenti alcuni dei quali si sono orientati verso il riflusso nel privato, l’individualismo, il radicamento nel luogo abitato come rinuncia a praticare una più vasta mobilità territoriale, l’autoimposizione di ritmi esistenziali derivati dall’accettazione della rigida e ordinativa divisione tra il tempo del lavoro e quello del non lavoro e una generale acquiescenza verso le normative dell’esistente. Ma a questi comportamenti se ne sono accompagnati altri di segno opposto: la riappropriazione di una più elevata conoscenza del funzionamento materiale delle regole produttive e di mercato, l’approfondimento della ricerca dei meccanismi di funzionamento della propria soggettività e della sua messa in relazione con la generalità delle soggettività altrui, il rifiuto della reiterazione delle forme di pensiero e di azione del passato, come coscienza dell’improponibilità di una adesione alla metodologia e alla ritualità politica tradizionale, anche se di segno antagonista. Insomma, un’ambivalenza, una contraddizione, una schizofrenia rimaste tuttora irrisolte.

In questi soggetti, il peso della memoria di un passato antagonista e la sua sedimentazione in coscienza, ha evitato un totale annullamento della loro identità passata, verso la quale avvertono di non potere e volere più appartenere, ma alla quale ritengono utile non rinunciare del tutto nella speranza del formarsi di un qualche riferimento forte non unicamente capace di determinare resistenza ma anche trasformazione. Nel frattempo hanno adottato le tattiche del ripiegamento, dell’attesa, della mimetizzazione, dell’assunzione dell’infinita gamma delle identità deboli ed effimere, da consumare nella contingenza e da abbandonare con la facilità e la leggerezza con cui si può abbandonare tutto ciò che non lascia strascichi. Se il tempo è dominato dal nemico - hanno pensato - meglio adattarsi, perché prima di tutto bisogna sopravvivere. Più le trasformazioni agivano e più ne avvertivano le conseguenze in termini di mutazione: nella percezione di sé, nei rapporti produttivi e sociali, massimamente negli strumenti e nelle forme del comunicare. Hanno finito col pensare che siccome il processo era ancora in corso, ogni tentativo di fissarne i termini di lettura risultava parziale e inutile. Era quindi meglio attendere che il processo si dispiegasse per intero, che gli effetti della modernizzazione si definissero in tutta la loro articolazione. È probabilmente questa la convinzione - in parte conscia e in pane inconscia - che ha mosso, e in larga parte ancora muove, l’agire di questi soggetti: un’abitudine a vivere questo tempo di sconvolgimenti tra la messa in opera di una sorta di prontuario del saper vivere opportunistico e la paziente attesa

dell’incubazione di una nuova soggettività e della sua piena coscienza.

Chi è autoimprenditore di se stesso sa che è comunque sovradeterminato dalle regole generali del mercato. Se vive dei privilegi rispetto alla condizione del salariato ha per svantaggio il non poter adottare i suoi criteri di lotta al lavoro, lavoro comunque considerato “proprio”, non privo di quegli elementi di gratificazione riscontrabili nelle culture dell’autorealizzazione imprenditoriale. Ma, d’altra parte, esiste in questi soggetti la consapevolezza che ciò non basta, che il lavoro non esaurisce la definizione della loro identità. L’attività autoimprenditoriale, più che l’attività dipendente, implica infatti la presa d’atto che per determinarsi deve avvalersi dell’appropriazione di informazioni e saperi diffusi in tutto il sociale e circolanti per lo più fuori dagli ambiti spazio-temporali in cui si compie l’atto materiale del produrre. Ma questa rimessa in gioco dentro i cicli produttivi di questo surplus di valorizzazione soggettiva, acquisita negli ambiti della socializzazione extraproduttiva, è una rimessa in gioco di sé per sé, cioè individuale. Da qui il disinteresse di questi soggetti per qualsiasi valore culturale ed etico del genere «partecipazione collettiva», «solidarietà» ecc., tipici della tradizione delle lotte del lavoro dipendente. E in questo sta appunto il problema, cioè nell’individuazione di possibili interessi comuni tra i segmenti del lavoro dipendente e quelli del lavoro indipendente fuori e oltre le forme di cooperazione produttiva comandate dai principi capitalistici. In riferimento a ciò nulla di concreto si è finora prefigurato come allusione a questo superamento.


Il deserto dei Tartari

Rispetto all’imponente marcia dal basso della «nuova destra sociale» politicamente rappresentata dal movimento leghista, i pochi luoghi dell’antagonismo assumono l’aspetto di fortini assediati dai quali, a proposito, esce solo qualche sbrigativa battuta dispregiativa e qualche slogan liquidatorio. Ma altro che «Sega la lega!». Per come stanno le cose è molto più probabile che presto accadrà il contrario, se non si capirà in tempo utile che il movimento-partito leghista trae origine, e forza di riproduzione, dal determinarsi di una nuova composizione sociale frutto della ristrutturazione dei processi produttivi portati a compimento nel corso del decennio Ottanta e che hanno configurato quelle «economie locali» emerse con una carica di novità già alla metà degli anni Settanta. Infatti, al contrario del modello di sviluppo basato sulla grande impresa di insediamento metropolitano, il sistema delle economie locali della provincia è uno sviluppo che non induce fratture sociali, poiché affonda le proprie radici economiche nelle tradizioni di un’area territoriale specifica in quanto a risorse culturali e materiali, prime fra queste una manodopera che spesso è altamente professionalizzata e interrelazionata da una rete di rapporti amicali quando non addirittura parentali. Le miriadi di imprese artigiane diffuse, che avevano perso protagonismo nello sviluppo economico nazionale degli anni Cinquanta e Sessanta, acquistarono, a metà degli anni Settanta, nel pieno della crisi, una straordinaria vivacità che traeva alimento principalmente dai vantaggi offerti dalla più facile riconvertibilità delle produzioni. Nelle manovre di riconversione, a differenza dei grandi poli industriali metropolitani, le piccole imprese diffuse non scontavano gli elementi ostruzionistici costituiti dalla rigidità operaia e dalle sue forme di organizzazione sindacale e politica sedimentate nel corso delle lotte degli anni Sessanta e Settanta. Inoltre, se la ristrutturazione della grande impresa abbisognava di un enorme investimento di capitali, in quella di piccole dimensioni il reperimento di crediti era meno difficoltoso, soprattutto se orchestrato tramite accordi con istituti bancari e finanziarie locali. Per questi motivi la modifica dei cicli di produzione della grande impresa dovette attendere la sconfitta della classe operaia Fiat dell’autunno 1980 mentre nei territori della microimprenditorialità venne operata anticipatamente. Il decentramento produttivo e i licenziamenti di massa nei grandi poli industriali produssero paradossalmente un vantaggio per le economie locali. Una parte consistente di forza lavoro espulsa dalle grandi imprese, che proveniva dagli hinterland e dalla provincia, ritornò nei luoghi di residenza e si reinvestì nelle strutture produttive delle economie locali. Essendo questa forza lavoro a forte caratterizzazione industriale, contribuì di fatto a incentivare i processi di autoimprenditorialità e a sprovincializzare la vecchia impresa artigiana.

A questo processo materiale non ci fu nessuna risposta da parte dello Stato. Le istituzioni locali e i partiti intuirono che l’«economia sommersa» e la «fabbrica diffusa», erano l’asse portante di una possibile ripresa dello sviluppo, ma non riuscirono ad attivare progetti politici utili allo strato imprenditoriale protagonista di questo processo. Questo strato sociale maturò la coscienza della propria scarsa rappresentatività nel sistema dei partiti tradizionali, quindi nei governi regionali e in quello centrale, per cui, una volta consolidato il proprio potere economico, ripiegò la propria politica sul localismo rivendicando la legittimità della gestione diretta delle risorse e della ricchezza prodotta, oltre che la rivalutazione delle specificità del proprio territorio. Fu in quella fase di inizio anni Ottanta che maturò il progetto politico autonomista: a sostituire le vecchie e consunte figure dei professionisti della politica partitizzati intervennero altre figure della mediazione istituzionale – commercialisti, geometri, ragionieri, architetti, piccoli e medi imprenditori – le figure cioè della gestione materiale del territorio. Furono proprio le qualità professionali di questi agenti dell’intermediazione giuridico-amministrativa tra bisogni del localismo e autorità centralista (avvertita sempre più come iniqua) a costituirli come nuovo ceto politico della progettualità politica autonomista[7]. Quindi, quel che è maturato nel corso degli anni Ottanta e che ora ci si trova davanti non ha i tratti di un processo autoritario promosso dall’“alto” del sistema dei partiti e poi calato politicamente nel sociale, come è avvenuto per esempio nella fase emergenziale di fine anni Settanta. Qui, il processo autoritario marcia dal basso, dal sociale stesso, ed e agito da soggetti che occupano posizioni centrali nell’assetto economico produttivo del territorio, cioè coloro che costituiscono i settori dell’autoimprenditoria, della piccola impresa, dell’artigianato e del commercio. A essi, inoltre, si sono man mano aggregati, in forma di consenso elettorale, settori non irrilevanti di lavoratori dipendenti. La marcia dal basso di questo movimento-partito esprime e realizza il rovesciamento di tutte le principali conquiste culturali e materiali nate con il ’68: esaltazione identificativa e autorealizzativa nel lavoro, al posto del rifiuto del lavoro; riterritorializzazione nel luogo abitato, al posto della deterritorializzazione e della mobilità; ripristino – e più spesso invenzione – della tradizione, al posto della rottura della tradizione, dei suoi miti, feticci e tabù; ripristino di una identità fondata sulla specificità dell’appartenenza etnica, religiosa, invece dell’incontro delle differenze.

Se non si riuscirà ad agire culturalmente e politicamente sui soggetti sociali referenti di questo movimento scoprendo quegli aspetti della loro soggettività alternativi a quelli agitati, enfatizzati e capitalizzati politicamente dal leghismo, si andrà inesorabilmente incontro al consolidarsi di un assetto sociale nel quale le realtà collettive antagoniste diverranno sempre più ambito ghettizzato di una marginalità residuale controllata con strumenti polizieschi, se non direttamente annientata in caso di eccessivo “disturbo”.


giugno 1993



Note

[1] Per questo scritto mi sono avvalso delle acute riflessioni di Sergio Bologna contenute nel suo Problematiche del lavoro autonomo in Italia, pubblicato sul n. 1 e n. 2 della rivista «altreragioni», Milano, 1992 e 1993; delle ricerche condotte dal Consorzio A.A.S.Ter. di Milano sul fenomeno dei localismi lombardi; ho inoltre attinto dalla ricerca da me condotta nel 1991: Tradate: ristrutturazione del mercato del lavoro e nuova composizione di classe, per conto della Segreteria Fim-Cisl Varese-Laghi. Altri preziosi contributi sono derivati dalle conversazioni con Primo Moroni della libreria Calusca City Lights di Milano e con alcune ex avanguardie operaie delle fabbriche del territorio tradatese.

[2] Sergio Bologna, La tribù delle talpe, Feltrinelli, Milano 1978.

[3] Sergio Bologna, Problematiche del lavoro autonomo in Italia, cit.

[4] Sergio Bianchi, Tradate, ristrutturazione del mercato del lavoro e nuova composizione di classe, cit.

[5] Sergio Bologna, Problematiche del lavoro autonomo in Italia, cit.

[6] Sergio Bianchi, Tradate: ristrutturazione del mercato del lavoro e nuova composizione di classe, cit.

[7] Ivi.



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