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Gli anni '80: figurazione della macchina - della vita


Un articolo di Ileana Zaza sul cinema degli anni Ottanta, a completare la prima parte della rassegna sui decenni smarriti.

* * *


Solo l’inessenziale come una mucca si trascina

l’essenziale è così rapido che accade all’improvviso

poi il silenzio normale perciò insopportabile.

(Twardowski, Affrettiamoci)


Gli anni '80. Sono gli anni della mia infanzia. Della scoperta dei libri. Della scoperta del cinema. In fondo un'unica scrittura, come diceva Pasolini, qualcosa si scrive come nel sogno a nostra insaputa, e lavora silenziosamente tra le maglie delle parole e delle immagini.

Ricordo i pomeriggi d'inverno lividi per la pioggia, le strade deserte e i cinema che ancora si affollavano, quella rumorosa folla che si accalcava all'ingresso dell'unica sala rimasta in città; ricordo la televisione che ad un certo punto era come divisa in due, da una parte in quella bianco nero c'erano i concerti all'ora di pranzo, i programmi di discussione e le serie, e dall'altra una disordinata sequela di scene di brevi racconti che reclamizzavano prodotti, liquori e sigarette, pasta e shampoo prima di trasmissioni allegre e di film dai colori accesi. Ricordo la musica esplosiva di Madonna che usciva da un mangianastri nel cortile del palazzo, collant fucsia fluorescente e una ragazza grande che ci insegnava passi e movenze moderne, il cantare a squarcia gola senza capirci un'acca. Ricordo i lunghi tristi corridoi di un ricovero di suore, quello sopra l'asilo, e stanzoni con innumerevoli letti. Ricordo l'afa dell'estate e un'invasione di cavallette che ricoprivano i balconi.

Ricordo i film che i miei genitori vedevano al cinema, portavano sempre me con loro, film italiani per lo più. Ricordo Olmi. I fratelli Taviani. Moretti. Non ne parlerò qui. Meno comprendevo e più ne ero affascinata. Ricordo che la televisione del salotto rimaneva spesso accesa, ricordo che sovente i film serali incutevano terrore (quello che dopo avrei scoperto essere il genere horror), ricordo da molto piccola che il pulsante sotto lo schermo dell'apparecchio non veniva spento e in assenza della selezione di un canale, nel buio generale, quel sordido scroll di linee grigio chiaro intermittenti, quella luce inquietante mi faceva paura come se qualcosa all'interno di quella scatola potesse animarsi e come un flusso risucchiarmi al suo interno. Il mondo cambiava con quella luce impercepita dentro il luogo più privato dello spazio sociale. La casa, il luogo del benessere per eccellenza. Gli anni '80, gli anni del benessere nell'immaginario collettivo.

A quale rappresentazione da corpo il cinema di quegli anni? Cosa sottende l'immaginario occidentale? Alcuna risposta esauriente e onnicomprensiva è possibile. Il cinema è questo territorio polivalente, molteplice, refrattario alla codificazione, disseminato di voci. Un territorio facilmente permeabile dal potere – il potere non ha un unico volto – e allo stesso tempo attraversato dal suo stesso fuori discorso, da forze che ne decostruiscono le linee maggioritarie[1].

Il cinema ci mostra per lo più corpi. Alieni, mostruosi. Corpi in «viaggio». Viaggi alati, in altri mondi. In altri tempi. Viaggi futuristici. Peregrinazioni terrene. E corpi che hanno a che fare con un fuori che sopraggiunge imprevisto. Corpi presi nella «macchina» della vita e della morte. Il cinema scrive Godard «è un laboratorio della vita, è il paradiso per studiare la vita mentre si vive».

Il pubblico preferisce la storia rassicurante del ritorno a casa di un alieno con una luce all'estremità del dito piuttosto che l'ala sinistra del cinema americano, John Carpenter, che mette in scena l'ansia angosciosa dell'ignoto (THE THING, 1982) e l'inesistenza di presunti poteri buoni (Fuga da New York, 1981). Tra le produzioni milionarie, gli effetti speciali, i colori di una fotografia futuristica, il bianco e nero di Stranger than Paradise di Jim Jamursh del 1984 nell'essenzialità della messa in scena ci restituisce una figura della vita in netto stridore. Eva, una giovane ragazza ungherese arriva in aereo con una pesante valigia nel paradiso di New York e prima di raggiungere la zia a Cleveland viene ospitata per una decina di giorni dallo sconosciuto cugino Willie la cui ordinaria Quotidianità fatta di inedia, pasti pronti preconfezionati e scommesse con il suo amico Eddie viene «scombinata». Il vero nome di Willie è Bela, sostituzione che tradisce l'identificazione ossessiva al sogno americano – l'insistenza di parlare solo in inglese, mangiare il cibo finto delle grandi catene di distribuzione, guardare il Football in tv, l'essere «cool». Un anno dopo, Willie ed Eddie, avendo vinto al gioco, decidono di andare a trovare la ragazza, che fa la cameriera in un modesto «snack».

Passati alcuni giorni tra cinema e partitelle casalinghe, i due amici decidono di fare una vacanza in Florida portando insieme Eva. Ma in Florida fa freddo, il mare è grigio, i soldi saranno persi e i tre finiranno per separarsi e rimanere soli. Telecamera quasi sempre ferma, brevissime scene intervallate da ripetuti stacchi al nero, non più di tre personaggi a scena. Alberi, luoghi, mobili, corpi, dialoghi, rapporti spogli, scarni, laconici, sgualciti e dimessi come gli abiti dei loro protagonisti. Un insieme che tuttavia per un effetto di straniamento si rivela caustico. Una storia sull'esilio da se stessi, la definisce Jarmush. L'immaginario di un ideale che plasma la vita dei personaggi fa i conti con la scarna simbolizzazione di un viaggio reale e metafisico dove il paradiso non è in nessun luogo; come i frame al nero – necessità stilistica dettata dalla dura realtà della vicenda produttiva del film[2] – tagliano le sequenza di vita finzionale così il viaggio dei protagonisti si confronta con i tagli delle loro fantasmatiche credenze, di cui il passaggio della giovane Eva funge da cartina al tornasole. Fuori dal Mito e dalla Letteratura, fuori dalla Causa e perfino dal Cinema, il paradiso decantato in Stranger than Paradise (in italiano letteralmente «Più strano del

Paradiso») – si noti che la parola Stranger presa da sola sta per «straniero» – è racchiuso in un'immagine: come figure intirizzite che si stagliano contro il bianco uniforme del gelo, immobili e silenziosi, Eddie, Eva e Willie osservano la principale attrazione turistica di Cleveland, un lago ghiacciato che neanche vediamo. Cosa può dirsi straniero se non ciò che governa la nostra stessa esistenza?

La figurazione di inquietante estraneità sarà il sostrato della potente sperimentazione di David Lynch che in Blue Velvet (1986) a partire dal ritrovamento di un orecchio mozzato nel prato di una cittadina americana apparentemente solare dipana un incubo nel quale il protagonista, il giovane Jeffrey, sarà catapultato dall'inizio alla fine. Ma all'apertura del decennio, dopo il primo, audacissimo Eraserhead, diffuso nel circuito underground degli anni '70, nel 1980 a David Lynch viene assegnata la regia di The Elephant Man, un prodotto dell'industria cinematografica che Lynch intesse linguisticamente di stranianti scene e di una fine e un inizio onirici. Il film, ambientato nella Londra vittoriana di fine ottocento, inizia con una dissolvenza in nero che si risolve in un'ondata di vertigine e claustrofobia. Una scena allucinatoria in cui una donna gravida è calpestata da un elefante. Un chirurgo di nome Merrick scopre casualmente l'esistenza di un uomo affetto da una grave deformità al cranio e protuberanze del derma, costretto ad esibirsi in improvvisati show dal suo protettore Bytes, di cui è sostanzialmente schiavo e decide di farlo ricoverare nel suo ospedale per studiarlo. La sua deformità deriverebbe da quanto accaduto alla madre con l'elefante. Non è tuttavia curabile. L'uomo-elefante: una forma diversa che guarda il mondo dalla sua gabbia/prigione, attraverso il buco della serratura. Il suo volto non è come il nostro, è sfigurato dalle protuberanze. Una s-figurazione incarnata in un corpo che tuttavia dice altro rispetto a quel corpo. La rappresentazione della normalizzazione. Qualcosa che ad occhio nudo non è dato vedere. «Io devo affidarmi alla mia immaginazione per quello che da qui non vedo» afferma Merrick il protagonista uomo-elefante mentre è dedito al lavoro di costruzione del modellino di una cattedrale nella sua angusta e isolata stanza. Ed è in sintesi affidata al protagonista l'essenza della potenza del cinema, di far vedere ciò che non si vede, giacchè «quello che può dire un film non lo puoi esprimere a parole».

Il mostro non possiamo vederlo se non come estraneo, altro da noi. E ad un certo punto si opera un ribaltamento: lui è umano e noi siamo gli elefanti: ognuno può essere l'elefante nell'occhio di chi guarda. Nel momento in cui sarà del tutto normalizzato muore. Nella morte si ricongiunge con la madre, come a dire il ventre della società prima partorisce il mostro poi tenta in tutti i modi di ricongiungerlo a sè nella morte della normalizzazione. La configurazione del circolo tra le scene iniziali e finali – circolo che ritornerà in altri film di Lynch – suggella un ritorno in negativo come se la dimensione della macchina, che nel corso del film si presenta nell'inserto di scene di lavoratori alle macchine di una fabbrica e in un suono angoscioso fuori dalla verosimiglianza reso con un particolare montaggio, avesse il sopravvento sulla riconfigurazione della vita stessa. Non c'è «figura» della vita, ossia ri-figurazione attraverso la sua s-figurazione nel circolo in negativo del ritorno. In una ripetizione senza variazione «on n'echappe pas à la machine», per dirla con Deleuze.

Si potrebbe quasi azzardare che questo intreccio fabbricadellavita-morte-vita attraversi sottilmente molto cinema degli anni '80. In Europa, in una dimensione di autorialità cinematografica linguisticamente distante, Denise, la protagonista di Sauve qui peut (la vie) di Jean-Luc Godard rivendica un rapporto più autentico con il mondo affermando «non sono una macchina». Il film inizia con una panoramica – esterno giorno – che esplora il cielo azzurro alla ricerca di qualcosa che non è dato sapere, forse una storia, forse un oggetto, forse un suono. La cinepresa si muove verso l'alto esitando su una nuvola, quindi scende a sinistra e continua la propria traiettoria finchè con lo stacco del montaggio si passa dall’esterno all’interno, dal cielo a una stanza d’albergo dove predomina il colore giallo. Come è possibile guardare il mondo e allo stesso tempo raccontarlo? Lo sguardo non ha a che fare con un ideale che il reale infrange? Il piano sequenza è bucato dalla voce fuori campo della cantante lirica che disturba la telefonata di Paul, dal rumore del traffico e da un suono simile a uno scroscio del mare: il reale irrompe nel tessuto sonoro costituito dalla musica elettronica di Gabriel Yared. Autoritratto a tre voci – Paul Godard, Denise e Isabelle, che tuttavia non occupano uno spazio privilegiato nell'architettura narrativa, la cinepresa li scopre come dall'interno della dispersione di altre potenziali storie[3]Sauve qui peut (la vie) si compone di frammenti di storie dove per lo più accadano scontri tra corpi, i corpi si urtano per amarsi.

Godard segue la traiettoria frammentaria dei suoi personaggi in una sinfonia di rumori, note, colori quasi a spezzare quella logica del racconto costruita secondo la «legge del valore» (un movimento mostrato in quanto ha valore in relazione al precedente e al successivo). Il film viene composto attraverso la scomposizione. Persino la presenza attoriale subisce l'atto della scomposizione. Da una parte le azioni (lo sciogliersi i capelli, andare in bicicletta, chiudere la zip dei pantaloni, sorseggiare un caffè) si confondono con il quotidiano e le frasi pronunciate sono proprio come nella «vita» a cui il film allude, ossia spesso ripetitive, incomplete, inudibili. Dall'altra parte il ricorso al rallenti e al fermo-immagine, che scaturisce dall'interesse di Godard e della compagna per il video e le modalità di riproduzione televisiva dell'immagine, all'epoca in espansione, rivela come i gesti, la vita, l'amore stesso siano risucchiati nella rete di un ingranaggio reificato, analogamente allo sfruttamento capitalistico. Fedele alle potenzialità sovrumane del vertoviano cine-occhio, Godard attinge alle modalità proprie dell'analogico per sfigurare la composizione, affinchè la figura della moneta appaia. In questa scomposizione il corpo femminile si fa cassa di risonanza del mondo.

Nell'«eternità vuota del lavoro», visualizzata da due mani senza volto «disturbate» dal ralenti, che inseriscono viti in una struttura metallica, ad un certo punto appare un gesto che è nello stesso tempo un lavoro e il suo altro: mentre Denise parla, qualcosa sta nascendo sotto forma di scrittura, qualcosa come l'inizio di un romanzo, sotto la pressione di una penna su un block-notes poggiato sulle gambe. La creazione, sembra dirci Godard, è movimento in contro tempo, luogo dove il tempo si nullifica e la ripetizione si fa variazione, il lavoro così come i gesti si sottraggono all'asservimento alla catena di montaggio. Se il lavoro così come de-finito dal sistema capitalistico impone gli stessi gesti – prefabbricati, si potrebbe dire per citare l'aggettivo di un film di Bela Tarr del 1982 – all'amore, il corpo perde la sua natura di vitale rifigurazione, per assumere una dimensione fissa, statica, senza evento, non importa che si tratti di lavoro o d’amore. La riduzione all'identico appare foriera di una negazione di quella dimensione del lavoro come lavorio di riconfigurazione del corpo, variazione e non semplicemente fissazione di un ritorno. La violenza tra i corpi che Godard mostra in questo film sembra rivelatoria di ciò che sarebbe accaduto in seguito, la deriva di un assetto sociale invariato che non elabora le lotte degli anni '70, il titolo del film assume quasi la tonalità di un'esortazione.

Il cinema, seguendo l'intuizione di Godard, assume così la qualità di una pratica di azione sulle immagini, immagini che sono deleuzianamente parte del divenire del mondo, e non rappresentazioni. Essendo parte, l'occhio meccanico del cinema, macchina tra le macchine, da un lato duplica l'immaginario che di volta in volta si produce, dall'altro lo lacera consentendo di guardare là dove il soggetto non riuscirebbe a vedere. La staticità mortifera della vita ripiegata su se stessa in una ripetizione senza rifigurazione si mostra efficacemente in due film di Andrej Tarkovski, Stalker del 1979 e Nostalghia del 1983, intimamente legati. Non ci soffermeremo sulle figure dell'immobilità che contraddistinguono questi due film nei quali paradossalmente, oltre ad una tessitura simbolica di elementi arcaici ed edipici, sono i movimenti della macchina da presa a dire l'attesa paralizzante e una nostalgia che ha il sapore della rinuncia.

Se come insegna Godard «descrivere le cose secondarie – affermerà l’amico di Denise – illumina le principali», è il cinema di Krzysztof Kieslowski ad immergerci nell'esplorazione dei dettagli minimali e dei paradossi contraddittori dell'esistenza. In un orizzonte politico sociale del tutto diverso dallo scenario degli Stati Uniti, il potere cambia volto ma non sostanza.

L’entrata in vigore, nella Polonia del 1982, della legge marziale con annessa pena capitale segna l’attività registica di Kieślowski. Nella condizione di non poter fuggire il presente, Kieślowski progetta un documentario sui processi d’insubordinazione alla legge marziale, che si concludono con condanne sproporzionate rispetto all’entità dei reati commessi. Riesce ad accedere nelle aule di tribunale grazie alla collaborazione dell’avvocato Krzysztof Piesiewicz, difensore di organizzazioni sindacali e politiche clandestine. Ma il progetto fallisce. La presenza della macchina da presa condizionava l’esito delle sentenze: le Corti diminuivano le pene, evitavano di farsi riprendere nell’atto d’assegnare condanne ingiuste. La realtà sfuggiva alla macchina dell'immagine. Entrambi tuttavia non rinunciano all'idea di lavorare al paradosso insito nella legge marziale, quella dell'uccisione di un assassino e ampliano il progetto di partenza per realizzare una rilettura dei precetti morali dell'antico testamento a cui si ispira gran parte dell'ordinamento giuridico. Un’idea ispiratagli da un polittico trecentesco polacco, conservato al Museo Nazionale di Varsavia, diviso in dieci parti, ognuna illustrante, attraverso brevi scene di vita quotidiana, uno dei comandamenti. Nasce così il Decalogo.

Le parole e ciò che esse designano – la vita, il caso, la fine – hanno la forza di semplici significanti, scardinati dai significati nei quali siamo soliti inquadrarli. Se nel film Przypadek – uscito solo nel 1987 a causa della censura polacca – ritroviamo la circolarità dell'inizio e della fine dei film di David Lynch, e se anche qui la scena violenta ed enigmatica di un urlo ai poli opposti del film potremmo chiamarla scena trauma, la traccia che racchiude vita e morte insieme, laddove tutto ciò che si situa nel mezzo snoda, nell'architettura di tre possibilità di esistenza a partire da un accidente, la fuga e la protezione dalla fraganza del reale (le tre possibilità sono l'incontro con la fede politico-ideologica-istituzionale, con la fede metafisico-religiosa della resistenza, l'incontro con se stesso, un se stesso diviso che istituisce a sua volta un altro fantasma), in Senza fine (1985) e nel Decalogo (1988) – una produzione a bassissimo costo per il piccolo schermo – la macchina del linguaggio cinematografico si fa consustanziale con i paradossi del tempo e della vita in una dimensione aperta e non chiusa.

Come arbitrari, obliterati e nascosti nella neutrale enumerazione dei singoli episodi, sono i titoli dei dieci mediometraggi che compongono la serie del Decalogo, uno per uno, ambientati in un comprensorio grigio dell'architettura socialista del quartiere Stowki, alla periferia di Varsavia, così è arbitraria la forza di quei significanti che bucano la vita dei personaggi assoggettati alla parola.

L'apparizione di una macchia nera d'inchiostro che invade poco a poco il bianco della carta su cui scrive il professore del primo episodio, nel momento in cui il ghiaccio del laghetto si rompe. Una vespa arranca sulla parete interna di un bicchiere, in bilico tra la vita e la morte, nel secondo episodio. Dettagli allargati a dismisura dall'obbiettivo della camera illuminano la scissione insanabile che alberga nella singolarità delle esistenze umane. Una struttura architettonica che permea la visione e l'intimità del racconto: nel calibrato meccanismo di pareti, superfici, finestre e angoli di visione e nel gioco di specchi (il riflettersi è uno degli elementi cardine di tutto il Decalogo) si ha l’impressone che ogni esistenza sia oggetto di uno sguardo come sembra suggerire la presenza di un personaggio muto che ricorre in tutti gli episodi (ad eccezione del settimo e del decimo) che incontra i protagonisti nei momenti di massima tensione. Uno sguardo che abbraccia le pieghe inesplicabili dell'esistenza prese nella contraddizione, nella indecidibilità e nell'inversione che si consuma nel giogo ambivalente del confronto con l'Altro. Dove sarà proprio il rompersi delle convenzioni e delle convinzioni, la frattura, a ricostituire secondo un principio di variazione e molteplicità il movimento vitale di quelle singolarità. Una sismografia in atto rileva quella lotta tra le forze invisibili e il volere umano che non si riesce a perseguire[4], nella quale qualcosa di imprevedibile introduce un terzo elemento, non risolutorio, ma di apertura dell'impasse. Se l'illibertà è connaturata all'esistenza, al determinismo di forze che non governiamo, tuttavia quello che si apre è una riorganizzazione dell'esperienza, un divenire altro che l'inceppo della macchina desiderante produce. Come negli straordinari episodi quattro, due e sei.

Un'esplorazione sul potere delle immagini tra i due mondi dell'occidente. Der stang der Dinge – Lo stato delle cose – il film che Wim Wenders ambienta in due locations, Sintra in Portogallo, la punta più avanzata nell’Atlantico del continente europeo e Los Angeles. Un confronto di due visioni di cinema. Il film si apre con una lunga sequenza della traversata di alcuni sopravvissuti in un mondo contaminato da una catastrofe atomica, dove si muore per fusione. La sequenza si conclude in riva al mare e scopriamo che quanto visto finora è il set di un film di fantascienza, ambientato in un albergo solitario e diroccato, che il regista Fritz e la sua troupe sono costretti a sospendere per mancanza di soldi e di pellicola. Quando il produttore Gordon partito per Los Angeles alla ricerca di fondi sembra non fare più ritorno, il regista prende l'aereo e si mette alla sua ricerca. I due luoghi nei quali si divide il film hanno una doppia caratterizzazione: Los Angeles è il luogo del cinema come azione, movimento, che plasma il racconto come un piccolo dio alle prese col suo universo eppure il suo paesaggio è desolato; il cinema in Portogallo, esemplificato dal set fermo, è in stallo, eppure il paesaggio è fonte di visione. Sembra non esserci né la fabbrica né la vita. Il film da fare diventa il fantasma che segue il regista nel suo viaggio. Un viaggio sull'impossibilità di fare cinema: il desiderio mai raggiunto, il sogno mai realizzato, un film che non ha modo di nascere, e per conseguenza una storia che non riuscirà mai ad essere narrata. Lo stato delle cose è questo vuoto. Il colloquio nella roulotte dove si nasconde il produttore Gordon, ricercato dai gangster, è definitivo, ma la roulotte stessa diventa un set duplicato dove lo specchio della realtà è dato dal vedere attraverso la grande finestra che sta nel back.

Dopo il primo sparo che abbatte Gordon, il gesto fulmineo di Friedrich che punta la cinepresa come una magnum. Pochi secondi, l’altra pallottola è per lui. La macchina cade e continua a filmare di sbieco, una strada, una macchina che passa.

Come può essere invisibilmente capillare il potere se il mondo passa attraverso uno schermo che plasma a sua immagine. Allo stesso tempo quanto può essere eretica un'immagine della differenza nella rete degli schermi.



Note [1] In fondo il cinema come «macchina» ha con il potere un rapporto intrinseco. Da una parte quale costruzione fantasmatica mette in opera una forma ludica, da oppio dei popoli, che establishment politico non trascura (per esempio negli anni della crisi finanziaria che precedette la seconda guerra mondiale, è nota la frase di Roosevelt «quando il morale è a terra, è una cosa meravigliosa che con soli 15 centesimi un americano possa andare al cinema a vedere il viso di una bimba sorridente«), ma che si trasforma facilmente in forma di controllo delle paure (per esempio durante il boom economico con la produzione di film di fantascienza con nuovi nemici da sconfiggere dai rassicuranti happy ending). Negli anni '80 con la crisi che tocca il mondo industriale nei paesi di lingua inglese, in particolare la classe operaia a causa della delocalizzazione e riconversione dei centri economici, gli studios americani puntano sui valori tradizionali e sulla figura dello yuppie (Young Urban Professional) modello della possibilità di un facile successo. Dall'altra parte, quale processo di simbolizzazione e mediazione inconscia permette l'incontro con ciò che siamo. [2] Wim Wenders regalerà la pellicola avanzatagli per la realizzazione di Lo stato delle cose, e il film inoltre sarà girato grazie al contributo eccezionale di diversi professionisti (come il direttore della fotografia Tom Di Cilio), in cambio di un rimborso spese. [3] Una dispersione che fa pensare alla figurazione aperta delle stampe giapponesi ottocentesche, ispirazione per i pittori impressionisti, non de-finite dalla prospettiva classica centrale. La stessa qualità di non accentramento è assegnata al sonoro: non c'è alcuna gerarchia tra i suoni del reale, le voci dei personaggi sono sullo stesso piano sonoro di altre fonti, come per esempio il rumore della penna sulla carta. [4] «Colti in una lotta determinata precisamente da queste e non altre circostanze, circostanze fittizie ma che potrebbero occorrere nella vita di ognuno, realizzano all’improvviso di stare girando in tondo, di non riuscire a perseguire ciò che vogliono. Non abbiamo più tempo per i sentimenti, e penso che qui stia il vero problema. O anche tempo per la passione, che è strettamente legata ai sentimenti. Le nostre vite ci scivolano via tra le dita» Krzysztof Kieslowski.


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Ileana Zaza è regista, sceneggiatrice e studiosa indipendente. Laureata in Filosofia all'Università di Roma La Sapienza, dopo un percorso teatrale professionale segue i corsi di regia presso la NYFA di New York e la Fondazione FareCinema di Marco Bellocchio. Interessata ai punti di intersezione tra le pratiche artistiche, i saperi e la struttura socio-politica, il cinema come finestra delle visioni del mondo è la prospettiva nella quale opera.

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