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I Furiosi, o come eravamo


immagine sanpietrino i furiosi ultras

La recensione di Gabriele Battaglia a I Furiosi (DeriveApprodi, 2023) di Nanni Balestrini che pubblichiamo oggi, è un'utilissima appendice al libro. Vengono infatti raccontate la metodologia seguita da Balestrini per indagare e raccontare gli Ultras del Milan e le reazioni degli stessi protagonisti delle vicende all'uscita del romanzo.


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Esattamente il giorno prima che mi venisse chiesto da Machina un commento sulla nuova edizione di I Furiosi, ho incontrato per caso il Titti. Chi è il Titti? Ma ovviamente uno dei protagonisti del libro di Balestrini, o meglio una di quelle figure che hanno ispirato lo scrittore, il quale scelse di creare gli eroi post-omerici del suo romanzo – laddove attinente all'epica è anche la sostituzione dei capitoli con dei «canti» - mescolando caratteristiche di diversi personaggi reali della curva del Milan. Il Titti, che ai tempi era una colonna portante del Gruppo Brasato, è uno che nella vita non si è fatto mancare nulla e io ne parlo dopo avergli chiesto il permesso, altrimenti starei facendo nei suoi confronti una tipica infamata. Insomma, giro un angolo a Pontassieve e lui è lì, seduto al tavolino del dehor di un bar; sgraniamo gli occhi contemporaneamente (cosa diavolo ci fanno due ex ultras del Milan, nati e cresciuti a Milano, a Pontassieve?) e poi ci abbracciamo. È un fiume in piena, il Titti, ricorda i bei tempi e gli amici presenti e non più presenti – biologicamente o giudiziariamente – provoca bonariamente i fiorentini del bar – «vi ricordate del Marisa?» (il riferimento è a quando il nostro corteo in trasferta entrò letteralmente nel bar degli ultras viola) – ha il cervello a mille e la parlata febbrile: «X è dentro per le rapine, sai, Y invece ha un tentato omicidio» (di questi, no, non faccio i nomi) e non gliene frega niente se io sono lì con la mia compagna e i suoi genitori, due persone per bene, sulla settantina, e molto timorate di Dio; il Titti non ha nulla da nascondere, di cui pentirsi o vergognarsi, gioca a carte scoperte e infatti, alla fine, anche i miei suoceri saranno contenti di quell'incontro per loro così bizzarro e a suo modo gioioso. A un certo punto, lui cita Nanni Balestrini: «Meno male che quello là, lo scrittore, si è inventato i nomi, perché eravamo dei veri delinquenti». E insiste su questa cosa. Noi-eravamo-delinquenti: è una questione di orgoglio, di identità, di realizzazione personale. Balestrini comunque è stato alle regole, non ha fatto nomi.

Contatto Roberto, un altro amico e storica figura di riferimento della Sud, perché ricordo che, come altri, non fu particolarmente contento quando uscì il libro. Il fatto è che per raccogliere il materiale grezzo del suo futuro racconto, Balestrini aveva frequentato soprattutto il gruppo interno alle Brigate Rossonere che gravitava intorno a Cox18 – il centro sociale sui Navigli – e poi aveva chiacchierato anche con gente della Fossa dei Leoni, tra cui Roberto, senza però esplicitare – sostiene lui oggi – che ci avrebbe scritto un libro. L'esito letterario, I Furiosi, è a suo avviso un'immagine troppo riduttiva degli ultras del Milan: violenza, sconvolgimento e poco altro. Inoltre, applicando la tecnica letteraria di mixare le diverse caratteristiche appartenenti a più personaggi reali per ricreare un singolo «eroe», lo scrittore aveva poi messo in difficoltà diversi ultras che non vi si riconoscevano o vi si riconoscevano troppo: «Mischiava in modo anomalo fatti e persone – mi dice oggi Roberto – per esempio io potevo essere riconosciuto a causa di due braccia rotte, però poi sembravo XY e parevo un hooligan da paura». E ancora: «Balestrini ci aveva frequentato, per cui si pensava che fosse entrato nelle nostre teste; e poi non si può descrivere un personaggio fisicamente in modo che sia riconoscibile e poi farlo agire in un modo a lui estraneo». Insomma, questione di reputazione. Ricordo che, ai tempi, Roberto era irritato soprattutto perché il personaggio di Bubo, una delle figure più caratterizzate del libro, si spacca le braccia – «e tutti sanno che è successo a me» [trasferta di Verona, ndr] – ma poi beve ai limiti del coma etilico – e io confermo invece che Roberto non tocca alcool – spacca, accoltella, a un certo punto è definito «non pensante», una sorta di orco demente. A trent'anni di distanza, quel pezzetto di Bubo che si chiama Roberto liquida la faccenda così: «A me Balestrini è sempre piaciuto come scrittore, tendenzialmente però non mi vanno i libri metà romanzo e metà realtà, dove non si capisce dove finisce uno e comincia l'altra».

Insomma, l'incursione di Balestrini tra gli ultras veri produsse effetti contrastanti.

Da un lato non fece nomi: giusto; dall'altro rese comunque troppo riconoscibili e al tempo stesso esagerate nel senso del debosciamento, persone vere, complesse, in carne e ossa: qui ci fu un errore, o meglio, un fraintendimento.

Gli ultras sono persone vere, non personaggi di una commedia umana. È tuttavia curioso che l'enfasi sull'aspetto epico, che ne I Furiosi flirta con il picaresco e il grottesco senza mai sconfinare, ha soddisfatto alcuni, che si sono visti riconosciuti protagonisti di qualcosa; e amareggiato altri, che si sono invece sentiti ridotti all'osso, caratterizzati come macchiette, dipinti in forma monodimensionale.

Già partecipe di quelle stesse storie narrate ne I Furiosi, io mi chiedo oggi se Balestrini abbia applicato la stessa tecnica ad altri suoi romanzi che ho amato: Vogliamo Tutto, Gli Invisibili. E mi chiedo anche se Omero abbia fatto la stessa cosa: quanti Achille ci sono in Achille? E quanti Ettore in Ettore?

Quando vivevamo quell'esperienza meravigliosa e totalizzante chiamata Curva Sud, ci dicevamo spesso che un giorno avremmo avuto qualcosa da raccontare ai nostri figli. E anche che la curva era comunque uno spaccato di società, dove venivano rappresentate come su un palcoscenico tutte le classi sociali e le identità culturali, per non dire di quelle politiche. Spesso ci si trovava insieme su una gradinata, la propria o quella altrui, ci si copriva le spalle a vicenda, ci si abbracciava esultando oppure si fumava la stessa canna. E poi magari, fuori di lì, si finiva su opposte sponde durante un fatto politico; oppure, per una strana capriola, dalla stessa parte ma del tutto assurdamente.

Ricordo benissimo che in una concitata fase durante la manifestazione del 10 settembre 1994, quella in cui facemmo scappare gli sbirri in via Turati – sotto la sede del Milan, detto en passant – incontrai R, amico carissimo e quanto mai distante da me politicamente, con una mazza in mano. Ho stampata ancora in testa la luce nei suoi occhi quando mi disse: «Io sono della Lega, ma qui ci si diverte troppo!».

Il fatto è che c'era quella cosa chiamata Milan, che era «noi», come canta ancora la curva di oggi. Quando dico «Milan», io intendo una costellazione, non una squadra composta da undici ragazzotti sempre più intercambiabili secondo i dettami del calcio moderno, per non dire di una «proprietà» oggi sempre più astratta e lontana. Spesso, si partiva per trasferte distantissime (non c'era l'alta velocità, non c'erano i voli low cost) senza neppure sapere chi avrebbe giocato, chi era disponibile e chi infortunato. Chissenefrega, il Milan eravamo noi, quell'esperienza vissuta da carne viva. Ed era senza dubbio la cosa più importante del mondo, almeno secondo noi. Era amicizia, fratellanza, viaggio. Qualcuno mi chiede quale fosse il fine di tutto ciò. Niente, il fine dell'ultras è fare l'ultras, basta quello ed è tantissimo.

Non esito, oggi, a identificare quei giorni come la fase più formativa che abbia avuto la fortuna di vivere, più del quartiere, più della politica, più del percorso di studi, più del giornalismo. O meglio, quella vicenda umana contiene e informa tutte le altre. In un pullman che arranca nella notte in qualche paese lontano, dove sto rannicchiato senza chiedermi se e quando arriverò, c'è il Lamierone, lo scassatissimo bus che ci rifilava l'unica compagnia disposta a portarci in trasferta; in una situazione di pericolo, quando senti una farfalla alla bocca dello stomaco (definizione presa da un libro sugli hooligans inglesi, ma non ricordo più quale) e qualcosa di imponderabile ti riporta invece a una calma che è quasi trance, c'è una calata in massa da Monte Mario o una passeggiata collettiva sotto la Filadelfia del vecchio Comunale. E anche nella strafottenza di uno sbirro, quella uguale ovunque, c'è qualcosa di già visto e subito. Gli ultras, a cavallo tra anni Ottanta e Novanta, furono le cavie per un esperimento di repressione diffusa. La macelleria di Genova 2001 noi l'avevamo vista formarsi, definirsi, istituzionalizzarsi, in mille e mille partite in casa e fuori, sulla nostra pelle. Fu intorno ai mondiali del 1990, quelli giocati in Italia e passati alla storia non tanto per gli occhi scoppolati di Schillaci (a proposito, ruba le gomme) ma per il livello di corruzione e cementificazione più alto dai tempi della Torre di Babele, che cominciammo a percepire che qualcosa era cambiato. Sempre più inscatolati, infilati in treni speciali, bastonati. La gente per bene applaudiva. Ci piangevamo addosso? No. Come il bambino che ruba la marmellata, mica potevamo fare le vittime, eravamo i primi a saperlo.

Balestrini sfiorò solo il racconto di questa storia così umana e così complessa, forse la intravide ma non riuscì ad afferrarla, o forse non volle.

Eppure.

Negli anni successivi all'uscita della prima edizione di I Furiosi, gli ultras hanno cominciato a raccontarsi, hanno preso in mano la narrazione che li riguardava. C'era quell'esigenza di essere protagonisti, sicuramente anche una forma di narcisismo collettivo, ricordate? «Un giorno avremo qualcosa da raccontare ai nostri figli». Ma c'era anche il bisogno di mettere i puntini sulle «i», dire la propria versione dei fatti, secondo proprio stile, con tutti i limiti e anche i tic della cosa. Forse, I Furiosi ha contribuito a sdoganare questa tensione al racconto.

Nella Fossa dei Leoni, la storia del più antico gruppo ultras italiano, esce nel 2002 (non portando per altro benissimo, visto che la Fossa si scioglie poi nel 2005, ma questa è un'altra faccenda); Noi, il libro della Curva Sud di Milano, è del 2022 (un corpo contundente pesantissimo che andrebbe benissimo come oggetto da lancio allo stadio e che farebbe senz'altro invidia a Omero). Lì, minuziosamente, c'è raccolto tutto, sono quasi libri-archivio, diari. Personalmente li trovo a volte quasi pedanti e talvolta un po' sfuggenti perché quando l'hai fatta troppo grossa non la dici veramente tutta, ci passi sopra a volo d'angelo; ma intanto ricordi che quell'evento, quello scontro, c'è stato. E chi sa, sa. È anti-letteratura, se per letteratura si intende la vividezza del dettaglio. Ma ricordiamoci sempre un principio: «Mi sont de quei che parlen no!», come dice la canzone.

Una sintesi tra queste autonarrazioni ultras e l'epica balestriniana sarebbe probabilmente la formula vincente. Ma altrettanto probabilmente non possono stare insieme.

Se dovessi scrivere un libro su queste vecchie storie userei uno stile al crocevia tra Louis Ferdinand Celine e Cochi&Renato: un viaggio carico di rabbia che però si conclude con una battuta surreale o una canzona stralunata: «E la vita e la vita, e la vita l'è bèla, l'è bèla, basta avere l'umbrèla, l'umbrèla, che ripara la testa, sembra un giorno di festa».

Perché così eravamo.


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Gabriele Battaglia, giornalista freelance, per 11 anni corrispondente dalla Cina per diverse testate italiane e straniere, un passato all’intersezione tra Brigate Rossonere e impegno nell’area antagonista.

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