Da «Endart», 1984
Tutto inizia nel 1850, con la pubblicazione di un libro da parte di un fisiologo olandese, Jacob Moleschott, oggi dimenticato, ieri famoso se non altro per le polemiche che lo circondavano, intitolato, Dottrina dell’alimentazione per il popolo. Un libro che sarebbe passato sotto silenzio se non fosse che, questo medico, era uno dei protagonisti di quello che allora si chiamava materialismo scientistico, il cui obiettivo, anche se guardato con sospetto da Engels, era di dissolvere le tesi della Naturphilosophie hegeliana. La recensione a questo libro di Feuerbach ruota, sostanzialmente, attorno a un antico proverbio contadino tedesco: Man ist was Mann isst. Si è ciò che l’uomo mangia. È un gioco di parole. Perché ist (è) si pronuncia come isst (mangia) e Mann (uomo) si pronuncia come man (si). In questo modo: L’uomo è ciò che si mangia. Se preferite, l’uomo diviene ciò che mangia. In questa formula si cela ciò che i c.a.n.i. (un acronimo che sta per composti alimentari non identificabili) non ci dicono. Che la rappresentazione ha preso il posto della sostanza. Nella fattispecie, non potendo sopprimere ciò che inquina si domestica la sua rappresentazione. Per il sistema economico il problema non è la lotta all’inquinamento, ma il mantenerlo al di sotto di una certa notorietà per continuare a fingere di combatterlo al dettaglio invece che affrontarlo in blocco. Ma possiamo ancora essere materialisti? Possiamo ancora prendere i problemi alle radici? Noi esistiamo, in principio, nella forma di qualche aminoacido manipolato, tutto il resto è una conquista della capacità endogena di reazione dell’organismo che si fa pensiero, memoria, conoscenza, che diviene zoe, vita materiale. L’importante è per Feuerbach non cedere a qualche «dio» per togliere agli uomini, denigrandoli! Nel 1862 amplierà questo tema dell’alimentazione con uno scritto intitolato, Il mistero del sacrificio o, l’uomo è ciò che mangia. Contiene una tesi facilmente riassumibile. Esiste un’unità imprescindibile tra psiche e corpo tale per cui il pensiero e l’azione dell’uomo progrediranno quando sarà riuscito a migliorare la sua alimentazione. Se usiamo l’espressione «condizionare» al posto di «migliorare» comprendiamo qualcosa sulle strategie alimentari degli eserciti moderni in zone di operazioni armate: razioni K più antidepressivi. Lo ha scoperto la stampa americana. Lo ha scoperto per stupirsi della scoperta, antica quanto il mondo, perché la razione K è un aspetto particolare dei c.a.n.i. sulla strada della loro evoluzione. Quale? Il parossismo. Alla lettera, un’esacerbazione (paroxynò) del processo di reificazione attraverso il dosaggio dell’eccitazione. A Feuerbach, in ogni caso, non interessava il tema della nutrizione preso di per sé, ma la presunzione dell’idealismo di dividere l’unità del vivente. Dividerlo tra corpo e spirito con l’ingannevole obiettivo di salvare quest’ultimo. L’economia borghese, infatti, trasforma i bisogni del vivente in prodotti e tende ad eliminare i bisogni degli animali se non sono delle sorgenti di profitto. L’importante è che questi bisogni sensibili non si rivelino mai bisogni dell’uomo in quanto uomo. Osserva Marx, se ciò avviene si spezza quel sistema di legami che vincola i bisogni alla produzione o, quel che è peggio, si sviluppa la creazione di bisogni per sviluppare la produzione. Per Feuerbach, dunque, la qualità dell’alimentazione era una strategia con la quale ripensare il ruolo della politica. Una tesi che appare ingenua fino a quando non si pone l’attenzione sul fatto che l’efficacia della politica, come strumento di emancipazione, era condizionata dalle forme del politico che l’idealismo pretendeva avessero una natura astratta. Natura che Marx descriverà come una sfera separata della società civile, una sovrastruttura. Ma in che modo, qui, sono coinvolti i c.a.n.i.? Se l’intendiamo come composti alimentari non identificabili, essi sono allo stesso tempo l’estremo inganno della naturalezza irriconoscibile della forma di merce e la saldatura dell’alienazione alla sostanza di cui sono fatti gli uomini. Una caratteristica dei c.a.n.i. non è solo quella di poter essere riproducibili industrialmente, ma di non poter essere prodotti diversamente. I c.a.n.i., infatti, sono fatti alimentari totali, sono la tendenza generale che si riproduce meccanicamente, in quanto tecnica. In loro l’incanto è nel disincanto di essere merci destinate soprattutto ai falsi bisogni indotti di origine culturale e se la verità è concreta, come affermava Bertolt Brecht, la coscienza dei bisogni indotta dalle merci è astratta. Così, la marca dei c.a.n.i. è lo spirito divenuto sensibile o, se si preferisce, la forma di merce che si fa carne del vivente. Più prosaicamente, questo acronimo significa che circa l’ottanta per cento di ciò che mangiamo non è quello che crediamo di mangiare.
Agli allevatori di c.a.n.i. non interessa tanto abolire la storia naturale dell’alimentazione, quanto gestire la sua memoria in modo che sia la nuova povertà a stabilizzare i bisogni. Del resto, da tempo la promessa di democratizzare il lusso nasconde la necessità di smaltire l’eccedenze merceologiche. Un tempo le menzogne si organizzavano come ragione di Stato, oggi come esigenze di mercato. Noi siamo troppi per morire di una sola forma di morte. Lo spettacolo ci consente un’ampia scelta mercantile anche attraverso il diffondersi degli «organismi geneticamente modificati» (OGM). Il loro rapido dilagare dipende dal fatto che la nuova agricoltura si è impegnata ad ignorare la complessità microbica simbiotica del suolo e delle piante e a rifiutare di vedere nel loro rapporto un rapporto tra sostanze viventi. La sterilizzazione del suolo e la sua artificiale ricomposizione tende, invece, a farlo corrispondere alle condizioni di laboratorio in modo di poter agire su di esso di conseguenza. Questo comporta la deliberata scomparsa di decine e decine di migliaia di specie. Secondo i biologi la metà delle forme di vita ancora esistenti sulla terra sono minacciate realmente d’estinzione pura e semplice. C’è qui un’espressione taciuta che caratterizza questo nuovo scorcio di secolo. È la qualifica di abiotico. È un’espressione che esprime compiutamente la scomparsa delle condizioni favorevoli alla vita come il più miserabile risultato del secolo che ci siamo lasciati alle spalle. Il punto di partenza dell’inganno è questo: le condotte alimentari dipendono sempre meno dalle norme culturali e sempre più dalla domesticazione mediatica. Esse tendono a scollarsi dalle abitudini locali e regionali vissute, come dai ricordi d’infanzia, per mutarsi in ideologie nostalgiche che hanno le loro liturgie e i loro chierici. Questa domesticazione mette sempre più spesso gli individui di fronte ad un’immensa scelta di materie prime e di prodotti pronti ad essere consumati che basta riscaldare rapidamente. Insomma, un immenso catalogo di c.a.n.i., anche transgenici, domina la scena alimentare. Questo non toglie che i c.a.n.i. abbiano bisogno del gourmet e dell’esperto che li valorizzi, per trovare in essi ciò che non possono mostrare e che può essere detto solo mentendo. Quanto alla razionalità non ne hanno bisogno è implicita nel fatto che hanno una natura amministrativa. Del resto i c.a.n.i. e la nostalgia sono merci perfette perché la ricchezza, che è il contenuto della merce, qui è nella forma di una mancanza. È la negazione di quella particolarità che un tempo era propria dell’astrazione mercantile. Quanto ai disastri che ne conseguono sono convenienti sia alla nostalgia che all’opera di mediazione degli specialisti che concorrono a realizzare il programma di controllo sociale. In buona sostanza, colui che mangia per vivere è sospinto in un tunnel dove domina una sorta di pret-à-manger alimentare di cui non conosce l’origine, la storia, la composizione reale, i rischi e le lusinghe. I pochi che invece fanno dei cibi una dimensione del self, cioè, della propria identità soggettiva, si affidano ai processi di estetizzazione che illusoriamente tolgono a questi (cibi) sia la condizione di res che l’ignominia di essere dei c.a.n.i.. Che cosa ne consegue? Che l’unità imprescindibile di psiche e corpo di cui parlava Feuerbach è divenuta una mera rappresentazione all’ombra dei poteri economici. Un’altra trappola culturale che scuote il tratto simbolico degli atti alimentari, facendoli diventare ciò che non sono mai stati, strumenti per affermare, invece dell’identità, la differenza. In questo modo s’invera il mondo alla rovescia, tanto caro allo spettacolo.
I giovani consumatori, in particolare, sono banalizzati da queste nuove frontiere canine del gusto. Sono indotti a consumare prodotti il cui sapore gioca su soglie standard sempre più ristrette. Sono mutilati di ogni sottigliezza gustativa, di fatto, finiscono per restare orfani di aree di cultura materiale sempre più vaste, in breve, di ciò che nella cultura materiale lega il sapore al sapere. Il cibo, ora, come le forme della politica, è indistinguibile di per sé e non si identifica che per le sue etichette, per il suo nome e per il suo prezzo. Cosa avrebbe detto Feuerbach? Le ragioni della domesticazione sociale hanno indotto a mascherare con la salsa della politica l’asprezza della lotta di classe ed ora, questo mascheramento agisce su due registri psicologicamente sensibili, quello della sicurezza e quello della legittimità di ciò che in qualche modo può ferire gli interessi di classe, affidando agli specialisti il compito di rendere tutto questo appetibile. Va considerato un altro aspetto dell’argomento. I prodotti industriali, per assolvere alla loro missione di diffusione di massa, esigono una continua ed attenta re-definizione sensoriale, in termini di sapore, odore, aroma, testura, colore e presentazione. Provate a tradurre questa esigenza – sulla falsariga di Feuerbach – nello scenario di una politica in cui gli uomini sono il prodotto delle circostanze e dell’educazione e coglierete le ragioni di certi sdoganamenti a destra e di certe liquidazioni a sinistra in nome della perfida madre terra e del gusto. Joseph Gabel, parlando della permeabilità del Dasein (dell’esserci) nel tempo dello spettacolo, arriva a definire il mangiare in comune, le forme della convivialità, come una funzione interumana d’importanza antropologica primordiale. Funzione nella quale i deliri paranoici delle ideologie politiche introducono la variante dell’avvelenamento, in senso etimologico, considerato che il veleno è capace, per la sua forza, di mutare la proprietà naturale di una cosa. A questo punto dovrebbe essere evidente l’analogia tra i composti alimentari non identificabili che stanno sulla nostra tavola e i composti politici non identificabili che occupano le assemblee nazionali divenute teatri borghesi. Per tornare al piacere gustativo, esso si rivela attraverso delle emozioni che sono indotte sempre più in modo artificiale. Emozioni istantanee, semplificate, esagerate, violente, infantili ed effimere. In pratica assistiamo ad una rincorsa per aumentare la soglia gustativa del cibo pret-à-porter, a tal punto che recenti indagini su un gruppo campione di bambini americani rivelano come essi non siano più in grado di apprezzare e riconoscere dal punto di vista sensoriale alcuni frutti comuni come la mela o la fragola. Del resto, sappiamo da tempo che non siamo ancora in grado di valutare sul lungo periodo l’effetto dei c.a.n.i. Quanto ai prodotti naturali rimasti c’è una tendenza, soprattutto nei prodotti frutticoli, non solo a ridurne la varietà per limitarla alle più convenienti sul piano economico, ma ad incrementare la produzione di quelle più estetiche sul piano della forma o, meglio, di quelle suscettibili, come dicono i designer, di re-styling.
Da dove nasce questa strategia perversa? Dal convincimento che i processi di estetizzazione degli atti alimentari possono creare un’equazione d’identità tra bello e buono, favorita da una riduzione delle specie a livello di coltivazioni di massa. Riduzione naturalmente compensata dalla costruzione di paradisi, di presidi e di orti museali dall’altra. Questo tema può essere considerato anche sotto altri punti di vista. La progressiva fusione di etnie e di territori, un tempo separati da barriere orografiche, linguistiche e culturali, così come le nuove migrazioni, tendono a caratterizzare in modo irreversibile la modernità alimentare stretta, da una parte, dalla globalizzazione dei c.a.n.i., dall’altra dal mito localistico delle materne oasi di compensazione. In questo modo culture in origine diverse sono costrette a condividere consumi, prodotti culturali di massa, abitudini alimentari e linguaggi. L’artificiale omogeneizzazione che ne deriva, poi, non è uguale per tutti. Essa frattura la società in gruppi di consumatori, impotenti dal punto di vista dell’esperienza sensoriale e decisionale, con il paradosso che si determinano maggiori differenze tra le subculture all’interno della stessa area metropolitana di quante non se ne creino tra i consumatori di aree agricole molto distanti tra di loro. Elementi di cultura materiale che un tempo appartenevano alle élite sono spalmati sulle periferie sociali, qui vengono re-interpretati, trasformati e ritrasmessi verso queste élite da dove, poi, sono nuovamente dispersi, in una continua sardana valoriale. Oppure, elementi culturali delle periferie sociali sono alienati in favore delle élite dalle quali vengono ritrasmessi manomessi verso le periferie sociali. Il risultato di questo processo è la confusione sociale, ma si definisce métissage e lo si traveste di esotismo. L’analisi degli studi culturali parla di gastro-anomia e di solitudine di colui-che-mangia. Una solitudine che ha il sapore dell’alienazione , che descrive un soggetto che invece di essere guidato dal desiderio è vittima di un bisogno impulsivo-imitativo per cibi senza identità. Tutto questo, naturalmente, a vantaggio delle nutrici-globali che, con sempre maggiore arroganza gestiscono il nostro futuro alimentare. Del resto, da tempo la forma di capitale è l’universale che si nasconde dietro i fenomeni. È la rappresentazione di una rappresentazione. Grazie ai c.a.n.i. la macchina e il corpo smettono di essere due paradigmi in conflitto. Ancora un piccolo sforzo ed avranno anche la stessa fisiologia, saranno uno stesso apparato. I c.a.n.i. sono così divenuti l’assoluto che si fa astrazione. Un vero e proprio paradigma teologico.
Se, infatti, l’uomo è ciò che mangia, allora oggi è liquidato dalla testa al ventre, mentre quel poco di natura che resta è altrove nella forma di simulacri, altrove nei giardini zoologici e nei presidi dei chierici che servono gli apparati. Entriamo ora nel tema della nostalgia con una piccola premessa. I popoli vestiti mangiano un terzo di più di cibo dei popoli nudi e sono ossessionati dalla sessualità in un contesto culturale in cui cibo e sesso sono veicoli connettivi portatori di numerosi processi di perversione, sublimazione e sedazione. La fame, si sa, condivide gli aminoacidi e sopisce le coscienze. Tuttavia il paradigma del cibo e delle sue tecniche è lo stesso della fame. L’uno non esisterebbe senza l’altro. In questa prospettiva il processo di estetizzazione degli atti alimentari nasconde la piega oscura della pulsione trofica – o, se si preferisce, fagica – il rinchiudersi della specie in uno spazio e in un tempo senza una prospettiva storica. La fame isolata dalla sazietà è, in sé, un tema ancora più stolto, che si arena in truismi altruistici dagli effetti catastrofici. Di fatto non esiste una questione alimentare perché il mondo stesso è cibo. Ridistribuito in modo razionale secondo la cartografia dei bisogni sarebbe sufficiente. Ciò non toglie che resti un problema irrisolvibile. Questa «re-distribuzione» dovrebbe avvenire coniugandosi in una topica che avendolo trasformato in un fatto culturale e sociale totale non può staccarlo da sé e dal suo destino di spreco, temendo per contrappasso la tragica maestà della dépense. L’apologia del mondo rustico in questo contesto è un alibi grossolano in difesa dello status-quo della vera fame e non solo, legittima l’utopia di pensare che i patrimoni agro-alimentari locali si armonizzino tra di loro per sostenere la loro causa nazionale invece che i loro egoismi. In ogni modo, se la tecnica è un indice, basterebbe confrontare i pochi e rozzi utensili di ieri con i congegni di oggi per cogliere non solo la differenza delle procedure, ma anche quelle del senso. L’abbondanza, del resto, ha una complessità che gli affamati non capiscono. A loro sono riservate le brode di erbaggi, non i ricettari dei signori. In altri termini, le ineguaglianze sociali si realizzano sempre nella forma di una coercizione. Lo vediamo nella storia dei diseredati, la discriminazione comincia per principio davanti alla tavola prima di diventare costume. Come insegna il magistero della chiesa di Roma, perché consigliare ai poveri una dieta ricca di proteine se poi questa dieta esacerba le passioni? Avvalendosi di enunciati gnoseologici presupposti lo spettacolo è riuscito a camuffare i processi di estetizzazione in una scienza di forme e materiali ed ha sviluppato una strategia di esemplificazioni ridicole e pericolose indirizzate alla difesa dei nominalismi, dei localismi e della nostalgia. Di più, ha allevato i suoi flaccidi devoti nel nome di una interessata ingenuità. Dentro questa cornice i localismi alimentari sono i nuovi baluardi dell’umanesimo mercantile. Essi vedono nel passato l’humus. Nella neotecnica lo strumento dei miracoli. Del resto, con l’estetizzazione della vita corrente si può parlare di tutto senza capire niente. Spiega Friedrich Hegel, è facile come tagliare un torsolo di cavolo. Ma è una storia antica. Aveva detto Immanuel Kant, pensare le specificazioni induce ai più penosi errori di giudizio. Nel nostro caso significa che, negli atti alimentari il medium ha sempre un ingiusto vantaggio sulla mera fenomenologia, anche nella sua forma scaduta di minestra riscaldata. Ritorniamo a Kant, il sublime negli atti alimentari è in ciò che essi non mostrano direttamente. Non potrebbe essere diversamente. Sosteneva, «par ris», François Rabelais, i sistemi speculativi sono sempre sostanziosi!
Ancora, nei processi di estetizzazione non c’è la sofferenza del negativo, che dovrebbe avvertire nel suo divenire un contrasto morale con il tempo delle merci immateriali, come non c’è la signoria del principio di realtà. Nell’estetizzazione, dove il segno si fa senso, è più conveniente connettere l’apparenza alla menzogna e alla rappresentazione che al significato. Del resto, non ci sarebbero le condizioni per questi processi se non ci fosse il feticismo che, manovrando nel paradigma estetico, promuove la sua non-verità, la quale appare sempre nella forma di un principio di necessità. In sostanza, l’estetizzazione risolve nell’empiria quello che l’estetica non ha mai osato pensare perché, osserva Teodor W. Adorno, essa non ha la forma di una scienza festiva, così inevitabilmente manda all’aria la nostalgie du dimanche con il risultato che, coltivando i giudizi arbitrari e le idee convenzionali, nel difendere il lardo di Colonnata, si legittimano i suoi disastri. Detto en passant, è stato il lardo che ha spinto alla conservazione dei legumi secchi inventandone le pratiche cucinarie e caritatevoli. Di contro non c’è mai stata una morale alimentare là dove le derrate obbligano ad una assimilazione immediata perché la freschezza e la deperibilità hanno sempre agito come un dogma che risolve la praxis. Lo vediamo nell’innocenza dei predatori. In questo senso, oggi, gli arcani gastronomici di territorio non sono altro che un camuffamento dei suoi escreti come forme di identità gastronomica. Lo si constata ovunque, per vendere delle merci-paccottiglia non si esita a scomodare la metafisica perché in fondo, nello spettacolo, tutto si tiene. Nella sostanza, una orientation estétique domina la nostalgia che porta ai presidi e ai paradisi zoologici, coltivando l’illusione degli orti conclusi e il paradosso dei realismi: di confondere lo stato di fatto con le illusioni. In questi presidi dell’Arcadia, esiti di una ottocentesca ideologia museale, il gusto è piuttosto un fantasma infantile, una difesa immaginaria dell’ortodossia, una regressione della voracità, che sfugge al godimento pur sembrando una pratica aristocratica dell’esperienza, tipica del costume di una gourmandise di paillette. Un tempo la semplicità poteva anche essere una forma di nobiltà, adesso è uno strumento di marketing attraverso il quale negli atti alimentari si traduce la coscienza del necessario in contraffazione del necessario. Alla fine, con l’estetizzazione è finalmente possibile suonare le campane della devozione ingenua, gratificare il gusto come esperienza della diversità che diviene falsa familiarità. Leggere l’ora nel breviario degli esperti profani che scoprono la religiosità nell’idea di origine. A questo proposito i chierici della lentezza hanno fatto del gusto un analogon del disgusto, una reazione di difesa con la quale pongono una certa distanza valoriale dai mangiatori di c.a.n.i.. Questo disgusto, in genere, è nella forma di valore ed è in grado di istituire dei legami sociali a partire da una visione gerarchica della società. In ogni caso non è un’anomalia dei sistemi culturali, non è una fantasia individuale o collettiva, ma un principio culturale applicato ad un alimento o ad una situazione. In esso l’oralità gioca una parte fondamentale, soprattutto nei sentimenti che inducono alla nausea o al vomito. Vale a dire è fondativo delle metafore che sottolineano il rigetto di qualcosa o di qualcuno allo stesso modo dell’identità soggettiva. In questo contesto anche attraverso il disgusto, appare più importante il senso che attribuiamo all’alimento che l’alimento in sé, così come si rivela più importante il valore che gli associamo di quello che l’alimento ha di per sé. Di contro, l’irrazionalità ha nel gusto una dimensione festiva che obbliga ai nominalismi. Mestiere in cui eccelle il furore mercantile del quale tutti si ostinano a nascondere l’immanenza a cominciare dai piccoli borghesi che hanno una inestinguibile passione per il lusso per il solo fatto che non lo capiscono. Così nulla è più ridicolo del loro manicheismo con il quale s’illudono di cogliere nella genuinità l’ultimo avatardell’ambrosia divina. Così, la genuinità, alla luce della nostalgia, rivela sempre un potere narcotico che induce alla nostomania. Essi la scrutano con l’ansia dei chierici perché non è mai esplicita, nel frattempo si lasciano educare dalle guide di regime.
L’equivoca funzione della genuinità mira a ben altro, ad ancorare il gusto di ciò che ha fatto il suo tempo alla modernità in nome di valori che vogliono essere di altruismo e che coltivano l’illusione di trasformare il comprendere in una conoscenza del sentire, dunque in un surrogato del giudicare. Considerati come veicoli di senso gli atti alimentari finiscono per rivelare soprattutto un bisogno edipico di dogmi, questo spiega perché i chierici della lentezza piangono spesso cibi che non sono mai esistiti. La loro qualità deve rivelare, per essere legittimati, un’origine fondatrice in qualche modo capace di sussumere la nostalgia come essenziale al processo storico, ma così facendo costoro si costringono ad appellarsi ad un’altra storia che dovrebbe essere legittimata dalla fatticità. In una prospettiva marxiana, invece, occorrerebbe preservare la fatticità dal rischio di avallare il passato come un rimedio del presente e, in seconda istanza, di mutarlo in una cauzione di merito alle forme emergenti di una nuova e infida aristocrazia del gusto, capace di coesistere con l’alienazione mercantile. Qui, l’impotenza delle strategie che legano gli atti alimentari alla riscoperta dei paradisi locali non va tollerata, se non altro perché legittima una relazione tra il sacro e il cibo che è funzionale solo ai progetti della globalizzazione agroalimentare. Friedrich Nietzsche si domandava nella gaia scienza se esistesse una filosofia della nutrizione. Certamente esiste una sua morale. Oggi lo vediamo quando il sapore muore, il gusto si trasforma in favola, in un affare narrativo che ha la malagrazia dell’impudicizia, in un culto che mira a padroneggiare i miracoli della vigna e ad esaltare le sofferenze della fatica. Dice Nietzsche: Facile, se consideriamo il potere oracolare della parola che viene dal passato! Troppo facile, se consideriamo il suo potere di confondere coloro che stanno decifrando il presente! Per i partigiani dell’oblio la sovversione è altrove, essa è, in sé, conoscenza, una rivolta contro il congegno della ragione servile piagato dalle ideologie. Per questo il rispetto delle tradizioni, esaltato dai chierici della lentezza, non è altro che un modo di ostacolare la rivolta, comunque e sempre. Per il materialismo dialettico è oggettivamente un’alleanza con la reazione. In ogni modo è ridicolo pretendere che lo strumento del gusto sia sovversivo, soprattutto perché esso non serve alle ragioni del vissuto. Da tempo si parla di un patrimonio di sapori da salvaguardare, è un’ossessione che ha le sue ragioni, ma non costituisce un fine in sé, non c’è assolutamente nulla di propositivo per i partigiani dell’oblio nel mito della ri-appropriazione. All’interno della logica mercantile opera una perversione funzionale tra la comunicazione commerciale dei gusti banalizzati – che non richiedono un apprendimento – e i gusti delle élite che impongono il passaggio attraverso le forche caudine di una sensibilizzazione classista del sentire. I chierici della lentezza, che non hanno mai fatto mistero della loro vocazione riformista, tendono a riunirsi in accademia perché sanno che non possono efficacemente discriminare, a partire dal gusto, senza prima definirne una politica. Una politica che essi sognano capace di aprire le porte alla gestione del politico. In pratica, cosa ci guadagnano nel favorire i processi di estetizzazione degli atti alimentari? La promessa di diventare dei profeti sociali, tinti di verde, come i folletti delle favole. Lo aveva capito a suo tempo quel reazionario di Léon Daudet. Le eredità gastronomiche sono un ottimo strumento di propaganda delle ambizioni politiche e, in genere, delle ideologie conservatrici, anche se indossano i panni del riformismo e, prima ancora servono ad innestare i dati biologici nella forma del politico. Insomma, la madre terra passa per essere un’autorità archetipica che può legittimare un ordine senza neppure doverlo giustificare. L’equivoco, che da qualche tempo accentua l’attenzione sul gusto, come rappresentazione dell’autenticità, è debitore, da una parte, dall’imporsi del paradigma della reliquia come espressione vissuta del corpo morcelée della natura umiliata. Dall’altra, della falsa premessa che il gusto raffiguri, nella prospettiva di una cultura dell’immateriale, il superamento del «materialismo». Questa rappresentazione dell’autenticità che apparentemente dequalifica gli ornamenti in cucina e nella politesse, appare sempre come un ritorno ai valori. Essa è intesa come una sincerità che illumina i gourmand con la luce della nostalgia, elevandola a dogma morale.
In termini biopolitici la sacralizzazione del territorio, la venerazione del passato, l’esaltazione del realismo rustico non sono altro che la nostalgia di un mondo spacciato. In questo contesto, sono soprattutto i piccoli borghesi e i nuovi ceti medi ad avvertire più forti i morsi della nostalgia per una idea di godimento nella quale si nasconde il desiderio di affidare alle discriminazioni alimentari il compito di esaltare sul piano della distinzione le ineguaglianze sociali. Nella fattispecie, la nostalgia rigenera i prodotti introducendoli in un’economia di ciclo per la quale il gusto non è un valore di per sé, ma un utensile per generare altro gusto e così di seguito. Questa rigenerazione ha anche un obiettivo segreto, di congelare le economie di scala dei prodotti per non alterare il mercato dei privilegi. Ma perché servono degli specialisti per gestire attraverso la nostalgia la qualità di certi prodotti dell’agro-alimentare? Perché è di estrema importanza tenere sotto controllo i cambiamenti del gusto che devono essere sufficientemente intrisi di nostalgia valoriale senza, per questo, creare un sentimento d’insoddisfazione per il prodotto in sé. In questo senso l’opzione estetica – nostalgia più re-styling – è particolarmente vantaggiosa in quanto contrae gli investimenti e, soprattutto, aiuta a controllare l’evolversi del gusto del consumatore. Occorre anche capire come ciò che lega il gusto alla gestione della nostalgia non interessa solo le élite, ma soprattutto la produzione di massa dei c.a.n.i.. Nella cultura borghese, affermava Georg Simmel, lo stile serve ad omogeneizzare i contenuti della vita corrente in modo che siano condivisi dal maggior numero possibile di individui. Non per caso la questione dello stile non riguarda direttamente le opere d’arte, ma i processi di estetizzazione. Se volessimo essere metafisici potremmo aggiungere, non c’è un’anima nello stile, per questo funziona la nostalgia! Peccato che i cultori della «biopolitica», che fiancheggiano i cavalieri della lentezza, non se ne siano accorti. Eppure mostrano di parteggiare per il corpo vivente visto che l’uomo è antiquato! In questo modo il consumo di prodotti di élite, forgiati dalla nostalgia, diviene un contributo ai valori superiori di una società. Quello di un’unificazione fittizia del desiderio che qui è l’altra faccia dell’alienazione. Un modo per generare altri equivoci. Il gusto, nella modernità mercantile, non è l’espressione di una singolarità, ma di un doxa condivisa, esso si misura su una scala sociale – e non personale – dove è ancora influenzato dal libero arbitrio. L’obiettivo della produzione, del resto, è di produrre il consumatore, meglio se esteticamente orientato e convinto sul valore aggiunto della nostalgia. L’estetizzazione, in sintesi, ibrida le frontiere e le gerarchie, moltiplica le illusioni del godimento, favorisce il nomadismo, tutto sul piano scivoloso dello spettacolo dietro cui agisce l’eclettismo. In tale prospettiva moltiplicare i gusti significa accrescere le possibilità della merce. La grande distribuzione non teme i chierici della lentezza almeno fino a quando confonderanno realtà e finzione, tradizione e mito, identità ed anonimato sociale. Non è dunque un caso che attraverso i processi di estetizzazione l’invenzione mitografica si mescola in modo interessato con la riscoperta. Così i caratteri della lentezza sembrano destinati ad educarci a vivere fissando l’eternità, intanto che la merce esige di essere amata ogni giorno.
Da: «Fooda», 2010
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