Pubblichiamo un contributo della sezione finisterre al progetto avviato da Machina sulla Cartografia dei decenni. Qui Giorgio Mascitelli, curatore della sezione, analizza i cambiamenti avvenuti negli anni Ottanta e Novanta dal punto di vista della cultura e della letteratura, soffermandosi, in particolare, sulla categoria di «postmoderno».
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Bisogna ammettere che colui che si accinge a periodizzare e a caratterizzare una stagione, soprattutto se mosso da un intento militante e non storiografico, condivide rischi simili a chi vada a caccia di giganti in una zona ricca di mulini a vento. Eppure solo chi non si rassegna a credere che, nonostante le apparenze e le rassicurazioni delle persone perbene, esistano solo mulini a vento, ma da qualche parte si celino dei giganti che ci possono offrire cambiamenti di visuale può trovare un filo di senso entro la vasta congerie di avvenimenti, idee, speranze e volti che le nostre memorie troppo lunghe finiscono con l’accumulare. D’altra parte la regione storica degli anni Ottanta, nel campo della letteratura e della cultura, non sembra offrire rischi di equivoco interpretativo se la leggiamo in relazione al postmoderno, a cominciare dalla delimitazione cronologica d’inizio che per l’Italia si può agevolmente collocare nel biennio 1979-80: è del ’79 Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino, dell’anno successivo Il nome della rosa di Eco, i due romanzi fondamentali per il postmodernismo italiano e tra quelli centrali a livello internazionale. Eppure anche in questo contesto così assodato le cose si complicano subito: è possibile notare che queste due opere divergono da due caratteri fondamentali del postmoderno ovvero il superamento della divisione tra cultura alta e cultura bassa e la perdita di senso storico. Infatti l’uso di stilemi e convenzioni della letteratura di genere, le spy story per Calvino e il giallo classico per Eco, non implica alcuna adesione a una letteratura di consumo o una cultura di massa, o anche midcult, ma un suo sofisticato reimpiego in un contesto alto, non dissimile da esempi che troviamo non solo nella modernità del Novecento e addirittura in quella del secolo precedente; per quanto riguarda la storicità, poi, non solo ne Il nome della rosa la ricostruzione rigorosa di una situazione storica è ben lontana dal turistico spirito di citazione e mescolanza tipico del postmoderno, ma essa assume un chiaro tratto allegorico della realtà storica italiana di fine anni Settanta in maniera non lontana da quella che Benjamin scorgeva nel dramma barocco tedesco. In tutto questo non ci sarebbe nulla di strano perché si sa che le caratteristiche di un determinato stile o di una determinata epoca sono riscontrabili in maniera precisa o rigorosa solo nelle opere epigonali, mentre quelle maggiori conservano sempre un’individualità irriducibile a qualsiasi schema (e categorie come il postmoderno sono schemi, molti utili, addirittura indispensabili, ma pur sempre schemi). In realtà quest’ultima considerazione, pur pertinente, non è sufficiente a spiegare la particolarità di due autori che tra l’altro rivendicano la postmodernità delle loro opere, come non lo è il fatto che sia Calvino sia Eco giungono al postmoderno dopo un lungo e decisivo percorso dentro la modernità. Un altro fattore è che negli anni Ottanta, almeno in Italia e in Europa, la letteratura postmoderna si sviluppa entro un sistema letterario ancora organizzato secondo i criteri e gli istituti della modernità. Così per Umberto Eco il postmoderno coincide addirittura con la possibilità di superare il rischio del silenzio che minaccia la produzione artistica e letteraria, dovuto al furore iconoclastico delle avanguardie, identificate con la modernità, ricollegandosi alla consapevolezza storica, o per usare le sue stesse parole: «Ma arriva il momento che l’avanguardia (il moderno) non può più andare oltre, perché ormai ha prodotto un metalinguaggio che parla dei suoi impossibili testi (l’arte concettuale). La risposta postmoderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente» [1]. Ma una tale concezione del postmoderno può essere formulata solo in un contesto in cui persistono istituzioni, ufficiali e informali, che propongono la fruizione e la valutazione delle opere secondo criteri qualitativi della modernità e non secondo quelli puramente quantitativi del mercato, senza le quali non ci può essere alcuna rivisitazione consapevolmente ironica. Non è un caso che il fenomeno più significativo del decennio sia il successo di «Alfabeta», nella cui redazione oltre allo stesso Eco siedono alcune delle figure più importanti delle avanguardie e delle riviste letterarie pienamente novecentesche, una rivista mensile di alto profilo culturale che con somma sorpresa degli addetti ai lavori riesce a reggere per parecchi anni la distribuzione in edicola. Nonostante il termine «postmoderno» sia al centro del dibattito letterario, artistico e filosofico negli anni Ottanta, per vedere il dispiegamento del postmoderno in quanto logica culturale del tardocapitalismo, secondo la decisiva formula di Jameson, bisogna attendere gli anni Novanta in un processo che in realtà arriva fino ai giorni nostri. Uso la parola dispiegamento perché il postmoderno non è una corrente culturale, o meglio è stato anche questo, ma è una condizione storica della cultura in una determinata fase del capitalismo. Questo dispiegamento produce la crisi del sistema letterario novecentesco, accelerata ma non causata dalla nascita delle rete, e prosegue tuttora, nonostante la dimensione ideologica del postmoderno subisca critiche e scacchi, per esempio già a partire dagli anni novanta assistiamo a reazioni alle poetiche del postmoderno: basterà qui ricordare, a titolo di esempio, l’intervento di Antonio Moresco su Calvino ne Il paese della merda e del galateo [2]. Proprio per questa sua natura di condizione storica e non di semplice sistema di idee estetiche ed epistemologiche nelle analisi del postmoderno ha assunto tanto rilievo il fenomeno del camp, che appare come una trasformazione di mentalità del pubblico prima ancora che una pratica artistica consapevole. Con questo termine si indica qualcosa di ostentato e di cattivo gusto così estremo nelle sue caratteristiche da risultare paradossalmente attraente per questo [3]. In pratica, mentre il kitsch presuppone un’ingenuità del pubblico che aderisce sinceramente a un’opera di cattivo gusto scambiandola per il non plus ultra estetico, nel camp il pubblico è oggettivamente superiore al prodotto estetico, ma riesce a individuarne un aspetto divertente o involontariamente originale che gli consente di conciliare il proprio senso di superiorità con la fruizione di un prodotto basso ma accattivante. Remo Ceserani nel libro citato in nota ricorda che questo atteggiamento è stato interpretato da varie voci della cultura statunitense anche come senso di nostalgia e impotenza, nonché come l’unica possibilità di essere dandy nella cultura di massa. In realtà sarebbe forse più giusto parlare di una sorta di nichilismo light di chi si accontenta del mondo così com’è perché ha comunque trovato in esso una sua nicchia confortevole e non ha particolare necessità di conoscerlo più approfonditamente [4]. L’aspetto più importante del camp è, tuttavia, il fatto che consente di creare un rapporto estetico con le rappresentazioni della merce anche presso un pubblico colto, come ci ricorda la traiettoria artistica di Andy Wahrol, ma ce lo ricordano anche alcune pratiche mediatiche. Per esempio senza una diffusa mentalità camp non sarebbe stato possibile che i giornali italiani dedicassero alla morte di Raffaella Carrà uno spazio e un’attenzione che nel secolo scorso sarebbero stati dedicati solo ad alcuni statisti e a qualche figura della scienza e della cultura che aveva avuto un ruolo pubblico visibile, in quanto non sarebbe stato possibile far accettare nessun discorso commemorativo credibile sull’importanza dell’opera della show girl per la mentalità sociale italiana senza un pregresso approccio camp. Forse questo episodio suggerisce che il camp, man mano che diventa atteggiamento dominante, perde il suo tratto ironico. In ogni caso, negli anni Ottanta, nel contesto italiano, il camp non è una forma dominante, anche se ovviamente lo storico avrà buon gioco a individuarne degli esempi, perché la politicizzazione degli anni Settanta, in crisi ma ancora diffusa, costituiva un oggettivo ostacolo al suo sviluppo. Un altro libro che appare nel 1979, anche se per la verità la sua traduzione in italiano è pubblicata due anni dopo, è La condizione postmoderna di Lyotard [5]. Naturalmente non intendo discutere qui questo libro complesso e già dibattuto da menti sottili e profonde, ma vorrei sottolinearne alcuni caratteri utili per la nostra periodizzazione: in primo luogo Lyotard si riferisce al postmoderno in termini di condizione, dunque di situazione storica; in secondo luogo questo saggio non nasce da un puro intento teoretico, ma da un’occasione concreta ossia un rapporto sullo stato del sapere nella contemporaneità che il governo del Quebec ha commissionato all’autore, in vista di una riforma degli studi; in terzo luogo viene formulata la convinzione che il postmoderno maturi una risposta all’impasse della modernità che nasce, secondo l’autore come noto, dalla crisi dei saperi narrativi come forma di validazione universale del sapere, tramite una validazione di tipo performativo di ogni conoscenza ossia tramite una selezione dei saperi importanti non in base alla loro capacità di spiegare la realtà, ma della loro utilità. Questo testo, in Italia e in Europa, negli anni ottanta va considerato tecnicamente in anticipo sui tempi perché determinate forme di riorganizzazione della cultura e della ricerca scientifica non solo non sono ancora presenti, ma delinea una situazione che si svilupperà nei decenni successivi, come dimostra il fatto che le politiche scolastiche raccomandate dall’Ocse ai suoi paesi membri a partire dagli anni novanta risultano leggibili strategicamente solo tramite le tesi di Lyotard. È anche in anticipo sui tempi perché in fondo le istituzioni del sapere in Italia, ma anche in Francia dove il libro è stato materialmente scritto, negli anni Ottanta sono ancora organizzate secondo il sistema del vecchio paradigma moderno, mentre ovviamente un’organizzazione performativa del sapere non prevede teorici pagati e collocati in istituzioni accademiche prestigiose per descrivere i processi che portano all’affermazione di un sapere performativo: situazione che il pieno dispiegamento della condizione postmoderna concretizzerà. Per riassumere la proposta di periodizzazione avanzata: il postmoderno si diffonde negli anni Ottanta in Italia a livello di poetiche e di dottrine filosofiche in un contesto sostanzialmente ancora moderno del sistema letterario e di quello accademico ( chiunque abbia frequentato l’università in quel decennio ricorderà che il clima che si respirava era di un ritorno all’ordine, alla serietà, al rispetto delle istituzioni e allo studio dopo i funesti disordini degli anni Settanta). A partire dagli anni Novanta, ma arrivando fino ai giorni nostri, con crescita progressiva abbiamo il dispiegarsi di quei fenomeni che Jameson descriveva negli Stati Uniti e che gli facevano parlare di postmodernismo come di logica culturale del tardocapitalismo [6]. In altri termini le poetiche del postmoderno sono attive ben prima dello sviluppo della condizione postmoderna [7]. Ovviamente questa proposta di periodizzazione, collocando le trasformazioni strutturali del postmoderno dopo il crollo dell’Urss, la fine della Prima Repubblica e l’inizio della globalizzazione, sembra suggerire un rapporto tra questi eventi: sicuramente ci sono state interazioni che sarà possibile indagare e in parte lo sono già state, ma va respinto come un pericoloso mulino a vento scambiato per gigante qualsiasi tentativo di descriverlo nei termini di una relazione causa effetto. La condizione postmoderna si dispiega negli Stati Uniti ben prima del 1989 e se si sviluppa dopo in Italia, ciò è dovuto a due fattori. Uno abbastanza tipico che è lo scarto temporale che si registra nelle sviluppo di molti fenomeni sociali e culturali tra centro e provincia; il secondo invece è dovuto a una particolare costellazione culturale italiana che è la politicizzazione diffusa negli anni Settanta e in particolare il fatto che il movimento del Settantasette, o quanto meno una sua parte considerevole, incorpori nel suo modo di operare politicamente delle pratiche che storicamente provengono dalle avanguardie, storiche o degli anni Sessanta [8]. Questa politicizzazione rende una parte consistente del mondo letterario e artistico e del pubblico refrattaria a certe movenze tipicamente postmoderne [9]. Negli anni Novanta il dibattito letterario sul postmoderno diventa un dibattito ormai maturo, le posizioni teoriche sono già state esplicitate e discusse, anche se paradossalmente le trasformazioni del sistema letterario funzionali al postmoderno (nuova centralità della letteratura di genere, perdita di rilievo della critica, collane editoriali sempre più orientate al bestseller, riduzione del peso accademico delle facoltà umanistiche, crisi dell’approccio filologico a favore di programmi di ricerca universitaria sempre più funzionali al mercato) cominciano a intravvedersi solo in quegli anni. Appare sempre più chiaro che il postmodernismo non è solo un atteggiamento estetico, ma è condizione della cultura che influenza non solo le poetiche vicine, ma anche quelle avverse. In altri termini quella postmoderna è una realtà che coinvolge anche chi è mosso da istanze critiche (del resto già Jameson, che nel contesto statunitense distingue autori che dentro il postmoderno mantengono delle forme di consapevolezza critica e storica come Doctorow, riconosce implicitamente questo salto ormai irrecuperabile con la modernità). Prova ne sia che, nonostante negli ultimi trent’anni, sia possibile indicare una serie di prese di posizione e di testi che reagiscono anche energicamente alle poetiche postmoderne, non si è mai riformata non solo un’avanguardia vera e propria, ma neanche una koinè sperimentale e critica rispetto allo stile dominante, che peraltro nel postmoderno non esiste, come quella del modernismo. Semmai l’affermazione del postmoderno negli anni Novanta si incrocia con la globalizzazione e con la sua rappresentazione ideologica di era di pacificazione e di uniformazione del mondo sotto la legge pacifica del mercato, della liberaldemocrazia e dei diritti umani. Sorge così tutta una serie di pseudoteorie come quella del doppio arco dorato di Thomas Friedman, in base alla quale due paesi che hanno un Mc Donald’s sul proprio territorio non possono farsi la guerra (invalidata già nel 1999 con il bombardamento di Belgrado), che trovano nella cultura postmoderna e in particolare nel suo relativismo e nella sua mescolanza di alto e basso, o se si preferisce nella calviniana leggerezza, il loro habitat naturale. Non esiste un rapporto meccanico tra la globalizzazione come fase del capitalismo e il postmoderno, anche a voler leggere quest’ultimo con categorie di tipo sovrastrutturale: per esempio un certo relativismo postmoderno svolgerà una funzione di critica dell’ideologia dei diritti umani quando questi saranno usati come base per un’aggressiva politica imperialista, ma di fondo l’atteggiamento di divertita accettazione delle cose come stanno, l’amore per le meraviglie spettacolari e lo scetticismo verso la verità, caratteri profondamente postmoderni, sono funzionali alla governance globalizzata. Non a caso la più rigorosa decostruzione e critica della retorica dell’ideologia imperialista dei diritti umani verrà da un vecchio strutturalista profondamente ancorato ai valori della modernità [10]. Ancor più significativo è il senso di delusione che gli intellettuali del Terzo Mondo nutrono verso la scena occidentale quando emerge il postmoderno con i suoi giochi intellettuali, allorché loro continuano ad aver bisogno di interlocutori di ethos sartriano nell’elaborazione di una cultura impegnata nelle lotte per l’emancipazione [11]. Eppure è proprio nel legame con la globalizzazione che il postmoderno invera quel giudizio sintetico ma non certo apodittico di Fredric Jameson per cui «la modernità è l’espressione di una modernizzazione incompiuta e la postmodernità di una modernizzazione e di una mercificazione tendenzialmente molto più compiute rispetto a quanto si è visto finora nella storia» [12]. Insomma il postmoderno rappresenta l’esito di un processo, che nella storia si è attribuito alla cultura della modernità, di dispiegamento del capitalismo e della forma merce, laddove invece in quella fase esistevano forze e tradizioni culturali che si opponevano a questa mercificazione completa che vengono meno solo con il postmoderno. Se le cose stanno così, si capisce allora perché i caratteri di quella stagione si spingano fino ai nostri giorni, anche se nuove potenti scosse, dall’emergenza ambientale alla potenziale rinascita di una guerra fredda con la crescita della Cina, dai cambiamenti radicali dell’apparato mediatico con l’invenzione dei social fino all’avvento dell’intelligenza artificiale, sconvolgeranno e già sconvolgono il quadro. Di questo risentirà inevitabilmente la letteratura e più in generale la cultura e quello che oggi è l’ultimo capitolo, facile profezia, si appresta a diventare il penultimo.
Note [1] U. Eco Postille al nome della Rosa in Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 1987 p. 529. [2] A. Moresco Il paese della merda e del galateo in Il vulcano, Torino, Bollati e Boringhieri, 1999; la cosa più significativa per il presente discorso è che Moresco attacca Calvino in primo luogo non in quanto scrittore, ma in quanto teorico della sfida al labirinto e della leggerezza in letteratura, cioè degli aspetti più strettamente postmoderni, in nome di una concezione radicale della letteratura come ricerca dell’assoluto. [3] Cfr. R. Ceserani Raccontare il postmoderno, Torino, Bollati Boringhieri, 1997 pp.123-124. [4] In fondo l’atteggiamento camp è quello dell’amore gozzaniano per le buone cose di pessimo gusto, il che non ha impedito a Gozzano di produrre una poesia raffinatissima, ma il crepuscolarismo non era un fenomeno di massa, non era un atteggiamento diffuso. Quello che intendo dire è che il salto quantitativo ne produce sempre uno qualitativo nei fenomeni sociali e culturali. [5] J-F. Lyotard La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, trad.it. di C. Formenti, Milano, Feltrinelli, 1981. [6] F. Jameson Il postmodernismo ovvero la logica culturale del tardocapitalismo, trad.it. di M. Manganelli, Roma, Fazi, 2007. Il testo originale è del 1990, ma va ricordato che il primo decisivo capitolo del libro di Jameson venne pubblicato in un volume autonomo già nel 1989 in traduzione italiana di Stefano Velotti presso Garzanti, che a sua volta riprendeva il testo apparso in forma di articolo in originale sulla «New Left Review» nel 1984. [7] Naturalmente esula dalle possibilità del presente scritto quello di esaminare il problema se il fiorire di queste poetiche andasse a cogliere comunque elementi anticipatori del cambio di struttura sociale e di organizzazione del sistema letterario: è possibile, ma non cambierebbe molto per la proposta di periodizzazione [8] Questo è stato sicuramente vero anche per il maggio francese, ma la cosa interessante è che nel Settantasette queste pratiche non sono più elitarie e limitate a un mondo artistico. Da questo punto di vista un’altra cosa che bisogna ricordare è che la musica degli Area e i fumetti di Andrea Pazienza, in particolare Pentothal, che in quel movimento sono ampiamente fruiti e che a un osservatore straniero potrebbero sembrare in prima battuta prodotti postmoderni in realtà trovano la loro collocazione più giusta e non a caso rivendicata consapevolmente dagli stessi artisti nelle avanguardie. [9] R. Cesarani, op. cit. pp.148 e segg., compie un’analisi comparata dei romanzi Libra di Don De Lillo e L’editore di Nanni Balestrini in quanto vertono su due eventi, l’omicidio Kennedy e la controversa morte di Feltrinelli, paragonabili, ma evidenzia che le strategie letterarie di Balestrini rimangono legate all’avanguardia modernista e puntano a una scoperta della verità oggettiva, laddove in De Lillo si trova già uno scetticismo postmoderno riguardo alla questione della verità. [10] Cfr. T. Todorov I nemici intimi della democrazia, trad.it. di Emanuele Lana, Milano, Garzanti, 2012. [11] Cfr. E. Said Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’occidente, trad.it. di S. Chiarini e A. Tagliavini, Roma, Gamberetti, 1998, in particolar modo l’introduzione. [12] F. Jameson op.cit. p.IX, va ricordato che rispetto alla datazione riportata sopra questa frase è tratta dalla prefazione dell’autore all’edizione italiana ed è stata scritta nel 2007.
Immagine: H.H.LIM.
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Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo (2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). È stato redattore di «alfapiù», supplemento in rete di «alfabeta2», e attualmente del sito letterario «Nazione Indiana».
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