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I vicoli ciechi del pensiero critico occidentale (I)


Öyvind Fahlström, Mao-Hope March, 1966
Öyvind Fahlström, Mao-Hope March, 1966

Questo testo, scritto alle fine di un «ciclo» di tre libri sulla guerra (Guerra o rivoluzione, 2022; Guerra e moneta, 2023; Guerra civile mondiale?, 2024) precisa alcuni concetti, in modo particolare quelli di imperialismo, monopolio, guerra.

Pubblichiamo oggi la prima parte, in cui Lazzarato si concentra su imperialismo e monopolio.


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In questo momento in tutto il mondo si discute della possibilità di una terza guerra mondiale. Dobbiamo essere psicologicamente preparati a questa eventualità e considerarla analiticamente. Noi siamo decisamente per la pace e contro la guerra. Ma se gli imperialisti insistono nel voler iniziare un'altra guerra, non dobbiamo avere paura. Il nostro atteggiamento nei confronti di questo problema è lo stesso di tutti i disordini: in primo luogo, siamo contrari e, in secondo luogo, non ne abbiamo paura. La prima guerra mondiale è stata seguita dalla nascita dell'Unione Sovietica, con una popolazione di 200 milioni di abitanti. La seconda guerra mondiale è stata seguita dalla formazione del campo socialista, con una popolazione di 900 milioni di abitanti. È certo che se gli imperialisti si ostinano a scatenare una terza guerra mondiale, centinaia di milioni di persone passeranno dalla parte del socialismo e non rimarrà molto spazio sulla terra per gli imperialisti; è persino possibile che il sistema imperialista crolli completamente.

 Mao Tse-tung

 

Ognuno può vedere quanto manchi di tatto il Rabocheye Dyelo quando agita trionfalmente la frase di Marx : «Ogni passo del movimento reale è più importante di una dozzina di programmi». Ripetere queste parole in un momento di sbandamento teorico, è come «fare dello spirito a un funerale».

Lenin

 

 

L' affermazione di Mao sembra essere stata scritta per la nostra attualità. Ma siamo psicologicamente impreparati alla realtà della guerra e ancor meno a considerare analiticamente le sue cause, le sue ragioni e le possibilità che potrebbe aprire. Ci mancano gli «affetti» e i concetti per farlo. Il pensiero critico occidentale (Foucault, Negri - Hardt, Agamben, Esposito, Rancière, Deleuze e Guattari, Badiou, per nominare i più significativi) ci ha disarmati, lasciandoci inermi di fronte allo scontro di classe e alla guerra tra Stati, non avendo i concetti per anticipare né per analizzare, né tanto meno per intervenire. Lo «sbandamento teorico» prodotto negli ultimi cinquanta anni è grande. Non si tratta di sopravvalutare la teoria, ma senza quest’ultima, come diceva qualcuno, «non ci può essere movimento rivoluzionario»

È molto difficile sviluppare in un articolo una critica complessiva di un progetto, andato incontro al fallimento, che si è posto l’obiettivo di superare i limiti del marxismo. Ci limiteremo a analizzare i guasti profondi prodotti dall’assenza di tre parole chiave: imperialismo, monopolio e guerra, la cui rimozione impedisce di capire cosa sono diventati il capitale, lo Stato, il loro rapporto e l’azione politica[1].

 

L’imperialismo

Il concetto di imperialismo è stato praticamente rimosso da tutte queste teorie, in maniera più o meno esplicita. Negri e Hardt, all’inizio del nuovo millennio, hanno pensato bene di dare consistenza teorica a questa rimozione, decretando: «L’imperialismo è finito. Nessuna nazione sarà un leader mondiale come le furono le nazioni europee moderne. Né gli Stati Uniti, né alcuno Stato-nazione costituiscono attualmente il centro di un progetto imperialista».

L’«Impero» si impone come alternativa alla sovranità moderna, disegnando un nuovo ordine mondiale che fa saltare quel rapporto centro-periferia a partire dal quale il capitalismo era nato e si era sviluppato. Se non c’è più un centro, non c’è più nemmeno una periferia, «le divisioni tra primo, secondo e terzo mondo si confondono».

Nella nuova sovranità sovra-nazionale «i conflitti e le rivalità tra le varie potenze imperialistiche sono stati per molti versi sostituiti da un’idea di un unico potere che le sovrasta tutte, le organizza in una struttura unitaria» e in  un diritto comune «post-imperialista e post-coloniale». Il «definitivo declino dello Stato-nazione»  metterebbe fine «all’era dei grandi conflitti [...]  La storia delle guerre imperialiste, interimperialiste e antimperialiste è finita».

Una governance mondiale e sovrastatale porta con sé la «pace». Così facendo, le guerre si riducono a semplici operazioni di polizia. Un’idea simile la troviamo in Deleuze e Guattari secondo cui la guerra mondiale avrebbe prodotto una macchina globale dove gli Stati assumono un ruolo subordinato. Anche qui il risultato è la «pace assoluta della sopravvivenza». La pace, per entrambe le coppie di filosofi, non è il contrario della guerra: è una pace terribile, una pace «securitaria» imposta dalla machina globale. Ma resta il fatto che per loro «la guerra civile mondiale» di Schmitt e Arendt non è più d’attualità.

Ancora: «L’espansione imperiale non ha nulla a che fare con l’imperialismo e neppure con l’iniziativa delle forme statuali votate alla conquista, al saccheggio, al genocidio, alla colonizzazione e alla schiavitù. Contro questo imperialismo, l’Impero estende e consolida il modello della rete di poteri» che sarà descritta, nella sua molteplicità orizzontale (ontologia piatta, per usare un termine alla moda qualche anno fa) dalla teoria del «biopotere» e della «società di controllo».

Gli Stati Uniti, secondo tale teoria, non sono né la potenza globale egemone sul mercato mondiale, né una vecchia forza imperialista. Avranno invece il compito di traghettare il mondo verso questo nuovo sistema sovrastante gli Stati, che integra le differenze piuttosto che escluderle, poichè la costituzione americana è già di suo imperiale, «fondata sull’esodo, su valori affermativi e non dialettici, sul pluralismo e sulla libertà».

Il mercato mondiale si costruisce a partire da «un regime monetario universale», in cui tutte le monete nazionali «tendono a perdere qualunque titolo di sovranità». Il denaro «è l’arbitro imperiale, ma non possiede alcuna localizzazione precisa, né status trascendente», il che significa che l’Impero annulla il potere del dollaro come moneta internazionale.

La «moltitudine» è l’altra faccia dell’Impero, composizione del proletariato  contemporaneo, diventata «autonoma e indipendente». «La cooperazione sociale non è più il risultato dell’investimento capitalistico, ma il patrimonio del potere autonomo» - della moltitudine, aggiungo. «Siamo noi i padroni del mondo» perché la moltitudine «col proprio lavoro produce e riproduce autonomamente l’intero mondo della vita».

Per Machiavelli il progetto di costruire una nuova società dal basso richiede «armi» e «denaro». «Spinoza risponde: ma non li possediamo già? Le armi che ci sono necessarie non sono già in possesso del potere creativo e profetico della moltitudine, della sua produttività?».

La critica a questi concetti è già stata fatta dalla realtà dell’imperialismo, del genocidio, dei monopoli finanziarizzati, della guerra e delle guerre civili; dall’impotenza dei nuovi movimenti che senza «armi», «denaro» e «autonomia» stanno perdendo, uno ad uno, tutti – ma proprio tutti –  i diritti sociali e politici conquistati in due secoli di lotte e rivoluzioni; la molteplicità dei movimenti si rivela afasica, inconsistente, disorientata con lo scoppio della guerra, possibilità non contemplata nelle loro teorie e nei loro programmi.

È interessante riportare il punto di vista di un marxista del Sud, secondo cui «l’imperialismo è uno stadio permanente del capitalismo». Samir Amin, già nel 1978, partendo dalla continuità secolare dello «spossessamento» delle periferie da parte del centro, anticipa lo sviluppo della situazione politica attuale in modo sorprendente. Dopo il 1945 la configurazione dell’imperialismo cambia profondamente. Si costruisce un «imperialismo collettivo» – comprendente gli Stati Uniti, l’Europa e il Giappone – animato da una cooperazione/competizione gerarchica al cui centro ci sono gli Usa, mentre gli «alleati» sono anch’essi oggetti di dominio. L’imperialismo collettivo non sviluppa più conflitti interimperialisti tra gli Stati del Nord, ma è invece in guerra permanente con il Sud globale, perchè «lo sviluppo del sottosviluppo», lo «sviluppo lumpen» imposto ai paesi del Sud, è ancora e sempre una condizione dell’accumulazione del Nord. Nel capitalismo globale lo spazio non può mai essere «liscio», è sempre necessariamente polarizzato.

La teoria dell’imperialismo collettivo si perfeziona seguendo il filo degli avvenimenti e, dopo la caduta del muro di Berlino, annuncia – previsione anche questa confermata –  che l’imperialismo degli Usa ha definito i nemici principali della sua feroce volontà di egemonia unilaterale: in testa la Russia, poi la Cina e quindi l’Europa[2]. Mentre quest’ultima non persegue nessuna strategia autonoma, il Sud si è rafforzato grazie alla mondializzazione lanciata dagli Usa e, a sua volta, espande la sua forza economica (Cina) e politico/territoriale (Turchia, Russia) entrando in concorrenza con l’imperialismo collettivo.

 

Lungimiranza di un marxismo non occidentale: non solo la guerra al Sud è diventata realtà, ma l’Europa e il Giappone si sono docilmente trasformate in colonie a tutti gli effetti e le loro economie sono state messe in ginocchio dall’alleato americano. Gli Usa si sono salvati dalla bancarotta grazie al saccheggio garantito dal monopolio pubblico della loro moneta, il dollaro, e dai monopoli privati dei fondi di investimento che spossessano gli altri paesi della loro ricchezza e del loro risparmio per finanziare l’enorme deficit dell' «american way of life».

La teoria dell’imperialismo collettivo è fondata su un’altra ipotesi strategica problematica, ma che merita di essere discussa: la contraddizione principale è tra un centro e una periferia sempre meno periferica. La gerarchia imperialista invece di sparire nella confusione tra primo, secondo e terzo mondo, si polarizza in maniera radicale su iniziativa del centro. Anche questa ipotesi sembra confermarsi: contrapposizione economico-politica tra G7 e BRICS, confronto militare contro il proletariato del Sud, esemplificato dal genocidio palestinese. I punti di scontro sono tutti tra Nato, Usa e Israele e quello che il centro considera come nemico (Russia, proletariato arabo, Cina), almeno fino al cambio attuale di presidenza.

Samir Amin ritiene che «Impero» produce un’identificazione deplorabile tra imperialismo e colonialismo che trae in errore Negri e Hardt, per cui la fine del secondo determinerebbe la fine del primo. L’economista franco-egiziano afferma provocatoriamente che la Svizzera è un paese imperialista perché partecipa allo «sviluppo del sottosviluppo», vera definizione dell’imperialismo, anche senza avere una sola colonia[3].

 

Il monopolio

 Deleuze e Guattari non si limitano a rifiutare il concetto di imperialismo, rimuovono anche un’altra fondamentale categoria del lavoro di Samir Amin, il monopolio. Sembrano ignorare l’insegnamento di Fernand Braudel, secondo cui il capitalismo è sempre stato dominato da essi, fin da quando si presentava come monopolio mercantile. Da allora il processo di centralizzazione non ha fatto che intensificarsi, accelerando ancora a partire dagli anni ‘70, raggiungendo il culmine - inaspettato sia per le dimensioni che per la sua natura finanziaria e non più industriale - proprio in questi anni.

A leggere Foucault, Deleuze e Guattari, Negri, ecc., sembra che dopo il ‘68 il processo di centralizzazione sia stato bloccato e addirittura rovesciato. L’accento è messo sull’orizzontalità del potere, sulla sua dispersione e diffusione locale, sulla micropolitica: per Deleuze il «capitalismo del XIX secolo è per la concentrazione» mentre oggi è «essenzialmente dispersivo». I «dispositivi» della scuola, dell’ospedale, della fabbrica si sono aperti, tracciando uno «spazio liscio» che è il corrispettivo interno dello spazio liscio del mercato mondiale. Non convergono più verso un «proprietario, Stato o potenza privata». Il «potere ha per caratteristica l’immanenza del suo campo, senza unificazione trascendente, senza centralizzazione globale».

Ma è sicuramente Foucault che cancella radicalmente, nei suoi corsi sulla nascita della biopolitica, i processi di centralizzazione capitalista,  d’unificazione trascendente, di centralizzazione globale, «tagliando la testa al re» e producendo così un radicale e nefasto controsenso politico.

 

Le categorie di biopotere e di società del controllo vorrebbero introdurre una nuova concezione del potere capace di criticare ogni forma di sovranità, di «eccesso di potere» sulla soggettività. La governamentalità biopolitica ha come scienza del suo esercizio l’economia politica, che Foucault definisce una «disciplina atea, senza Dio, senza totalità, senza Sovrano». Manifesterebbe «non solo l'inutilità, ma l'impossibilità di un punto di vista sovrano» e affermerebbe l’esistenza di una «molteplicità non totalizzabile». Il sovrano viene eliminato dall’organizzazione del mercato, istituzione che forma i prezzi senza l’intervento di nessuna autorità ma unicamente attraverso l’impersonalità della concorrenza.

Non è importante sapere se Foucault avesse simpatie per il liberalismo, ma essere coscienti che la concezione del funzionamento dell’economia fondata sul mercato e la concorrenza – in quanto dispositivo impersonale capace di determinare i prezzi cortocircuitando ogni concentrazione monopolistica di potere –  è coerente con la sua visione del potere.

La teoria del biopolitico e della società del controllo (categorie completamente assunte da Negri e Hardt), vedono solo il movimento della diffusione orizzontale, la micropolitica dell’accumulazione del profitto e del  potere e non colgono l’altra dinamica, quella centralizzante che comanda, decide e organizza la dispersione orizzontale delle relazioni di dominio e sfruttamento. In altre parole: la diffusione è funzione del monopolio. I due movimenti sono sempre esistiti insieme –  Marx li descrive già ne Il 18 brumaio – ma è la centralizzazione che esercita potere e comando sul decentramento. La guerra è un potente strumento di veridicità, perché porta in prima piano la dinamica dei monopoli che il pensiero critico ha rimosso.

Samir Amin insiste sul cambiamento nella continuità. L’imperialismo ha una nuova configurazione, così, a partire dal 1973-1975, viene fuori il monopolio descritto da Baran e Sweezy. A questo proposito parla di «monopolio generalizzato», perché tutti gli elementi produttivi diffusi nel territorio e nel pianeta sono comandati e catturati dai monopoli. Non c’è più spazio per alcuna entità autonoma, indipendente. Un esempio viene  dall’agricoltura: i contadini «indipendenti» dipendono di fatto dai monopoli, a monte per le sementi, il credito, i tipi di produzione, ecc., a valle perché la vendita del prodotto è tra le mani della grande distribuzione che decide i prezzi. Al contrario di ciò che crede la biopolitica, il mercato non produce in maniera immanente i prezzi. Per ogni settore, per ogni asset finanziaro, i prezzi sono fissati da un numero ristretto di imprese, che subito dopo la pandemia hanno scatenato l’inflazione da profitti a livello mondiale. I prezzi non sono funzione della «domanda e dell’offerta», ma della speculazione per la rendita (vedi il «mercato» del gas di Amsterdam dove opera la speculazione da derivati che, il 26 agosto 2022, ha fatto aumentare di dieci volte il suo valore a fronte di variazioni minime della domanda reale).

Samir Amin ricostruisce così una nuova tappa dello sviluppo della centralizzazione della produzione. Ma a partire dalla crisi del 2008 si è sviluppata un’ulteriore centralizzazione inimmaginabile per il monopolio industriale. Un numero ristrettissimo di fondi pensione e d’investimento, che raccolgono il risparmio statunitense, europeo e mondiale e lo investono nel debito americano o in asset finanziari, detiene una cifra astronomica di 55.000 miliardi di dollari, di cui tra poco vedremo il senso e il funzionamento.

Mentre il potere sovrano esercita il diritto di «far morire e lasciar vivere», l’evizione del sovrano apre, secondo Foucault, ad una gestione positiva del potere che esercita un nuovo diritto, «far vivere e lasciar morire», una tecnica di «gestione della vita» capace di farla «proliferare». Questa nuova dimensione del potere ci fa in un certo senso uscire dal capitalismo, almeno dagli effetti che questo produceva nel XIX secolo e nella prima parte del XX secolo. Il nostro problema non sarebbe più la produzione del profitto che crea contemporaneamente la ricchezza dei pochi e la miseria dei molti. Oggi, secondo il filosofo francese, più che il profitto il problema è il «troppo potere» che si esercita sul corpo, l’eccesso di dominio individualizzante sulla soggettività

Ciò da cui dobbiamo difenderci «sono gli effetti del potere in quanto tale. Ad esempio, la critica mossa alla professione medica non è principalmente quella di essere un'impresa a scopo di lucro, ma di esercitare un potere incontrollato sul corpo delle persone, sulla loro salute, sulla loro vita e sulla loro morte».

È proprio a partire dalla medicina come azione biopolitica per eccellenza  che possiamo constatare l’inadeguatezza delle nuove categorie di Foucault. Recentemente Luigi Mangione ha sparato e ucciso Brian Thompson, CEO di UnitedHealthcare (UHC), rimettendo al centro del dibattito le assicurazioni private, cavallo di battaglia contro lo Stato sociale (in Francia promosse da uno stretto collaboratore di Foucault, François Ewald). Il biopotere, prendendosi cura delle forze della vita, avrebbe come obiettivo di «farle crescere e ordinarle, invece di essere votato a sbarrare il loro sviluppo, a piegarle o a distruggerle». Negli Stati Uniti le assicurazioni sanitarie hanno invece come unico e esclusivo obiettivo: il profitto (e il potere necessario a garantirlo) che ricavano, letteralmente, dalla pelle (dalla «vita») degli assicurati a cui negano le cure necessarie. Nel 2023 UnitedHealthcare ha ricavato 22 miliardi di dollari di profitti estorti a pazienti, medici e infermieri, e li ha trasferiti nelle tasche degli azionisti. Mangione è diventato un eroe nazionale (si raccolgono fondi per la sua difesa, ci si mobilita davanti al tribunale, lo si difende nei social media) perché il cittadino statunitense, se ha i soldi, paga molto per un servizio pessimo. Se non ha soldi semplicemente non si cura. Gli Usa sono al 46 posto per la speranza di vita con una spesa sanitaria doppia che è il doppio di quella europea e che viene tutta trasformata in rendita/profitto. Decisivo è il ruolo che gioca il monopolio finanziario dei fondi pensione che possiede tra il 20 e il 25% di tutte le prime dieci assicurazioni. I maggiori azionisti di UnitedHealth sono il gigante della gestione patrimoniale Vanguard, che detiene una quota del 9%, seguito da BlackRock (8%) e Fidelity (5,2%).

Sono i monopoli - e non il mercato - a fare i prezzi e a decidere le politiche di copertura degli «assicurati». La descrizione dell’ospedale fatta da Deleuze, che da struttura chiusa si apre e modifica di conseguenza il suo modo di curare («settorizzazione, ospedale di giorno, cure a domicilio»), non coglie l’aspetto finanziario del problema, che è il vero e unico punto che interessa all’avidità dei capitalisti. Il nuovo modo di curare, infatti, è finalizzato a ridurre i costi.

Mentre Foucault descriveva la sua biopolitica (1978 - 1979) e le nuove modalità di esercizio del potere sulla soggettività, il capitalismo e lo Stato (anglo-americani) si stavano riorganizzando da più di un decennio, per mettere al centro della loro politica, ancora e sempre, il vecchio profitto, assicurato, sempre e comunque, sicuramente non dal mercato degli ordo-liberisti o dei neo liberisti, ma dal monopolio economico, dal monopolio del potere esecutivo, dal monopolio dell’uso della forza militare. 

La cancellazione dell’azione «sovrana» del monopolio, la negazione della centralizzazione e della verticalità del potere, hanno delle conseguenze perniciose anche sul concetto di potere, che risulta radicalmente pacificato. Dice Foucault: «Una relazione di potere è una modalità di azione che non agisce direttamente e immediatamente sugli altri, ma agisce sulla propria azione. Un'azione sull'azione, sulle azioni possibili, attuali, future o presenti» mentre «una relazione di violenza agisce su un corpo, sulle cose: costringe, piega, spezza, distrugge». Molto pericoloso ridurre il potere ad affetto, «potere di produrre affezioni» e di «essere affetti» (Deleuze). In questo modo viene eliminata la violenza fisica, la distruzione di cose e persone che è invece ciò che sta proliferando come une metastasi su tutto il pianeta. Il monopolio della violenza fisica trova nel genocidio in corso la massima espressione «del diritto di far morire», mai scalfito dal biopotere di «far vivere». Foucault ammette ancora la sua possibilità ma non per le buone ragioni: «Se il genocidio è il sogno dei poteri moderni, non è oggi per un ritorno del vecchio potere di uccidere; è perché il potere si situa e si esercita al livello della vita, della specie, della razza e di fenomeni massicci della popolazione». Il fondamento della guerra, della guerra civile, della predazione, del dominio e del genocidio, delle guerre razziali contemporanee, si fonda, oggi come ieri, sulla sete di profitto e sulla volontà di potenza dell’imperialismo collettivo. Il regime di guerra distrugge lo Stato sociale e il suo prendersi cura della popolazione, privatizzandolo e finalizzando le sue spese agli armamenti per il benessere degli azionisti del «far morire» che invece la vera e propria industria contemporanea.


Note

[1] Queste tre categorie sono assenti da tutte le definizioni post-moderne del capitalismo (cognitivo, semiotico, bio-politico, neuronale, delle piattaforme, della riproduzione, ecc.) che hanno un punto di vista eurocentrico, per cui non sono di grande utilità per capire cosa sta succedendo.

[2]A partire dalla presidenza Clinton (anni ‘90 del secolo scorso) l’allargamento della Nato contro la Russia è deciso, perseguito da tutti i presidenti (Obama, nell’interregno prima dell’investitura di Trump, installerà i missili in Polonia), contro il parere di una cinquantina di alti funzionari che avevano pensato e organizzato il containment dell’Unione Sovietica. Trenta anni fa essi, in una lettera a Clinton, esortavano ad abbandonare l’allargamento della Nato perché prevedevano quello che abbiamo sotto gli occhi, la guerra in Europa.

[3] Centrale nella produzione del sottosviluppo è stato il debito, presentato come aiuto allo sviluppo dei paesi del Sud, mentre invece non ha fatto altro che aumentare il loro indebitamento e costringerli a svendere i diritti minerari, le infrastrutture (porti, reti di comunicazione, autostrade, ecc.) e le imprese pubbliche per raccogliere il denaro necessario a ripagare i prestiti.


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Maurizio Lazzarato vive e lavora a Parigi. Tra le sue pubblicazioni con DeriveApprodi: La fabbrica dell’uomo indebitato(2012), Il governo dell’uomo indebitato(2013), Il capitalismo odia tutti(2019), Guerra o rivoluzione (2022), Guerra e moneta (2023). Il suo ultimo lavoro è: Guerra civile mondiale? (2024).

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