Pubblichiamo la prima parte di un articolo di Adriano Bertollini che esplora, attraverso la filosofia, il filone della «non fiction» cercando di definirne le peculiarità e indagando il suo ruolo nella comprensione del mondo contemporaneo.
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Questo è un libro di storie, non di storia
Luca Rastello, La guerra in casa
Scampoli di realtà in mari di finzione
Tommaso Pincio, Hotel a zero stelle
1. Da Aristotele a Truman Capote
Per quanto paradossale possa sembrare, una via d’accesso alla letteratura d’oggi può venire cercata in una mappa molto antica: la Poetica di Aristotele. Testo fondativo dell’estetica occidentale, secondo alcuni è proprio lì che si trovano delle coordinate acconce ad afferrare il contemporaneo. Il luogo testuale è celeberrimo, siamo nel capitolo – il nono – in cui la poesia viene distinta dalla storia:
Da ciò che si è detto risulta evidente che opera del poeta non è dire le cose accadute, ma quali potrebbero accadere e le cose possibili secondo probabilità [kata to eikos] o necessità [anankaion]. Lo storico e il poeta, infatti, non differiscono per il parlare uno in versi e l’altro in prosa […], ma […] per questo: per dire uno le cose accadute e l’altro le cose quali potrebbero accadere. Perciò la produzione poetica è più filosofica e seria della narrazione storica: […] infatti, dice soprattutto le cose universali, mentre la narrazione storica dice il particolare. È universale quali cose a quali persone capiti di dire o fare secondo probabilità o necessità […] mentre il particolare è cosa Alcibiade fece o cosa gli capitò (Poet., 1451 a36-b7).
Nell’accezione aurorale proposta da Aristotele, «storia» non va intesa come potremmo fare oggi, cioè come un genere letterario che verte sul cambiamento delle forme produttive e istituzionali, riconducibile alla specifica temporalità umana (Mazzeo, 2021). Storico è semplicemente ciò che può vantare fattezze empiriche: accadimenti effettivi di contro a eventi possibili o verosimili. In un recente studio monografico sulla cosiddetta non fiction, è proprio la nozione aristotelica a venire impiegata quale criterio distintivo (Marchese, 2019, p. 17): si tratta di «un tipo di discorso narrativo che s’incarica di raccontare storie realmente avvenute e documentabili (in particolare dalla cronaca recente) usando gli strumenti formali e le strategie retoriche della letteratura d’invenzione (comunemente ricondotta alla grande galassia della fiction)» (ivi, p. 42).
La fortuna dell’etichetta «non-fiction» è legata a doppio filo a quella di un grande successo letterario americano, A sangue freddo di Truman Capote (1966), in cui viene raccontato della strage per futili motivi, da parte di due spostati, di una famiglia numerosa in una cittadina del Kansas. Sul risvolto di copertina della prima edizione si descriveva il libro come «il culmine dell’aspirazione di lunga data [di Capote] di dare un contributo alla fondazione di un’importante nuova forma letteraria: il romanzo di nonfiction [nonfiction novel]» (Zavarzadeh, 1979, p. 72). E tuttavia la piega che prenderà questa «nuova forma» sarà parzialmente divergente rispetto al capolavoro di Capote, in cui il racconto è in terza persona e il narratore onnisciente è esterno alla vicenda, sul modello del grande romanzo realista ottocentesco. Flaubert più fatti di cronaca: questa è, con una battuta, la direzione che indica In Cold Blood e che, come dicevamo, non è seguita per intero dagli sviluppi più recenti. Vi è infatti un secondo criterio distintivo per la costellazione menzionata ed è la presenza dell’autore come personaggio, il coinvolgimento nei fatti narrati da parte di chi li narra. Che si accompagna, come è logico, a una scrittura in prima persona, scevra della pretesa oggettività e trasparenza a cui aveva ambito A sangue freddo.
Abbiamo così un vasto agglomerato di testi che ruotano attorno all’io narrante e agli eventi empirici in cui quell’io è in qualche modo coinvolto. E che, stando a quanto sostengono critici e teorici [1], si oppone al nonfiction novel anche per il fatto che è difficilmente riconducibile al novel, al romanzo. Siamo piuttosto di fronte a un pasticcio di generi, un melting pot letterario in cui si avvicendano e convivono reportage, saggio, memorialistica, biografia e autobiografia, diario, odeporica, inchiesta. Uno spazio contaminato e costitutivamente aperto a sovrapposizioni, intersezioni, ibridazioni.
Sebbene esistano libri che per molti versi l’hanno anticipata (per esempio, in Italia, le opere di Sciascia e Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi), la non fiction si afferma in campo nazionale e internazionale nel corso degli ultimi trent’anni, all’incirca dal decennio conclusivo del secolo scorso, e ha avuto la sua consacrazione, almeno a casa nostra, con Gomorra di Roberto Saviano (2006). Non un caso isolato e ristretto al Bel Paese. Basti pensare, solo per citarne alcuni, ai bestseller di Carrère – uno su tutti: L’avversario –, oppure a Una cosa divertente che non farò maipiù di David Foster Wallace (1997), allo spagnolo Javier Cercas e al tedesco Ferdinand von Schirach, fino ad arrivare alla lontana India, col grande successo di Maximum City di Sukhetu Metha (2004). La stagione è fertile e continua a dare i suoi frutti: per rimanere sull’attualità strettissima, non si può non citare La città dei vivi di Nicola Lagioia (2020), già premio Strega, che ha avuto grande risonanza e numerose ristampe e in cui si ricostruisce il recente e feroce omicidio di Luca Varani a opera di Manuel Foffo e Marco Prato.
Quanto segue non è un lavoro di critica o teoria della letteratura, ma piuttosto un tentativo di interrogare alcuni nodi salienti di questo filone, nell’auspicio che così facendo si possa trovare qualche appiglio per afferrare la nostra magmatica attualità. Si tratta di capire, con strumenti filosofici, se la non fiction possa avere un valore esemplare e dunque fungere da lente – non necessariamente limpida, ma magari opaca e crepata – con cui guardare all’oggi e mettere meglio a fuoco la condizione dell’essere umano nell’epoca del tardo capitalismo. Un primo approccio in vista di un’ontologia del presente, che offra non conclusioni solide ma fragili ipotesi, più simile – nelle intenzioni – agli schizzi paesaggistici di wittgensteiniana memoria che a una ricostruzione sistematica di un quadro coerente di problemi.
2. «Scampoli di realtà in mari di finzione»
In un’epoca in cui le vendite dei quotidiani calano di anno in anno e in cui chiunque abbia uno smartphone e un account social può trasformarsi in reporter, si potrebbe sospettare che la non fiction abbia preso il posto del giornalismo in crisi o che quest’ultimo sia migrato verso altri lidi, colonizzando la letteratura. L’anelito verso la realtà empirica, o la storicità in senso aristotelico, è in effetti comune a entrambi e le strizzate d’occhio tra i due campi non appartengono solo al passato recente. Basti pensare che Il rosso e il nero trae spunto da un fatto di cronaca e che Defoe, uno dei fondatori del romanzo borghese, aveva lungamente lavorato come cronista (per non menzionare il ben più celebre caso di Hemingway) [2].
E tuttavia c’è una differenza fondamentale rispetto al discorso giornalistico (e anche al discorso storico) [3], che sta tutta nella diversa relazione con le fonti: per lo studioso di storia e il reporter un limite insuperabile, per l’autore di non fiction una delle risorse con cui giungere alla verità. Non che sia assente un apparato documentale con cui sostenere le proprie ricostruzioni o dare forza a un’ipotesi interpretativa, e anzi, spesso questi testi sono ricchi di prove del genere. Eppure, il perno attorno cui ruota il processo di veridizione è un altro: la cronaca non basta, serve qualcosa di più. Ed è qui che interviene la letteratura. L’idea di fondo è che si possa raggiungere una verità più vera se si integra la mera ricostruzione fattuale con gli strumenti tipici della scrittura di finzione. Non soltanto gli artifici retorici e stilistici (su cui torneremo) ma anche la vera e propria invenzione narrativa: l’aggiunta di particolari, di episodi immaginari, il racconto di dialoghi di cui non si può essere stati testimoni o dei pensieri dei personaggi sono alcuni degli elementi che contribuiscono, simultaneamente, a spostare il testo in un campo diverso e a consentirgli una maggiore presa sugli eventi narrati. Con l’esito – a prima vista controintuitivo – per cui è inventando storie che ci si avvicina di più alle storie realmente avvenute.
Non di rado sono gli stessi autori a riflettere sul loro operato e a segnalare questa tensione. Lo fa Carrère ne L’avversario, in cui racconta la storia di Jean-Claude Romand, che per decenni aveva mentito alla sua famiglia circa la sua professione e che ogni giorno usciva di casa non per andare a lavoro ma per passeggiare senza meta o dormire in macchina. Fino al momento in cui non regge più la menzogna e assassina tutti i suoi familiari. Meditando sul suo operato, l’autore dichiara che
anche se avessi condotto un’inchiesta per conto mio, anche se avessi saputo violare il segreto istruttorio, avrei portato alla luce soltanto dei fatti. I particolari delle appropriazioni indebite di Romand, il modo in cui, anno dopo anno, aveva organizzato la sua doppia vita, il ruolo svolto da Tizio o da Caio, erano tutte cose che avrei saputo al momento opportuno, ma non mi avrebbero rivelato nulla di quanto mi premeva davvero sapere: che cosa gli frullasse per la testa durante le giornate in cui gli altri lo credevano in ufficio, giornate che non trascorreva, come si era ipotizzato inizialmente, trafficando armi o segreti industriali, ma camminando nei boschi (Carrère, 2000, p. 22).
Nella sua ricostruzione-inchiesta sulla morte del giornalista Giancarlo Siani ad opera della camorra, Antonio Franchini riflette sullo statuto della letteratura di fronte a eventi estremi come quello di cui si occupa, e denuncia la fragile posizione dello scrittore, «che coltiva questo sogno di ricomporre presente e passato, il progetto di assemblare il vero col verosimile e il falso, per costruire l’illusione che il suo nuovo ordine, l’ordine di parole che ha generato possa esistere, resistere e durare, anche se non si tratta della Verità ma di una verità altra» (Franchini, 2001, p. 128, corsivo mio) [4]. Ed è proprio a questa commistione di registri che Cercas ambisce: citando Aristotele, l’autore spagnolo confessa di voler tenere insieme le «due verità antagonistiche» (Cercas, 2016, p. 53) di storia e poesia, mischiando effettuale e possibile. Siamo qui di fronte a uno dei paradossi della non fiction nella sua formulazione più limpida, all’idea che solo inventando storie si possa accedere a ciò che è realmente accaduto. La narrazione diventa così una risorsa per la conquista del vero e la produzione del verosimile, un punto in cui si articolano e trapassano l’uno nell’altro il piano dei fatti del mondo e il modo soggettivo di prendere parte a quei fatti (ma su questo, cfr. § 6).
3. Arbitrarietà
Torneremo a breve sullo statuto di verità della non fiction. Prima, però, è bene provare a mettere a fuoco qualche altro nodo. Meditando sulla letteratura italiana del secondo dopoguerra, di cui era stato un illustre esponente, Italo Calvino sostiene che
quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale […] ma l’accento che vi mettevamo era quello d’una spavalda allegria […] Questo ci tocca oggi, soprattutto [ripensando a quei tempi]: la voce anonima dell’epoca, più forte delle nostre riflessioni individuali ancora incerte. L’essere usciti da un’esperienza – guerra, guerra civile – che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico […] ci si strappava le parole di bocca […] ci muovevamo in un multicolore universo di storie (Calvino, 1964, p. VI, corsivi miei) [5].
Agli occhi degli autori neorealisti di cui Calvino fa parte, la rielaborazione narrativa della seconda guerra mondiale è una tappa obbligatoria, uno sbocco ovvio. Così come lo era stato per la generazione precedente, che aveva fatto i conti con il primo conflitto mostrandone l’esorbitante assurdità (si pensi a Celine e Remarque). Sia pure nella loro distanza dalle forme tradizionali e premoderne [6], alcune esperienze erano emerse al di sopra delle altre come eventi paradigmatici con cui bisognava fare i conti e ancora era viva, nelle parole di Calvino, l’idea di poter dare un qualche contributo, attraverso la scrittura, alla comprensione della realtà e degli eventi più significativi che la agitavano. Aspirazione tipica anche – e soprattutto – della grande stagione del Bildungsroman dei secoli diciottesimo e diciannovesimo, animata dal tentativo di catturare e fissare «quello che, in mancanza di meglio, continuiamo a chiamare “il senso della vita”, e che poche cose han contribuito a plasmare come, appunto, la tradizione romanzesca» (Moretti, 1999, p. 15) [7].
I due conflitti mondiali e, nel secolo precedente, la quotidianità del nuovo ceto medio: questi alcuni dei grandi temi della letteratura di ieri. E oggi? Quali sono i gli snodi con cui si confrontano scrittori e lettori di non fiction? L’impressione è che tutti i contenuti siano «parimenti arbitrari» (Scurati, 2006, p. 19, corsivo mio). Che non ci siano eventi paradigmatici in cui si esprime lo «spirito» del tempo, o processi di lungo corso da provare a elaborare. Parimenti, non pare che lo scopo di questi testi sia gettar luce sul senso della vita, men che meno dargli forma.
Quanto appena sostenuto parrebbe smentito da un fatto a cui abbiamo accennato: l’ossessione per la cronaca nera da parte di questa letteratura – ma non solo: basti pensare al grande successo di trasmissioni televisive, podcast, documentari e serie tv. In questo, proprio A sangue freddo di Capote è stato un degno apripista. E tuttavia, la mia ipotesi – che tenterò di argomentare in questo e nei prossimi paragrafi – è che la predilezione per il fait divers [8] sia dovuta a una sua proprietà – per così dire – accidentale. Per dirla con la massima chiarezza: la cronaca nera non svolge per la letteratura d’oggi la funzione che aveva svolto la parabola della nuova borghesia per il Bildungsroman o la seconda guerra mondiale per il neorealismo. È piuttosto una fonte a cui abbeverarsi perché offre un materiale forte, eclatante, eccezionale, particolarmente adatto a imporsi all’attenzione del lettore, a catturarne la curiosità.
L’arbitrarietà degli oggetti narrativi e la ricusazione verso il tentativo di dare un senso alla realtà possono forse venire meglio comprese se si pone mente alla struttura delle operazioni di senso in generale. Possiamo definire operazione di senso la distinzione tra segnale e rumore. A differenza dalle altre specie viventi, l’essere umano non è dotato di un corredo biologico che gli consenta di selezionare, nell’ambiente, gli stimoli percettivi provvisti di un significato da quelli che ne sono privi e che dunque possono essere tralasciati come mero rumore. Per quanto rischi di apparire troppo schematico, il celebre esempio della zecca tratto da Uexküll e commentato da Heidegger rimane paradigmatico e chiaro: il piccolo parassita risponde esclusivamente a uno stimolo, vale a dire la percezione olfattiva dell’acido butirrico rilasciato dal sudore dei mammiferi. Quando questo segnale fa la sua comparsa, la zecca si lascia cadere dal fogliame su cui è solitamente appollaiata, morde il malcapitato nutrendosi del suo sangue e muore nell’atto di riprodursi. Il suo programma comportamentale è predefinito e non vi sono dubbi sul necessario e sul superfluo. Non si può dire lo stesso per l’essere umano, la cui conformazione fisica è tale da renderlo esposto a un profluvio di stimoli manchevoli di un significato biologico: il compito aggiuntivo a cui ci consegna la nostra natura consiste nel tracciare di volta in volta la distinzione tra segnale e rumore, che è così un esito contingente delle operazioni di senso che le comunità umane pongono in essere.
Come mostra Massimo De Carolis, la tecnica è l’ambito privilegiato in cui osservare come l’anthropos si sobbarca quest’onere, è «il prototipo della disposizione umana a trasformare il rumore in ordine nuovo. In effetti, ogni invenzione tecnica opera questa trasformazione rivelando, per esempio, in una scheggia di pietra un’arma efficace e in una muffa un potente rimedio contro le infezioni» (De Carolis, 2004, p. 58). E tuttavia, l’alto sviluppo tecnologico tipico della società dello spettacolo ha un risvolto paradossale. I dispositivi che innervano la vita nel mondo contemporaneo – primo fra tutti lo smartphone, ma anche i suoi recenti antenati come la televisione o la radio – producono un continuo e incessante flusso di informazioni, cioè di segnali, al punto che secondo alcuni si può parlare di un vero e proprio «mediascape» (Appadurai, 2004). Un paesaggio percepibile a tutti gli angoli del globo, «una semiosfera di segni, di messaggi, di immagini e di narrazioni» (Giglioli, 2011, p. 20). In questo scenario, l’eccesso di segnali finisce per diventare esso stesso rumoroso e il sapiens del nuovo millennio si trova imbrigliato in un contrappasso ironico, perché questa forma specifica del problema del senso è il frutto indesiderato della risorsa che è chiamata a risolverlo. Il rumore non è più sullo sfondo ma in primo piano ed è il frutto di una sovrabbondanza di segnali prodotti dai dispositivi tecnologici. Non è dovuto a una carenza, ma a un eccesso.
Si può guardare a questa configurazione da una diversa prospettiva: per agire sensatamente, e dunque attraverso una discriminazione dei contenuti salienti e di quelli superflui, è necessaria la capacità di orientare in modo selettivo l’attenzione sui diversi input provenienti dal mondo esterno. Solo che, al giorno d’oggi, l’attenzione è sollecitata di continuo da una quantità di informazione così alta che è molto difficile farne un uso selettivo. È complesso impiegarla attivamente e versa in una sorta di passività costante, dovuta appunto a questo sovrappiù segnaletico. Una sorta di nave che resta ferma perché in balia di venti e correnti che provengono da tutte le parti. Alla fine degli anni Novanta, dunque in tempi non sospetti, il futuro amministratore delegato di Google Eric Schmidt aveva pronosticato per il XXI secolo l’avvento dell’«economia dell’attenzione», in cui le «aziende dominanti saranno quelle che riusciranno a conquistare il controllo del maggior numero possibile di “bulbi oculari”» (Crary, 2013, p. 79). Come spesso accade la realtà supera l’immaginazione e il capitalismo contemporaneo pare essersi impossessato non solo degli occhi, ma anche delle mani, con una colonizzazione sinestetica della capacità di concentrarsi.
Se le cose stanno anche lontanamente come le abbiamo descritte, allora si può provare a spiegare l’inclinazione della non fiction per il fatto di sangue, per lo scabroso, alla luce della sua capacità di imporsi all’attenzione. Non è questo o quel contenuto, questa o quella storia a fare la differenza. I massacri nei campi di concentramento balcanici (Rastello, 1998) valgono l’assassinio di Luca Varani (Lagioia, 2020), la vita del pazzo omicida nazista norvegese Breivik (Genna, 2014) è equivalente a quella di alcuni condannati a morte statunitensi (Veronesi, 1992). Decisiva è l’apparente eccezionalità di ciò che viene narrato, il suo essere qualcosa di «estremo» (Giglioli, 2011) e dunque capace di rompere il flusso di sollecitazioni continue conquistando, per un lasso di tempo più lungo del solito, l’interesse del lettore. Ciò che accomuna la narrazione di fatti «parimenti arbitrari» è il loro essere eclatanti, rumorosi. È il potenziale ipnotico di quegli eventi, a prima vista incredibili o fuori dall’ordinario.
Note [1] Donnarumma, 2019, p. 120; Marchese, 2019, p. 20n; Palumbo Mosca, 2021, p. 138. [2] Per una ricostruzione del rapporto tra letteratura e giornalismo, cfr. Bertoni, 2009. [3] Su questo, cfr. Palumbo Mosca, 2021, pp. 135-138; Ginzburg, 2000; 2006. [4] Franchini dichiara, con un po’ di sconforto, di non credere a questa illusione. Ma lo fa in modo ironico, quasi fosse una excusatio non petita e mi pare che nel suo libro si coltivi proprio l’illusione che denuncia. In ogni caso, anche qualora questa mia impressione fosse scorretta, resta il fatto che il compito della letteratura, questa sorta di missione impossibile, viene individuato nella fragile e delicata commistione di vero e verosimile, di fatti e narrazione di fantasia, proprio come in Carrère. Il che costituisce una conferma della tendenza generale. [5] Sulla prefazione dell’autore de Il sentiero dei nidi di ragno si sofferma lungamente anche Scurati, 2006. [6] Benjamin, 2012. [7] Su questo cfr. anche Benjamin, 2009b, p. 264. [8] E cioè il fatto di sangue, cfr. Bertoni, 2009, p. 28 sgg.
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