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Pierpaolo Ascari

Gli svergognati

Valditara in confidenza




Aloise, Dolly cup, Pierre Gautier attorno al 1962
Aloise, Dolly cup, Pierre Gautier attorno al 1962

La costruzione - o, più precisamente, l'immagine che ci viene restituita - di un rapporto «quasi domestico», confidenziale, tra potere e popolazione è uno dei temi posti dal populismo.

Pierpaolo Ascari traccia una genealogia di questo tentativo, spiegando come siano stati i post fascisti a trarne infine vantaggio.


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 Nelle varie uscite di Giuseppe Valditara si sta senz’altro esprimendo una considerevole dose di bullismo istituzionale che meriterebbe analisi più specifiche, ma non mi pare davvero il tipo al quale si possa ragionevolmente attribuire la capacità di fare epoca. Sono l’epoca e la fedeltà a Salvini, piuttosto, ad aver fatto lui, nel senso del ministro e di un certo modo di intendere l’esercizio delle proprie funzioni. Nel tentativo di tratteggiare una genealogia, allora, potrebbe valer la pena rileggere un vecchio articolo del 1998 con il quale lo scrittore americano Jonathan Franzen provava a comprendere quali fossero i tratti antropologici che si stavano rendendo vistosi nei giorni del cosiddetto Sexgate. Giorni del secolo scorso nei quali veniva pubblicato il rapporto che avrebbe inchiodato Bill Clinton alle proprie responsabilità, quando Franzen racconta di aver ricevuto una chiamata dalla banca che gli chiedeva se fosse stato effettivamente lui a utilizzare la sua carta di credito per fare certe compere in ferramenta. E scrive: «Quella era la prima volta che mi capitava e per un attimo mi sentii stranamente vulnerabile. Allo stesso tempo, ero perversamente lusingato dal fatto che qualcuno, da qualche parte, si fosse interessato a me e si fosse preso la briga di telefonare».

 

Se dovessimo stabilire qual è il colpo di tacco della psicologia populista, forse, lo dovremmo rintracciare proprio in questo genere di lusinghe, che non presuppongono solo un interessamento agli antifonali problemi della gente ma una più ampia pretesa di confidenza, dando luogo a un rapporto quasi domestico con il potere che finalmente ci contatta e parla come noi. Nella genesi di questa ristrutturazione, Stuart Hall si era già domandato quale fosse il segreto delle confidenze che Margaret Thatcher riusciva a prendersi con alcuni settori della società dei quali non era in alcun modo intenzionata a promuovere gli interessi. Pur criticando la nozione di falsa coscienza, allora, proponeva che dell’Ideologia tedesca si salvasse perlomeno il principio in base al quale «la distribuzione sociale della conoscenza è asimmetrica» e che fosse proprio il mascheramento di una tale ovvietà ad aver assicurato un incredibile successo al populismo autoritario. Il quale, infatti, si sarebbe affermato attraverso la costruzione di una simmetria fittizia e sensazionale grazie alle immagini televisive di un primo ministro che preparava la cena per i figli, se li trascinava al supermercato e rimaneva con loro in soggiorno finché non avevano terminato di fare i compiti.

 

Ma proprio mentre annunciava l’imminente abrogazione di qualsiasi gerarchia biografica, funzionale o cognitiva che ancora ce lo teneva a una prudente distanza di sicurezza, questo potere ammiccante introduceva una confusione micidiale tra la sfera pubblica e la dimensione privata che doveva rendere l’intimità con il popolo sempre più ornamentale. Iniziava quindi l’epoca in cui le decisioni pubbliche si sarebbero prese al circolo della vela e la riservatezza avrebbe dato spettacolo in pubblico. Così, scrive sempre Franzen, adesso «la gente nomina prontamente le proprie malattie, il proprio canone d’affitto, i propri antidepressivi. I trascorsi sessuali vengono spiattellati al primo appuntamento, le Birkenstock e i pantaloni tagliati al ginocchio si infiltrano in ufficio durante i venerdì casual» e «il telelavoro porta la sala riunioni in camera da letto». Ma questo potere seducente, questo spogliarello pressoché integrale dei gusti, dei vissuti e delle informazioni riservate sanciva realmente la fine della privacy? No, rispondeva Franzen, siamo piuttosto di fronte all’orribile spettacolo di una privacy trionfante che riduce le democrazie a uno sconfinato pigiama-party.

 

Il pur sempre temibile avvicinamento del potere agli individui, quindi, non avveniva più attraverso un informatore o una spia (il confidente) ma grazie alla produzione di un soggetto che instaura con la sfera pubblica un rapporto più sbracato, informale, animato dall’aspirazione personale a una confidentia che per Cicerone era anche superbia mentre per Quintiliano equivaleva alla temeritas, all’improbitas e all’arrogantia. Perché lo dice pure il proverbio, «Chi ha poca vergogna tutto il mondo è suo», uno smisurato tinello nel quale aggirarsi a piedi scalzi tra una confessione e un selfie, mentre la Meloni stappa una bottiglia del suo vino migliore (dice) e i figli della signora Thatcher ripetono i nomi dei distretti del Lancashire. Ma come segnalava Guy Debord, «chi è contento di essere a parte della confidenza non è particolarmente portato a criticarla e quindi neanche a notare che, in tutte le confidenze, la parte principale della realtà gli sarà sempre negata».

 

Ed è proprio a questo riguardo che non sottovaluterei il carattere non solo intimidatorio ma anche ammiccante delle iniziative prese da Giuseppe Valditara contro Christian Raimo e Nicola Lagioia, per esempio, due tipi che appartengono chiaramente a un mondo del quale gli italiani – sia detto in confidenza – non ne possono più. A volte anche per ragioni oggettive e condivisibili, forse, ma nelle quali la politica ha da tempo compreso di potersi tuffare proficuamente a bomba, ironizzando sullo scarso valore proteico della cultura o dichiarando che lo studio scolastico dei Promessi sposi andava «abolito per legge». Erano i tempi del governo Renzi, dei ciaone e della liberazione del paese da tutti i rottami del passato.

 

Se oggi il lavoro critico e culturale viene screditato e querelato, dunque, è anche nella prospettiva di una politica che si è nutrita e continua a nutrirsi di un risentimento diffuso e direi quasi prometeico nei confronti della tecnologia costituzionale e dei suoi orizzonti storici di legittimazione. Rimarrebbe allora da domandarsi quale sia stato il contributo che al rafforzamento di una tale prospettiva hanno dato i latinorum dei governi tecnici con le loro scelte insistentemente classiste e razziste ma «tecnicamente necessarie», responsabili di una degenerazione che ricorrendo a un titolo di Mario Lavagetto, il quale peraltro esaminava la medesima tendenza nel campo più specifico della critica letteraria, si potrebbe definire di eutanasia delle istituzioni. 

 

Sta di fatto che a passare all’incasso, oggi, sono coerentemente i postfascisti, che con le prerogative dell’emancipazione e della dialettica non hanno mai preteso di andare d’accordo, mentre la scuola si dovrebbe muovere nella direzione opposta, lo sappiamo, ma non quella di Giuseppe Valditara. Il suo attacco al mondo della cultura gode di una popolarità che il ministro intende piuttosto vezzeggiare, mentre l’epoca rimane quella in cui i dirigenti confidano ai cittadini che non avranno più bisogno di nulla, né di Manzoni né degli intellettuali che continuano spocchiosamente a interessarsene, colpevoli soprattutto di aver impedito per tanto tempo che i problemi della società si risolvessero finalmente in famiglia. Tra i ministri e il popolo si deve stabilire un rapporto diretto o quella che Maksim Gor’kij chiamava «un’intimità da porcile», un dire pane al pane che trasforma qualunque mediazione in una «sovrastruttura socialistoide-democratica», come la chiamava Benito Mussolini. Lo stesso Mussolini che qualche anno dopo, interrompendo Antonio Gramsci in parlamento, avrebbe affermato che «i lettori dei giornali hanno regolarmente torto» tra le risate e gli applausi dei suoi ambiziosissimi servi.


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Pierpaolo Ascari è ricercatore di Estetica presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna. Ha scritto Ebola e le forme (2016), Attraverso i confini. Lettura, storia ed esperienza estetica in Stendhal e Flaubert (2018), Corpi e recinti. Estetica ed economia politica del decoro (2020) e The Adventure of Form. Aesthetics, Nature and Society (2021). Per MachinaLibro ha scritto: Fine di mondo. Dentro al rifugio antiatomico da giardino (2024).

 

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