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Guerra: tutti perdenti



Proponiamo la traduzione di un articolo di Wolfgang Streeck, comparso originariamente sulla rivista «El Salto» (https://www.elsaltodiario.com/carta-desde-europa/wolfgang-streeck-guerra-ucrania-todos-perdedores), in cui sono analizzate le motivazioni geopolitiche che si annidano dietro all’attuale Guerra in Ucraina. Streeck affronta il punto di vista russo, europeo e americano, non risparmiando ampie critiche alle ingerenze degli Stati Uniti nelle vicende europee e al ruolo di subordinazione assunto dall’Ue in un conflitto che sembra a tutti gli effetti configurarsi come una propaggine della Guerra fredda.



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I motivi per cui il sistema statale europeo è precipitato nella barbarie della guerra – per la prima volta dal bombardamento di Belgrado da parte della Nato nel 1999 – non possono essere spiegati ricorrendo a una «psicologia semplificata». Perché la Russia e l’«Occidente» hanno dato il via a un implacabile guerra sull’orlo dell’abisso, con il rischio per entrambi di cadere, infine, nel precipizio?

Ora più che mai, mentre viviamo queste tremende settimane, comprendiamo quello che Gramsci intendeva con l’espressione «interregno»: una situazione «in cui il vecchio muore e il nuovo non può nascere», una situazione in cui «si verificano i fenomeni morbosi più svariati», come paesi potenti che consegnano il loro futuro alle incertezze di un campo di battaglia offuscato dalla nebbia della guerra.

Nessuno sa, al momento in cui scriviamo, come finirà la guerra in Ucraina, e con quale spargimento di sangue. Quello su cui possiamo provare a ragionare, a questo punto, è su quali possano essere state le ragioni – e gli individui hanno sempre delle ragioni per agire, per quanto possano irritare gli altri – dietro alla politica di pressione psicologica (brinkmanship) esercitata senza compromessi sia dagli Stati Uniti che dalla Russia. Questo è il terrificante scenario: l’escalation del confronto, la rapida diminuzione delle possibilità per entrambe le parti di salvare la faccia a meno di una vittoria totale, che termina con l’assalto omicida della Russia a un paese vicino con cui un tempo condivideva uno Stato comune.

In questo conflitto troviamo notevoli parallelismi, così come le ovvie asimmetrie, tra Russia e Stati Uniti, due imperi che da lungo tempo si trovano a dover fare i conti con la strisciante decadenza del loro ordine interno e della loro posizione internazionale e a tentare di mettere un argine a questo processo.

Nel caso russo, si ha l’esempio di un regime al contempo statalista e oligarchico, che deve affrontare una crescente agitazione tra i suoi cittadini. Un Paese ricco di petrolio e di corruzione, incapace di migliorare la vita della popolazione, mentre i suoi oligarchi si arricchiscono a dismisura, un regime che si orienta sempre più verso l’uso di una pesante mano dittatoriale contro qualsiasi protesta organizzata. Per potersi sedere più comodamente sulle baionette è necessario possedere una stabilità che deriva dalla prosperità economica e dal progresso sociale, a sua volta dipendente dalla domanda globale di petrolio e di gas che la Russia ha in abbondanza. Per poter vendere agli altri paesi queste risorse, la Russia deve tuttavia poter accedere ai mercati finanziari e alla tecnologia avanzata, accesso che gli Stati Uniti hanno da tempo cominciato a negare.

Lo stesso discorso vale per quanto riguarda la sicurezza esterna, dal momento che gli Stati Uniti e la Nato, da quasi due decenni, sono penetrati politicamente e militarmente in quello che la Russia, la quale ha fin troppa familiarità con le incursioni straniere, rivendica come suo cordone sanitario. I tentativi di Mosca di negoziare su questo punto hanno fatto sì che la Russia post-sovietica venisse trattata da Washington allo stesso modo del suo predecessore, l’Urss, con lo scopo di far cadere il governo e prospettare un cambio di regime. Tutti i tentativi di porre fine all’«invasione» della Nato non hanno portato a nulla; la Nato si è avvicinata sempre di più e ha recentemente posizionato missili a raggio intermedio in Polonia e Romania. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti hanno iniziato a trattare l’Ucraina come un territorio di loro proprietà – ne sono un esempio i proclami vicereali di Victoria Nuland su chi dovrebbe guidare il governo di Kiev.

A un certo punto, il governo russo ha evidentemente concluso che questa graduale erosione, interna ed esterna, sarebbe continuata senza sosta a meno che non fosse stata presa la drammatica decisione di un’iniziativa volta a fermarla. Ciò che ne è seguito è stato il rafforzamento militare intorno all’Ucraina a partire dalla primavera del 2021, accompagnato dalla richiesta di un impegno formale da parte di Washington a rispettare d’ora in poi gli interessi di sicurezza russi – cercando, così, un conflitto aperto invece di uno latente, forse nella speranza di mobilitare lo spirito di patriottismo russo che un tempo aveva sconfitto i tedeschi.

Se si passa ad analizzare il lato americano, si riscontra un rancore nei confronti della Russia che risale ai primi anni 2000, dopo che Boris Eltsin, l’uomo post-sovietico appoggiato dagli Stati Uniti, ha lasciato il paese a Vladimir Putin a seguito del disastro economico e sociale causato dalla «terapia d’urto» consigliata dagli americani.

L’iniziale tentativo di Putin di unirsi alla Nato sotto gli auspici del Nuovo Ordine Mondiale è stato respinto, nonostante gli sforzi che sono stati fatti per aiutare Washington nella sua invasione dell’Afghanistan.

Le obiezioni russe all’allargamento della Nato del 2004 – che ora minaccia il suo confine nord-occidentale – si sono scontrate con la dichiarazione di Bush e Blair della politica della «porta aperta» per la Georgia e l’Ucraina al summit di Bucarest del 2008.

L’establishment politico americano, guidato dall’ala del Partito democratico di Hillary Clinton, ha iniziato a trattare la Russia come uno «Stato canaglia», proprio come era stato fatto con l’Iran, altro Paese che si era sottratto al controllo americano. Se in passato si parlava di «un comunista sotto ogni letto americano» ora il nemico è il russo, anche se molti americani non sono mai riusciti a distinguere tra i due. Anche l’elezione di Trump nel 2016 è stata attribuita dal partito perdente a occulte macchinazioni russe, il che ha politicamente ucciso gli iniziali tentativi di Trump di cercare una sorta di accordo con la Russia. (Ricordate la sua innocente domanda sul perché la Nato esistesse ancora, tre decenni dopo la fine del comunismo?) Alla fine del suo mandato, per ricucire i rapporti con lo stato profondo americano e gli elettori, Trump è dovuto tornare alla consolidata posizione antirussa.

Per gli Stati Uniti, rifiutare le richieste russe di garanzie di sicurezza, è stato un modo conveniente per assicurarsi la fedeltà incondizionata dei paesi europei alla Nato, un’alleanza che negli scorsi anni è diventata sempre più traballante. Questo ha riguardato soprattutto la Francia, il cui presidente non molto tempo fa aveva dichiarato la Nato «cerebralmente morta», ma anche la Germania con il suo nuovo governo il cui partito leader, la Spd, è stato accusato di essere troppo vicino alla Russia. Vi è stata poi la questione del gasdotto Nord Stream 2. Merkel, in tandem con Schröder, aveva invitato la Russia a costruirlo, sperando di riempire il vuoto nell’approvvigionamento energetico tedesco che ci si aspettava derivasse dal Sonderweg della Rft per abbandonare il carbone e il nucleare. Gli Stati Uniti si sono opposti al progetto, così come molti altri in Europa, compresi i Verdi tedeschi. Tra le ragioni c’erano i timori che il gasdotto avrebbe reso l’Europa occidentale più dipendente dalla Russia, e che sarebbe stato impossibile per l’Ucraina e la Polonia interrompere le forniture di gas russo se Mosca si fosse comportata male.

Lo scontro sull’Ucraina, provocato dal ripristino dell’obbedienza europea alla leadership americana, ha risolto questo problema in poco tempo. Seguendo l’esempio degli annunci declassificati della Cia, la cosiddetta «stampa di qualità» dell’Europa occidentale, per non parlare dei mass media in generale, hanno presentato la situazione, in rapido peggioramento, come una lotta manichea tra il Bene e il Male, tra gli Stati Uniti guidati da Biden e la Russia guidata da Putin. Nelle ultime settimane del governo Merkel, l’amministrazione Biden ha convinto il Senato degli Stati Uniti a non imporre dure sanzioni alla Germania e agli operatori del Nord Stream 2, in cambio dell’accordo della Germania di includere il gasdotto in un possibile futuro pacchetto di sanzioni contro la Russia. Dopo il riconoscimento russo delle due province secessioniste dell’Ucraina orientale, Berlino ha formalmente posticipato la certificazione normativa del gasdotto – il che, tuttavia, non è stato sufficiente. In una conferenza stampa tenutasi a Washington e con accanto il nuovo cancelliere tedesco, Biden ha annunciato che, se necessario, il gasdotto sarebbe stato sicuramente incluso nelle sanzioni alla Russia. Scholz è rimasto in silenzio. Pochi giorni dopo, Biden ha appoggiato il piano del Senato a cui si era opposto in precedenza. Poi, il 24 febbraio, l’invasione russa ha spinto Berlino a fare da sola ciò che altrimenti sarebbe stato fatto da Washington per conto della Germania e dell’Occidente: accantonare il progetto del gasdotto una volta per tutte.

Così si è ricostituita l’unità occidentale, accolta dagli applausi di giubilo dei commentatori locali, grati per il ritorno delle certezze transatlantiche della Guerra fredda. La prospettiva di entrare in guerra a fianco dell’esercito più formidabile della storia mondiale ha immediatamente cancellato i ricordi di pochi mesi prima, quando gli Stati Uniti hanno abbandonato con poco preavviso non solo l’Afghanistan, ma anche le truppe ausiliarie fornite dai suoi alleati della Nato a sostegno di quella che un tempo è stata l’attività preferita dagli americani, il «nation-building». Non importa se Biden si è appropriato della maggior parte delle riserve della banca centrale afgana, per una cifra totale di 7,5 miliardi di dollari, da distribuire ai cittadini colpiti dall’11 settembre (e ai loro avvocati), mentre l’Afghanistan sta soffrendo una carestia nazionale. Sono state dimenticate anche le macerie lasciate dai recenti interventi americani in Somalia, Iraq, Siria, Libia – la distruzione totale, seguita da un frettoloso abbandono, di interi paesi e regioni.

Si è tornati nuovamente all’Occidente, «la Terra di Mezzo», che combatte la «Terra di Mordor» per difendere un piccolo paese coraggioso che vuole solo «essere come noi» e per questo scopo non desidera altro che essere autorizzato a camminare attraverso le porte aperte della Nato e dell’Ue. I governi dell’Europa occidentale hanno dimenticato la radicale incoscienza della politica estera americana, favorita dalla dimensione degli Stati uniti e dalla loro posizione su un’isola di dimensioni continentali che nessuno può raggiungere, rendendoli così incuranti dei disastri che provocano quando le loro imprese militari falliscono. Sorprendentemente questi governi hanno conferito agli Stati Uniti, un impero non europeo in declino e geograficamente lontano, con diversi interessi e una serie di problemi interni, pieni poteri per trattare con la Russia su niente di meno che il futuro del sistema statale europeo.

Cosa ne è dell'Ue? In breve, mentre l’Europa occidentale viene restituita all’«Occidente», l’Ue è ridotta a una risorsa geo-economica per la Nato, ovvero per gli Stati Uniti. Gli eventi che riguardano la questione ucraina hanno reso più chiaro che mai come, per gli Stati Uniti, l’Ue rappresenti essenzialmente una fonte di regolamentazione economica e politica per quegli Stati che, con il pretesto di aiutare l’«Occidente», servono a circondare la Russia sul suo confine occidentale. Mantenere i governi filo-americani al potere negli ex Stati satelliti sovietici è dispendioso e per questo è conveniente che «gli oneri» vengano condivisi. Così l’Europa paga «il pane» mentre gli Stati Uniti forniscono le armi – o danno almeno l’illusione di fornirle. Questo rende l’Ue a tutti gli effetti un ausiliario economico della Nato. Nel frattempo, i governi dell’Europa orientale preferiscono affidarsi a Washington per la loro difesa piuttosto che a Parigi e Berlino, data la comprovata facilità del primo a ricorrere all’uso della violenza e per la lontananza geografica della sua base operativa. In cambio della protezione degli Stati Uniti attraverso la Nato, e del patrocinio di Washington per il loro rapporto con l’Ue, paesi come la Polonia e la Romania ospitano missili statunitensi che dovrebbero presumibilmente difendere l’Europa dall’Iran, mentre sfortunatamente passano attraverso i loro confini per minacciare la Russia.

La conseguenza è che l’Ue della Von der Layen conferma la sua subordinazione agli Usa. Anche la decisione di accogliere nell’Ue l’Ucraina e i paesi dei Balcani occidentali, come la Georgia e l’Armenia, appare così come una decisione che deve essere presa in ultima istanza da Washington. La Francia può ancora tentare di opporsi a questo allargamento, ma per quanto tempo potrà farlo se, come sostengono i più, a pagarne il conto sarà la Germania? (Anche se le procedure formali di adesione all’UE per l’Ucraina non sono state avviate, von der Leyen ha annunciato che l’Ue è pronta ad accoglierla).

Un altro problema riguarda la Polonia, che essendo fortemente antirussa, difficilmente verrà punita dall’Ue con sanzioni che impediscono il sostegno economico a causa delle accuse che la Corte europea ha mosso al paese per le carenze del suo «stato di diritto». Lo stesso vale per l’Ungheria, il cui leader Orbán, è diventato sempre più anti-russo. In altre parole, con il ritorno americano in Europa, il potere di disciplinare gli Stati membri dell’Ue si è trasferito da Bruxelles a Washington.

Una cosa che gli europei dell’Ue, specialmente i Verdi, stanno imparando è che se permetti agli Stati Uniti di proteggerti, la geopolitica vince su tutte le altre politiche, e che la geopolitica è definita solo da Washington. È così che funziona un Impero. L’Ucraina, un paese in mano a una miriade di oligarchi, inizierà presto a ricevere un maggiore sostegno finanziario dall’«Europa». Questo, tuttavia, sarà solo una minima parte di quello che gli oligarchi ucraini depositano regolarmente nelle banche svizzere o britanniche o, si presume, in quelle americane.

Rispetto all’Ucraina, la Polonia e persino l’Ungheria sono, per usare una similitudine americana, «pulite come il dente di un cane da caccia» (chi potrebbe dimenticare lo stipendio di Hunter Biden come direttore non esecutivo di una società di gas ucraina il cui principale proprietario è stato indagato per riciclaggio di denaro?)

Ciò che rimane un mistero, ovviamente non l’unico in questo contesto, è perché gli Stati Uniti e i loro alleati non si preoccupano sufficientemente delle conseguenze di una risposta da parte della Russia alle continue pressioni per un cambio di regime – ricercato attraverso la negazione da parte dell’«Occidente» di una zona di sicurezza – e che porta verso un’alleanza sempre più profonda con la Cina. È vero che storicamente la Russia ha sempre voluto essere parte dell’Europa, e qualcosa come l’«Asiafobia» è profondamente ancorata nella sua identità nazionale. Mosca è per i russi la terza Roma, non la seconda Pechino. Già nel 1969, la Russia e la Cina, allora entrambe comuniste, si sono scontrate sul loro reciproco confine sul fiume Ussuri. Ora, con la Russia tagliata fuori dall’Occidente per un tempo indefinito, la Cina, a corto di materie prime, può intervenire e fornire alla Russia la sua moderna tecnologia. Mentre la Nato sta mobilitando il continente eurasiatico in «Europa», compresa l’Ucraina, contro la Russia, vista come nemico non europeo dell’Europa, il nazionalismo russo potrebbe, andando contro alla sua identità storica, sentirsi costretto ad allearsi con la Cina, così come è stato prefigurato da quella strana immagine di Xi e Putin in piedi fianco a fianco all’apertura delle Olimpiadi invernali di Pechino.

Un’alleanza tra Cina e Russia sarebbe il risultato involontario dell’incompetenza americana o, al contrario, un risultato voluto della sua strategia globale? Se Mosca si alleasse con Pechino, non ci sarebbe più alcuna prospettiva per un accordo russo-europeo «à la française». L’Europa occidentale, in qualsiasi forma politica, funzionerebbe più che mai come l’ala transatlantica degli Stati Uniti in una nuova Guerra fredda o, forse «calda», tra i due blocchi che sono entrambi in declino e sperano di invertire questa tendenza.

Solo un’Europa in pace con la Russia, che rispetti le esigenze di sicurezza russe, potrebbe sperare di liberarsi dall’influenza americana, così efficacemente consolidatasi durante la crisi ucraina. Questa, si presume, è la ragione per cui Macron ha insistito così a lungo sul fatto che la Russia è parte dell’Europa, e sulla necessità che l’«Europa», rappresentata ovviamente da lui stesso e dalla Francia, provveda alla pace sul suo confine est. L’invasione russa dell’Ucraina ha messo fine per molto tempo, se non per sempre, a questo progetto che, d’altronde, non è iniziato sotto i migliori auspici. La Germania dipende eccessivamente dalla protezione nucleare degli americani, e a questo si aggiungono i dubbi dei tedeschi sulle fin troppo fantasiose ambizioni globali francesi, che sono state riformulate come ambizioni europee da finanziare con il potere economico tedesco. In questo contesto, la Russia può legittimamente chiedersi se la Francia sia in grado di sottrarre agli Stati Uniti il posto di guida europeo.

Quindi chi sarebbe il vincitore di questo conflitto? Gli Stati Uniti? Più la guerra si trascina, a causa della resistenza vincente dei cittadini ucraini e del loro esercito, più sarà facile notare come il leader dell’«Occidente», che ha parlato a nome dell’«Europa» mentre la guerra divampava, non stia intervenendo militarmente a favore dell’Ucraina. Gli Stati Uniti si sono dati un «congedo speciale», come Biden ha chiarito fin dall’inizio. Se si guarda ai casi precedenti, non è una novità: quando la missione degli americani diventa ingestibile, essi si ritirano nella loro isola lontana. Tuttavia, mentre i tedeschi osservano l’evolversi della situazione, chiedendosi dove sono gli Stati Uniti, potrebbero iniziare a nutrire qualche dubbio sull’impegno preso da Washington di difendere il loro territorio. Questo impegno, dopo tutto, non implica l’appartenenza tedesca alla Nato, l’adesione tedesca al trattato di non proliferazione nucleare, e lo stanziamento di circa 30.000 truppe americane sul suolo tedesco.

In questo contesto, lo stanziamento speciale di 100 miliardi di euro, annunciato a pochi giorni dall’inizio della guerra dal governo Scholz e dedicato a mantenere la promessa, risalente al 2001, di spendere il 2% del Pil tedesco in armi, ha tutto l’aspetto di un sacrificio rituale per placare «un Dio arrabbiato che si teme possa abbandonare i suoi fedeli». Nessuno crede che se la Germania avesse rispettato prima la richiesta di fornire il 2% delle armi per la Nato, la Russia sarebbe stata dissuasa dall’invadere l’Ucraina, o che la Germania avrebbe potuto e voluto venire in suo soccorso. In ogni caso ci vorranno anni prima che i nuovi armamenti, naturalmente gli ultimi offerti, siano messi a disposizione delle truppe e, in ogni caso, saranno armamenti uguali a quelli che Stati Uniti, Francia e Regno Unito hanno già in abbondanza.

Inoltre, l’intero esercito tedesco è sotto il comando della Nato, cioè del Pentagono, quindi le nuove armi si aggiungeranno alla Nato, non alla potenza bellica della Germania. Tecnologicamente, saranno progettate per essere usate in tutto il mondo, in «missioni» come l’Afghanistan – o, più probabilmente, nel territorio della Cina, per sostenere gli Stati Uniti nelle sue incursioni nel Mar Cinese Meridionale. Non c’è stato alcun dibattito nel Bundestag su quali debbano essere esattamente le nuove forniture di armi o per cosa saranno usate. Come è avvenuto in passato durante l’era Merkel, questa decisione è stata lasciata in mano agli «alleati». Una delle destinazioni potrebbe essere il Future Combat Air System (Fcas), caro ai francesi, che combina bombardieri da combattimento, droni e satelliti per operazioni mondiali. C’è poca speranza che a un certo punto ci sia un dibattito strategico in Germania su cosa significhi difendere il proprio territorio, piuttosto che attaccare il territorio degli altri. L’esperienza ucraina può aiutare ad avviare questa discussione? Improbabile.



Immagine: Winston Smith


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Wolfgang Streeck è un sociologo ed economista tedesco, direttore emerito dell'Istituto Max Planck per lo studio delle società a Colonia.


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