
Questo testo, scritto alle fine di un «ciclo» di tre libri sulla guerra (Guerra o rivoluzione, 2022; Guerra e moneta, 2023; Guerra civile mondiale?, 2024) precisa alcuni concetti, in modo particolare quelli di imperialismo, monopolio, guerra.
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Chi è sovrano ? Profitto e strategia
Il concetto di «imperialismo collettivo» ci permette di analizzare la natura dello Stato contemporaneo e il suo rapporto con il capitalismo.
Il nuovo imperialismo produce una differenziazione tra Stati. Mentre alcuni rafforzano sovranità e potere economico e militare dominando «grandi spazi» (Usa, Russia, Cina), altri, come gli Stati europei, hanno una sovranità più che limitata, subordinati, da tutti i punti di vista, alla mai eletta Commissione europea che, a sua volta, è agli ordini diretti del centro, gli Usa. Deleuze e Guattari, malgrado utilizzino abbondantemente la teoria dello scambio ineguale e della dipendenza, nella versione di Samir Amin in particolare, non si rifanno mai al concetto di imperialismo collettivo. La differenziazione da loro operata è sempre fatta sulla base del concetto di Stato-nazione, da cui perviene la debolezza di tutto il loro impianto teorico. Negri e Hardt invece dichiarano la fine di questa entità ma, proclamando una sovranità imperiale che non è mai esistita, non sfuggono da questo limite.
Dalla caduta del muro di Berlino in poi, infatti, si è imposta la sovranità unilaterale degli Stati Uniti sugli altri paesi a sovranità limitata.
Il limite della concezione dello Stato che ritroviamo in Deleuze e Guattari e in Negri e Hardt (e Foucault che, ricordiamo, ha «tagliato la testa al re») risiede nel concetto di capitale usato dalle loro elaborazioni, che viene inteso come forza cosmopolita che tende costantemente a superare i propri limiti e fuoriuscire di continuo dai confini dello Stato-nazione. Il capitale viene considerato come «una forza che non conosce che limiti immanenti», ma basta che la guerra (cioè una decisione politica) porti al sabotaggio di un gasdotto come il Nord Stream 2 e un’intera economia (quella europea in questo caso) comincia a vacillare. È sufficiente che l’imperialismo collettivo imponga sanzioni o dazi (altra decisione politica) e una popolazione intera può soffrire la fame o morire (vedi Iraq, Cuba, Siria, ecc., la lista è infinita). Basta che il governo americano decida che una data tecnologia non debba essere trasmessa alla Cina e la logica immanente del capitale è messa a tacere. Il mercato mondiale dimostra che i limiti del capitale non sono immanenti al suo «modo di produzione», ma sono tutti politici.
Ad oggi sembra che lo Stato cinese possa controllare politicamente la finanza, forma deterritorializzata e astratta del capitale, impedendo ai capitali stranieri di penetrare nel paese e di saccheggiarlo. Ma già durante i trenta gloriosi la forza «cosmopolita» della finanza e i suoi presunti automatismi erano stati sottoposti al potere politico degli Stati-nazione.
È solo la volontà politica di qualcuno che ha rimesso la finanza al centro dell'economia, prcesso che dunque non è figlio di caratteristiche intrinseche, di una vocazione al superamento di ogni limite che la stessa finanza ha.
La separazione «ontologica» tra Stato e capitale è esasperata da Negri e Hardt che scrivono: la «trascendenza della sovranità moderna è in conflitto con l’immanenza del capitale». Da qui la necessità dell'Impero, poiché imperialismo e Stato ostacolano lo sviluppo del capitale. Entrambe le coppie di filosofi, anche se in modo differente, sembrano opporre lo spazio liscio della produzione e del commercio, allo spazio striato delle sovranità statali. Il realtà la dinamica del capitale non è concepibile senza lo Stato; i due non si oppongono come trascendenza e immanenza; il dolce commercio non elimina la guerra; lo scambio e il mercato non possono funzionare senza il diritto. Non esiste un «modo di produzione» con le sue leggi economiche e la sovranità come modalità di intervento strumentale, per favorire o bloccare un’accumulazione autonoma. Stato e capitale costituisco da sempre una macchina comune la cui coordinazione/competizione si è approfondita a partire dalla prima guerra mondiale.
Se l’economia non ha «tagliato la testa al re», come crede Foucault, bisogna allora domandarsi, chi è «sovrano» oggi?
Cerchiamo di approfondire il rapporto che si stabilisce tra Stato e capitale interrogando la teoria dell’«Homo Sacer» di Agamben, che vorrebbe coniugare la biopolitica di Foucault con la teoria dello stato di eccezione di Schmitt (e, dunque, l’immanenza con la trascendenza).
Se è vero che «sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione», dobbiamo problematizzare le definizioni dei due termini. L'ipotesi è che, a partire della prima guerra mondiale, i due concetti non sembrano più corrispondere alle realtà ragionate da Schmitt e Agamben.
Lo stato di eccezione non può più limitarsi alla definizione data da Agamben, cioè una situazione in cui il sovrano sospende la norma giuridica affinché il sistema del diritto si possa riconfigurare. Già durante gli anni della Repubblica di Weimar lo stato di eccezione non poteva non comprendere e non avere come sua causa lo sviluppo capitalistico, l’irruzione delle masse nella politica e la possibilità della rivoluzione, la lotta di classe e la conseguente riconfigurazione dello Stato, le forze imperialiste del saccheggio coloniale e il conseguente scontro tra imperialismi,, ecc. Lo stato di eccezione riguarda la sospensione di tutte le norme (produttive, giuridiche, politiche) come condizione necessaria alla definizione di un Nuovo Ordine Mondiale e non solo in casi di «emergenza» come la pandemia. La decisione deve sostenere una realtà che è allo stesso tempo politica, statale, economica e militare, che travalica le competenze e le funzioni dello Stato di cui Schmitt piange la morte, lo Stato al di sopra delle parti, separato dalla «società», autonomo dall’economia, arbitro delle lotte di classe. Lo Stato è solo uno degli attori di questa nuova dimensione della sovranità. Tutto ciò è diventato sempre più chiaro nel progredire del secolo.
Il «Nomos della terra» è più vicino a cogliere la realtà contemporanea dello stato di eccezione perché contempla la dimensione mondiale e la divisione centro/periferia, fondamento del dominio capitalistico. Ancora più preciso è il trittico che Schmitt pone all’origine di ogni ordine: prendere, dividere, produrre. Il «prendere» (la guerra, la guerra di conquista, la guerra d’assoggettamento e il sistema statale militare che le rende possibili), il «dividere» (il diritto, la proprietà privata), il «produrre» (la forza economica) sono strettamente intrecciate e non disposte gerarchicamente. Marxianamente, potremmo definire lo stato di eccezione «accumulazione originaria» continua.
Il sovrano di Schmitt, ripreso da Agamben, attraverso lo stato di eccezione «prepara la situazione di cui il diritto ha bisogno per la propria vigenza». La situazione odierna in cui siamo immersi è stata lungamente preparata dall’imperialismo americano per fondare un nuovo ordine in cui la sua egemonia possa riprodursi, ma il sovrano di oggi non somiglia neanche lontanamente a quello che produce il corpo biopolitico nella teoria di Agamben. L’obiettivo non è salvare/riconfigurare il diritto, ma un nuovo ordine mondiale.
Per essere ancora più chiari: chi è il sovrano che decide sulla situazione di di guerra che viviamo, indispensabile alla riconfigurazione di un nuovo, chimerico, secolo americano? Lo Stato schimttiano o agambeniano? Sicuramente no!
Il «sovrano» è costituito da una serie di centri di potere che coordinandosi, scontrandosi e anche opponendosi, prendono le decisioni «esistenziali» (sono proprio questioni di vita o di morte) per gli Usa. Questi centri di potere sono: lo Stato federale, dove gli eletti contano quanto i funzionari del Deep State; la Federal Reserve che controlla il dollaro, la più importante forma di «produzione» dell’imperialismo yankee; i monopoli industriali, tecnologici e finanziari americani che gestiscono liquidità impressionanti (con la guerra si scopre che la finanza, come la moneta, ha una nazionalità!); il Pentagono, senza la cui forza non c’è nessun ordine politico e monetario; Wall Street che tiene i cordoni della Borsa, cioè della predazione; le differenti fondazioni, una più reazionaria dell’altra; le lobbies delle armi, dell’immobiliare, delle finanza. È solo dentro questo scontro/coordinamento che può emergere «la decisione», non più monopolio esclusivo dello Stato. Lo Stato rimpianto da Schmitt e ripescato da Agamben non esiste più sin dalla prima guerra mondiale.
Ritornando ai nostri giorni: chi decide della fine della guerra con la Russia, stabilendo che la situazione è sufficientemente stabilizzata? Proprio in questa occasione si può cogliere la molteplicità che costituisce il «sovrano». Infuria una battaglia politica feroce tra i diversi centri di potere per scegliere la soluzione migliore capace di assecondare le diverse strategie perseguite dai differenti blocchi di interessi che si scontrano dentro Stato, finanza, Pentagono, Federal Reserve, monopoli.
Inoltre il sovrano, sempre secondo Schmitt e Agamben, non solo crea e garantisce lo stato di eccezione, ma «decide in modo definitivo della normalità», cioè quando la situazione si può considerare sufficientemente normalizzata, condizione per l’istituzione di nuove norme, di nuove relazioni di potere, di un Ordine mondiale nuovo. Ma il sovrano statunitense, invece, non deve decidere di nessuna «normalità», perche la sua strategia è la destabilizzazione continua, il «caos» che semina la divisone. La situazione «normale» è diventata l’alimentazione continua della guerra civile mondiale.
Il medio Oriente è il terreno di sperimentazione della normalità destabilizzante yankee (vedi cosa è accaduto negli anni in Iraq, Libia, Afganistan, Siria). La guerra contro la Russia l'ha impiantata anche in Europa.
Più in generale, si può affermare che non si può concepire un «modo di produzione» separato dallo Stato. Il capitale non esiste senza lo Stato, la sua dimensione sovrana e militare è costitutiva della produzione. D’altra parte, la nuova sovranità post-schmittiana non esiste senza il capitale: come può l’accumulazione capitalistica statunitense, che presenta un deficit abissale, riprodursi senza il potere dello Stato sul dollaro e senza l’esercizio del monopolio della violenza che la garantisce? A sua volta lo Stato può sopravvivere senza la capacità della finanza di catturare valore dal mondo intero? Come può altrimenti garantire il finanziamento dell’esercito e delle 800 basi militari, finanziare jihadisti, colpi di Stato (vedi in Ucraina) e corrompere le élites «compradore»?
Deleuze e Guattari definiscono la dinamica immanente del capitale come un'assiomatica. Penso che sarebbe giusto pensare il profitto e la rendita come il risultato di una strategia in cui intervengono forze soggettive (politiche, economiche, militari statali, sociali, religiose, ecc). La guerra in corso, e il suo rapporto con l’economia, ci mostra, per chi vuole vedere, la realtà di questa strategia. Sovrano, per giocare con Schmitt, è chi decide della strategia, di cui guerra e stato di eccezione sono momenti.
Guerra e guerra civile
La nascita o lo sviluppo del capitalismo sono inseparabili dalla guerra, dalla guerra civile, dall’uso della forza e della violenza fisica su cose e persone. Il pensiero critico ha preso la cattiva abitudine di separare il politico dal militare, l’economia dalla guerra. La filosofia e la politica di Rancière sono esemplari a questo proposito. Si parla infatti di «polizia», ma mai di guerra e guerra civile. Per il pensiero critico la democrazia degli antichi, è fondata sulla «divisione del sensibile» (ancora Rancière) o sull’«agonismo tra uomini liberi» (Foucault, Deleuze), esemplare addomesticamento della guerra civile (Nicole Loraux) che le istituzioni democratiche devono continuamente scongiurare perché continuamente minacciate dal suo esplodere.
La guerra, e non il mercato (à la Foucault), costituisce il principio di veridicità della nostra attualità. Per dirla diversamente, la verità del capitalismo è il mercato mondiale dove capitale, Stato e guerra agiscono di concerto. È possibile concepire la potenza degli Stati Uniti che comandano e dis-ordinano le relazioni mondiali senza il Pentagono, senza l’esercito più potente della storia dell’umanità? Forza economica e forza politica implicano immediatamente la guerra, che conducono ininterrottamente dal 1945, con particolare ferocia durante la guerra fredda (vedi quanto è accaduto in Indonesia, Vietnam, Cile/Argentina su tutti). Il presidente Mao sosteneva che tra civile e militare non c’è una muraglia cinese invalicabile, il passaggio dall’una all’altra è sempre possibile e può avvenire in maniera molto repentina: la velocità con cui sono passati alla guerra le classi dirigenti, i media, i politici di un’ Europa fondata sulla pace, ci dice solo che la guerra è connaturata alla politica sia nel centro dell’imperialismo collettivo che, in maniera diversa, nei suoi vassalli.
La guerra, a partire dal XX secolo, non è solo il modo per risolvere i conflitti tra Stati e classi. Ha anche una funzione direttamente economica perché gioca lo stesso ruolo delle grandi invenzioni (come la macchina a vapore, la ferrovia, l'automobile). La spesa per gli armamenti è diventata una parte permanente dello stimolo e del controllo del ciclo economico (Kalecki). Gli Usa sono usciti dalla crisi del 1929 solo grazie alla guerra mondiale. E i tassi di crescita e di profitto irriproducibili del dopoguerra sono frutto della ricostruzione dell’Europa seguita alle enormi distruzioni delle due guerre mondiali.
La domanda effettiva non è riducibile alla sola spesa sociale. La componente politicamente importante è la spesa militare, ragion per cui James O’Connor, negli anni '70, non parla di Welfare, ma di warfare - welfare:
«Tanto la spesa per l’assistenza quanto la spesa militare hanno un duplice carattere: l’assistenza sociale non serve solo a controllare politicamente la popolazione eccedente, ma anche ad espandere la domanda e i mercati interni. L’apparato militare non soltanto tiene a freno i rivali stranieri e ostacola la rivoluzione mondiale (mantenendo nell’ottica capitalistica manodopera materie prime e mercati) ma contribuisce ad evitare il ristagno economico interno. Si può quindi definire il governo nazionale un warfare - welfare state».
Il concetto cardine dell’attualità sembra essere proprio quello di «warfare - welfare», dove si può cogliere la contemporaneità e reversibilità di lato civile e lato militare.
L’esercito, infatti, non ha solo funzioni militari, ma anche «civili», il passaggio dall’una altra dimensione non presenta nessun problema. A partire della seconda guerra mondiale esso ha organizzato la «big science» ed ha costituito il cuore della ricerca e dell’invenzione tecnologica e scientifica ben al di sopra delle GAFAM. Tutte le nostre tecnologie hanno un’origine militare, in modo particolare le reti digitali.
Si tratterebbe allora di mettere in discussione la celebre sentenza di Clausewitz - secondo cui «la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi» - ma anche il suo rovesciamento, compiuto da Foucault e Deleuze e Guattari - «La politica è la continuazione della guerra con altri mezzi» -, affermando che guerra e politica, guerra e economia si succedono temporalmente. Politica e Guerra sono indissociabili: la separazione dei due concetti era possibile nell'epoca in cui scriveva il generale prussiano nella prima parte del XIX secolo, ma non più oggi.
Se il pensiero critico tratta la guerra come questione congiunturale, quindi mai considerandola condizione strutturale del capitalismo, ignora invece completamente la guerra civile. L’eccezione è rappresentata da Foucault che, per qualche anno, tra il 1971 e il 1975, cerca di basare il modello delle relazioni di potere proprio sulla guerra civile. Ma il filosofo abbandonerà velocemente il progetto per seguire la via della governamentalità del biopotere e, successivamente, analizzare i processi di soggettivazione. Inoltre, non ha mai definito con chiarezza la sua idea di guerra civile.
Nel libro il cui introduce questo concetto, La società punitiva del 1973, Foucault afferma che i corsi che lo costituiscono si concentrano sull'analisi della società francese tra 1823 e 1848. Stranamente (o coerentemente) non spenderà una parola sulla vera guerra civile europea che scoppierà nel 1848. Sembra ignorare che, proprio in quel periodo, tra il 1830 e il 1848, c'è uno sconvolgimento in Europa sia a livello politico (le masse - il «leone proletario» dirà Tronti - irrompono nella lotta mondiale e non abbandoneranno più la scena) che teorico. In Germania dopo la morte di Hegel, nel 1831, divampa la critica (si espongono Feurbach, la sinistra hegeliana, Stirner, ecc.) ai fondamenti dell’Occidente (cristianesimo, filosofia, capitalismo, Stato) da cui nascerà il marxismo, teoria che guiderà le rivoluzioni vincenti del XX secolo. Foucault evita di prendere in considerazione non solo la più importante guerra civile del XIX secolo, la Comune di Parigi, ma anche le guerre civili europee che caratterizzano le due guerre mondiali, così come sembra snobbare le guerre civili mondiali lanciate dalla rivoluzione sovietica, capaci di riconfigurare completamente il globo dal punto di vista politico, economico e militare. Quindi di che guerra civile parla tra il 1971 e 1975? Non è dato sapere. Infatti abbandona il concetto.
La relazione d’inclusione escludente esercitata dal potere sovrano di Agamben, come la «partizione del sensibile» (Rancière) funziona con lo stesso principio con cui Foucault pensa la divisione ragione/follia, normale/anormale, macro/microfisica, ecc.. Relazioni di potere su cui è impossibile fondare una qualsiasi rottura radicale con il presente. A differenza della lotta di classe, che determina un taglio da cui emergono due fazioni, che si riconoscono l'un l'altra come nemico.
L’affermazione di Deleuze e Guattari secondo cui la dimensione micro-politica, se non passa alla macro-politica, non «esiste», nel senso che non ha nessuna effettività, si è pienamente realizzata con la guerra. Ma tale affermazione riguarda la loro stessa teoria perché né la macropolitica, né il passaggio da una all'altra sono mai stati definiti. L’insegnamento suicida che Foucault dispensa ai nuovi movimenti, pronti ad accoglierlo con irresponsabile spensieratezza, promuove già nel 1978 il disastro politico attuale che separa le due dimensioni: «Distogliersi da tutti quei progetti che pretendono di essere globali e radicali» e, al contrario, preferire delle «trasformazioni, anche parziali», «che concernono i nostri modi d’essere e di pensare, le relazioni d’autorità, i rapporti tra i sessi, il modo in cui percepiamo la follia o la malattia».
Se si elimina questa dimensione globale e radicale (il mercato mondiale e la rivoluzione), dove politica, economia e guerra costituiscono la verità dei rapporti di potere, si avrà l’impotenza politica contemporanea, in cui anche la possibilità della micro-politica, della microfisica del potere viene meno. Marx, sfuggendo all’accecamento teorico attuale, considera che l’agire (trasformare la soggettività, il rapporto a sé) e il fare (trasformare le relazioni di potere del mondo) sono momenti della stessa prassi rivoluzionaria: «La coincidenza tra il cambiamento delle circostanze e dell'attività umana o il cambiamento di sé può essere colta e compresa razionalmente solo come pratica rivoluzionaria».
Alain Badiou pensa che per cogliere i limiti delle rivoluzioni del XX secolo bisogna guardare alle condizioni che le hanno prodotte, le guerre. È la guerra che impone la forma dell’organizzazione. Dunque guerra e guerra civile obbligano anche l’azione militare. Non ha però mai spiegato quali altre strategie avrebbero potuto permettere di raggiungere gli stessi obiettivi delle rivoluzioni del XX secolo. Nella sua concezione della politica «non sono i rapporti di forza che contano». Badiou rifiuta tutti i concetti che hanno fatto la fortuna delle rivoluzioni (strategia, tattica, offensiva difensiva, mobilizzazione, ecc.) perché militarizzano il pensiero. Dobbiamo, secondo il pensatore francese, addirittura dubitare della rilevanza del concetto di «antagonismo». «Che cos’è una politica radicale (…) che mantenga e pratichi la giustizia e l’uguaglianza, e che tuttavia presuppone il tempo della pace e non sia nella vana attesa del cataclisma»? Non lo sapremo mai.
L’insieme del pensiero critico occidentale non ha capito la strategia del capitale e dello Stato (entrambi di fattura anglo-americana) degli anni '70 e si è quindi infilato in strade senza uscita. Negri afferma che Mille Plateaux di Deleuze e Guattari, traduce il '68. Nel 1980, anno di pubblicazione del libro, sono però mutati proletariato e rapporti di forza; in più, è in corso una controrivoluzione che già sconfitto quella «strana rivoluzione». Foucault, nel 1978, teorizza una «storia indefinitamente aperta» e una «destabilizzazione dei meccanismi di potere apparentemente senza fine», quando invece sta accadendo esattamente il contrario. Lo Spinoza di Negri dichiara, malgrado la sconfitta acclarata della rivoluzione, la sua continuazione «ontologica», per cui il proletariato più debole, disorganizzato e disorientato della storia del capitalismo, assurge a espressione di una potenza irreversibile. Proprio nel 1979, un decennio dopo il suo inizio, la prima fase della contro-rivoluzione, quella dello scontro frontale, è chiusa con il rialzo spettacolare dei tassi di interesse da parte della Fed, che sancisce così la sconfitta della rivoluzione mondiale e celebra la strategia politica di finanziarizzazione dell’economia americana fondata sul debito, mossa pienamente compresa, tra marxisti e pensatori critici, solo da Paul Sweezy.
La situazione contemporanea, al di là delle impasses del pensiero critico, si presenta di nuovo, come un possibile momento leninista. È sempre la guerra che agisce da «vigoroso acceleratore» dei conflitti e delle eventuali rotture. Ma la fiducia che ripone Mao nell’esito rivoluzionario delle guerre mondiali, che gli imperialisti si ostinano a scatenare coerentemente alla loro strategia, è incomprensibile al pensiero critico occidentale che non ha la stessa «lucidità», né la stessa ostinazione, né la stessa determinazione, né lo stesso odio di classe del nemico e che, inoltre, manca di ogni strategia.
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Maurizio Lazzarato vive e lavora a Parigi. Tra le sue pubblicazioni con DeriveApprodi: La fabbrica dell’uomo indebitato(2012), Il governo dell’uomo indebitato(2013), Il capitalismo odia tutti(2019), Guerra o rivoluzione (2022), Guerra e moneta (2023). Il suo ultimo lavoro è: Guerra civile mondiale? (2024).
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