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Gianfranco Miglio, dalla «politica pura» al sogno federalista



Un ritratto di Gianfranco Miglio, figura importante per capire le trasformazioni istituzionale e della politica che dagli anni Novanta arrivano ad oggi.

La candidatura del 1992 con la Lega dell’«abate Sieyès del neofederalismo» sorprese molti, perché per la prima volta un intellettuale raffinato si schierò accanto al partito di Bossi, fino a quel momento rappresentato come manifestazione di una protesta retriva, razzista, qualunquista. L’accordo tra i due non durò molto ma il suo lascito è stato notevole: le elaborazioni sulla quinta rivoluzione produttiva e sulla scomparsa dell’ «obbligazione politica» sono quanto mai attuali. Inoltre, seppur riforme concettualmente e concretamente differenti, per capire la genealogia dell’autonomia differenziata è necessario soffermarsi sul pensiero del politologo comasco e sul suo sogno federalista.

 

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All’apertura della campagna per le elezioni politiche del 5 aprile 1992, i quotidiani nazionali annunciarono che, fra i candidati nelle liste depositate dalla Lega Nord, figurava anche il nome di Gianfranco Miglio. Benché il politologo non fosse noto alla gran parte dei lettori, quella notizia era riportata con una certa enfasi perché fino a quel momento il movimento leghista era stato presentato dalla stampa e dalla televisione come la manifestazione di una protesta retriva, razzista, qualunquista, capace di aggregare un voto di protesta, ma priva di qualunque spessore intellettuale. E i telegiornali si erano d’altronde fino ad allora limitati a dare scarni resoconti delle più forti provocazioni lanciate nei comizi, senza mai concedere la ribalta ai portavoce del partito guidato da Umberto Bossi. Che Miglio risultasse nell’elenco dei candidati del Carroccio era dunque sorprendente perché, per la prima volta, un intellettuale raffinato, uno studioso dalla competenza riconosciuta nel campo della storia delle istituzioni e della «politologia concettuale», scendeva direttamente in campo a sostegno della causa leghista. Ma quella notizia era ancora più eclatante perché Miglio era stato per trent’anni preside della Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica e perché – nonostante avesse da molto tempo indirizzato severe critiche alla Democrazia Cristiana – era ritenuto vicino al mondo culturale cattolico. E la sua decisione di accettare la candidatura nel partito di Bossi poteva così essere interpretata come un segnale ulteriore del logoramento del rapporto fra la Dc e quella parte della società italiana che per circa quarant’anni aveva sostenuto – talvolta «turandosi il naso» – lo scudo cruciato.

Il responso delle urne, all’indomani del voto, confermò che quel rapporto mostrava davvero forti segnali di crisi, anche se pochi potevano prevedere quel che sarebbe accaduto nei mesi successivi. La Dc perse più del 4% dei voti, ma furono soprattutto gli eredi del Partito Comunista a sperimentare gli effetti del 1989. Il Partito Democratico della Sinistra, guidato da Achille Occhetto, ottenne un risultato intorno al 16%, mentre Rifondazione comunista si attestò attorno al 5%. Si trattava dunque di una flessione consistente, rispetto al 26% circa che il Pci aveva ottenuto nelle consultazioni del 1987. La Lega Nord, che fino a quel momento era stata rappresentata in Parlamento quasi esclusivamente dal solo Bossi, ottenne alla Camera l’8,65%, conquistando 55 deputati e 25 senatori. Questi cambiamenti – che già rappresentavano un terremoto elettorale, quantomeno per il quadro cristallizzato della «Prima Repubblica» – dovevano rivelarsi però solo l’annuncio di un cataclisma di portata ben superiore. L’inchiesta «Mani Pulite», iniziata con l’arresto di Mario Chiesa, sarebbe entrata nella fase cruciale alcuni mesi più tardi e avrebbe coinvolto i vertici di tutti i partiti dell’area di governo, portando alla luce le logiche con cui funzionava il sistema dei partiti, ma facendo anche esplodere un risentimento a lungo covato in ampi settori della società italiana.

Nei due anni successivi – gli anni della «transizione» dalla «Prima» alla «Seconda Repubblica» – Gianfranco Miglio, dopo aver trascorso una vita nelle biblioteche e nelle aule universitarie, divenne il protagonista di uno spettacolo politico completamente diverso da quello cui erano abituati gli italiani. Mentre quasi ogni giorno esponenti del ceto politico venivano interrogati dai giudici, o finivano addirittura in carcere, il «vento del Nord» si alzava, svelando una diffusa insofferenza verso i partiti, verso il sistema fiscale, verso «Roma ladrona» e verso il Mezzogiorno, accusato di vivere sulle spalle della «gallina dalle uova d’oro», come si leggeva su uno dei primi manifesti della Lega. Se Bossi esibiva un vocabolario rozzo, che rompeva le logiche del «politichese», la presenza di Miglio introduceva in quella protesta una componente intellettuale. Dopo una vita appartata, con un certo compiacimento il professore comasco, senza risparmiare il ricorso a formule brutali, si riscopriva a più di settant’anni nelle vesti di abate Sieyès del neo-federalismo, del «giacobino di destra», secondo la formula di Andrea Barbato, dell’«estremista di centro», o persino del «cattivo maestro», come lo definì Giorgio Bocca, rispolverando una vecchia etichetta. E proprio per quelle immagini – spesso provocatorie, che testimoniavano una radicale sfiducia verso la classe politica e che spesso imputavano alle regioni meridionali di beneficiare dell’assistenzialismo clientelare su cui erano cresciute le fortune dei partiti – la stampa, come Miglio stesso riconobbe, lo raffigurò come un dottor Stranamore, come un novello Nosferatu, «come un ingegno diabolico dedito ad aggredire gli avversari e distruggere le regole del vivere civile».

 Se l’approdo di Miglio nella Lega sorprese molti, in realtà le radici dell’impegno federalista erano piuttosto profonde. Nel 1943, il giovane Miglio – che era nato a Como nel 1918 – aveva iniziato a frequentare alcuni circoli clandestini della Democrazia Cristiana. In particolare, era entrato in contatto con il gruppo guidato da Tommaso Zerbi, che, dalle colonne del «Cisalpino», sosteneva la necessità per la nuova Italia democratica di una struttura federale simile a quella adottata in Svizzera. La linea ufficiale della Dc, all’indomani della fine del conflitto, si assestò invece sul progetto regionalista che confluì poi nella Costituzione del ’48. Le ipotesi di Stato federale furono del tutto accantonate, ma Miglio continuò ad avere un ruolo all’interno della Dc, ottenendo a livello locale anche incarichi di una certa rilevanza. Nel 1954, dopo la morte di De Gasperi e l’ascesa di Fanfani, il giovane accademico comasco prese però a diradare gli impegni politici, anche perché la sua carriera accademica stava iniziando a richiedergli un ruolo più attivo rispetto al passato. E nel 1959 – una volta chiamato alla guida della Facoltà di Scienze politiche della Cattolica – decise di uscire dal partito, scrivendo una lettera ad Aldo Moro, allora segretario del partito, in cui chiariva le ragioni del gesto.

Cinque anni più tardi, nel 1964, nella prolusione tenuta all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Ateneo milanese, Miglio ebbe modo di enunciare – anche piuttosto platealmente – la propria insoddisfazione nei confronti della Dc e in generale della performance dell’Italia repubblicana, tanto che prefigurò una imminente transizione verso un regime maggiormente personalizzato (in modo simile a quanto era avvenuto in Francia con la transizione alla V Repubblica). Al di là delle previsioni, era però la diagnosi a risultare un attacco alla stessa Democrazia Cristiana, perché il sistema politico italiano veniva descritto come una fitta trama di relazioni clientelari che vanificava qualsiasi aspirazione democratica. «Il voto degli elettori», aveva affermato nell’Aula Magna dell’Università Cattolica, «perde ogni valore», mentre «risolutive sono soltanto le prove di forza e le votazioni delle supreme consorterie dell’oligarchia dominante».

Nel corso di quegli anni i suoi studi si indirizzarono soprattutto alla storia dello Stato moderno e alla nascita dell’amministrazione pubblica, ma iniziò a prendere forma anche la sua «teoria pura» della politica: un progetto che mirava a unificare all’interno di un quadro sistematico le tesi dei classici del «realismo politico», da Tucidide a Machiavelli, da Bodin a Hobbes, fino ad arrivare a Max Weber e Carl Schmitt. Proprio la reintroduzione nel dibattito italiano del pensiero di Schmitt – compiuta grazie all’antologia Le categorie del ‘politico’, curata insieme all’allievo Pierangelo Schiera e pubblicata dal Mulino nel 1972 – avviò una discussione che coinvolse in modo particolarmente intenso teorici marxisti (o alla ricerca di un post-marxismo), come – fra gli altri – Mario Tronti e Massimo Cacciari. E, in modo piuttosto sorprendente, fu entrando in contatto con questi ambienti che Miglio ebbe modo di esplicitare il nucleo della sua teoria politica.

Oltre ad avviare una serie di iniziative scientifiche, Miglio anche in quegli anni coltivò l’ambizione di esercitare un’influenza, seppur indiretta, sulla politica italiana. Negli anni Sessanta e Settanta entrò in particolare in rapporto con Eugenio Cefis, allora alla guida dell’Eni e poi della Montedison. Tanto che ebbe forse anche qualche ruolo nella stesura del discorso che il dirigente tenne nel 1972 all’Accademia di Modena. Un discorso che, finito in parte sulle pagine della rivista «l’Erba voglio» di Elvio Fachinelli, impressionò Pier Paolo Pasolini, il quale vide nella previsione di Cefis – secondo cui le multinazionali avrebbero svolto una funzione politica tale da rendere obsoleto il patriottismo – i segnali dell’ideologia post-nazionalista della nuova borghesia. Ma fu soprattutto all’inizio degli anni Ottanta, con la pubblicazione del progetto delineato dal «Gruppo di Milano», che Miglio cercò di indirizzare il dibattito sulle riforme istituzionali, tentando anche (seppur senza successo) di allacciare un rapporto con Ciriaco De Mita e con Bettino Craxi. L’impronta del progetto venne definita – un po’ impropriamente – «decisionista», perché puntava a rafforzare gli esecutivi, rendendoli meno dipendenti dalle maggioranze parlamentari, ma rifletteva anche – più in generale – l’aspirazione a ridurre il peso dello Stato rispetto al mercato, a ridimensionare il ruolo dei sindacati, a limitare il diritto di sciopero, oltre che a rinforzare l’istituto del referendum e a rivedere le procedure per la revisione costituzionale.

Le proposte del Gruppo di Milano non ebbero alcuna ricaduta politica, se non quella di andare ad alimentare il fitto – ma sterile – dibattito sulla «Grande Riforma». In quel progetto, era dedicata un’attenzione solo marginale al ruolo delle Regioni e degli enti locali, mentre mancava qualsiasi riferimento a una riforma in senso federale, un tema che sarebbe invece diventato centrale per Miglio alcuni anni dopo. In una lunga intervista rilasciata nel 1990 a Marcello Staglieno, il professore comasco delineava infatti un quadro sensibilmente diverso, che non rinunciava all’impianto del precedente progetto, ma si volgeva esplicitamente verso una ridistribuzione territoriale del potere. In quelle posizioni si ritrovava senza dubbio l’eco della giovanile militanza federalista, ma si poteva riconoscere anche qualcosa di più. E cioè la convinzione che l’esperienza storica dello Stato moderno fosse giunta alla conclusione e che l’Europa dovesse ormai volgersi verso un altro modello di organizzazione politica. Come esplicitava, rispondendo a Staglieno: «Io credo che, nello scorcio del XX secolo in cui stiamo vivendo, sia arrivata a conclusione una intera fase della storia dello Stato moderno: si è esaurito il tempo (quattro secoli buoni) in cui questo organismo ha dominato tutte le forme associative minori, con la sua staticità, l’immobilità quasi sacrale della sua imponente presenza e l’unitarietà delle sue istituzioni». Al termine del XX secolo la situazione era infatti mutata: «lo Stato non è più in grado di soddisfare, rendendole prima uniformi, le sempre più diversificate esigenze dei cittadini», «ciò che sta andando in crisi è la nozione dell’unità dei grandi aggregati politici» (G. Miglio, Una Costituzione per i prossimi trent’anni. Intervista sulla Terza Repubblica, «a cura di» M. Staglieno, Laterza, Roma 1990, p. 141).

L’approdo cui perveniva Miglio non risultava affatto dissonante rispetto a molte delle letture che andavano fiorendo allora, e cui il 1989 aveva fornito ulteriore linfa vitale. La svolta del 1980 aveva d’altronde segnato l’inversione del rapporto fra Stato e mercato, o quantomeno aveva dato a molti la sensazione che lo Stato si «ritirasse», per lasciare spazio alle forze di mercato. Ma l’irrompere della globalizzazione negli anni Novanta avrebbe alimentato la convinzione che fossero finite la Storia, la politica e lo Stato-nazione. E per questo la diagnosi formulata da Miglio appariva solo come la variante di un motivo piuttosto alla moda. La convinzione del politologo nasceva però da una riflessione che aveva iniziato a svolgere negli anni precedenti, soprattutto sulle pagine del «Sole – 24 Ore», intorno alle conseguenze della rivoluzione produttiva. Quella che definiva come «quinta rivoluzione produttiva» – la rivoluzione legata all’informatica – a suo avviso avrebbe infatti comportato implicazioni opposte a quelle innescate dalla rivoluzione industriale, che aveva contrapposto capitale e lavoro: la quinta rivoluzione tendeva infatti a «liberare l’individuo dalla collaborazione personalizzata con i suoi simili», ne accresceva «la capacità di azione solitaria», stimolava i singoli «a sperimentare e innovare». La transizione pareva dunque destinata a smantellare le basi materiali su cui erano nati e cresciuti nel corso dei due secoli precedenti le dottrine egualitarie, il movimento operaio e i partiti socialisti. E annunciava che il pendolo della storia si era rimesso in moto, oscillando verso il polo delle relazioni di scambio e allontanandosi dalla logica specificamente politica. Come scrisse sul finire degli anni Ottanta: «la “quinta rivoluzione produttiva” (dei “semiconduttori”) – e cioè la straordinaria accelerazione innovazione dei processi con i quali si effettuano calcoli e si gestiscono e si trasmettono le informazioni – moltiplicando l’uso delle macchine (e degli automatismi) genera sul piano sociale almeno cinque distinti effetti: a) muta continuamente il quadro di riferimento delle conoscenze tecniche, e privilegia l’acquisto e l’innovazione delle competenze professionali, b) accresce le possibilità della intrapresa individuale, affrancandola dal peso delle collaborazioni personali (aiutanti, dipendenti), c) consente continue e relativamente rapide trasformazioni delle strutture produttive, d) aumenta la competizione fra le intraprese economiche, ma anche la possibilità di aggregazioni e alleanze di ogni tipo, sottratte agli schemi del passato e al controllo politico, e) riduce progressivamente le occasioni di lavoro dipendente». La conseguenza più rilevante era che la rivoluzione produttiva stava cambiando il «modo di produrre», rilanciando «il ruolo del “privato” (della libertà di “contratto”, dell’ “aleatorio”, e del “mercato”) contro il ruolo della “politica” (cioè del primato del “potere”, della società “amministrata”, e dei redditi garantiti)» (L’era del tecno-mercato, in «Il Sole 24 Ore», 24 gennaio 1987, ora in La lezione del realismo. Scritti brevi sull’Europa, la politica, la storia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2022).

Nella convinzione che la storia stesse procedendo verso il «ritorno al privato», Miglio negli anni seguenti collocò il progetto di un nuovo federalismo in uno scenario contrassegnato dalla tendenziale scomparsa dell’«obbligazione politica» (che, a suo avviso, rappresentava il cuore del vincolo politico). Proprio in virtù di quella previsione, Miglio riteneva innanzitutto probabile il ritorno in auge di quel diritto internazionale che il bipolarismo aveva congelato: un diritto internazionale pattizio, nel quale gli Stati sarebbero tornati ad avere una «sovranità perfetta», consentendo auto-limitazioni della loro sovranità per perseguire finalità utilitaristiche (come nel caso della stessa Cee). Ma la transizione che Miglio intravedeva – e naturalmente auspicava politicamente, come presupposto del successo neo-federalista – era soprattutto una conseguenza della crescente rilevanza degli attori economici multinazionali, destinati a indebolire strutturalmente il ruolo degli Stati. Nella lunga intervista a Staglieno, profilava così già l’idea di una progressiva conquista della primazia da parte del «contratto», legando a tale prospettiva il rilancio del progetto federalista: «In un tale contesto, la vocazione del nostro tempo per il federalismo – nella varie accezioni: “internazionale”, interna e perfino interassociativa – si rivela come tendenza verso un modello di gran lunga più generale, contraddistinto dalla relatività dei vincoli politici (e quindi delle unità amministrative) sia per la quantità delle competenze, sia per la durata del tempo. “Contratti” a termine regolano (e variano) la dimensione delle convivenze istituzionali – non solo territoriali ma anche categoriali – e il loro inserimento nelle strutture più ampie, egualmente volontarie, pattizie e temporanee: dalla micro-comunità e dal piccolo sindacato, alla multinazionale. Non sto disegnando un’utopia, o auspicando una trasformazione in meglio (chi potrebbe dimostrarlo?) dei sistemi politici ed economici del tardo secolo XX: ma cerco solo freddamente di descrivere il tipo di assetto istituzionale che si sta già faticosamente affermando» (Una Costituzione per i prossimi trent’anni, cit., p. 142).

L’interesse con cui Miglio aveva guardato all’emergere delle leghe regionaliste non era stato favorito da un sostegno a rivendicazioni di carattere etno-nazionalistico (che pure in alcuni casi avevano alimentato all’origine quei fenomeni), anche perché lo studioso comasco aveva maturato posizioni ferocemente anti-nazionaliste durante gli anni del fascismo e non abbandonò mai il sospetto verso quel genere di retorica, pur essendo persuaso del valore delle tradizioni locali (specie delle zone montane). Le sue giovanili convinzioni federaliste riemergevano infatti sotto la veste di un neo-federalismo che auspicava non semplicemente la senescenza dello Stato-nazione, bensì, in una certa misura, della stessa politica. E dunque di una progressiva scomparsa di quella che Miglio aveva definito «obbligazione politica», a tutto vantaggio del «contratto-scambio»: con la conseguenza che tutti i rapporti basati sull’esistenza di un potere «sovrano» si sarebbero dissolti, per essere sostituiti da relazioni contrattuali costantemente rinegoziabili.

Fu armato di queste convinzioni che Miglio si imbatté in Umberto Bossi, iniziando a collaborare con la Lega e accettando la candidatura al Senato, seppur come «indipendente». Proprio alla vigilia delle elezioni dell’aprile 1992, nel volume Come cambiare. Le mie riforme, illustrò le linee di un progetto di revisione della Costituzione, che, oltre a prevedere un rafforzamento del Governo rispetto al Parlamento, si indirizzava soprattutto verso un assetto federale, il cui aspetto più significativo consisteva nell’istituzione di alcune «Macro-regioni». Più ancora che lo Stato centralista, il bersaglio delle riforme proposte da Miglio erano però la classe politica e i «professionisti» del sistema dei partiti. Come scriveva: «centrale sarà la preoccupazione di combattere l’appropriazione del potere, e, in modo particolare, la sua manifestazione più clamorosa: la politica come professione. Fra i mali di cui soffre l’Italia c’è senza dubbio l’eccesso di professionisti della politica: troppa gente vuol campare con rendite e profitti che derivano dal potere» (Come cambiare. Le mie riforme, Mondadori, Milano 1992, pp. 27-28).

Iniziato informalmente nel 1990 e sigillato dalla candidatura al Senato nel 1992, il sodalizio con la Lega ebbe però una durata piuttosto breve. In occasione del Congresso tenuto ad Assago nel dicembre 1993, Miglio sintetizzò infatti le linee principali del proprio progetto, chiarendo in particolare che le Macro-regioni dovevano essere tre e che sarebbero state contrassegnate da una marcata autonomia soprattutto (ma non solo) in campo fiscale. Benché il progetto fosse stato approvato, alcuni giorni dopo Bossi lo liquidò come una provocazione. Miglio fu ricandidato alle successive elezioni del marzo 1994, ma ormai il rapporto con il leader era entrato in crisi e dopo pochi mesi il professore comasco uscì definitivamente dal partito, pubblicando peraltro un pamphlet in cui accusava Bossi di non avere mai realmente creduto nella riforma federale e di aver utilizzato la parola d’ordine del «federalismo» solo come strumento per la conquista del potere. In quelle stesse pagine, Miglio dava però anche una lettura del successo leghista e della fetta di società di cui aveva conquistato il sostegno. E sottolineava come in realtà, a dispetto di un’apparente compattezza, ci fosse una netta divaricazione fra due strati, che si erano temporaneamente trovati uniti nel gonfiare le vele della Lega. «Ci sono, in primo luogo, i piccoli operatori economici autonomi», scrisse, «i quali desiderano servizi e infrastrutture di livello europeo, e una pressione tributaria nettamente minore (anche perché parecchi di loro sono assuefatti già all’evasione fiscale). Questo ceto è abbastanza incline ad accettare e sostenere un’economia liberista e “di mercato” (anche se probabilmente ne ignora i costi)». «In secondo luogo», precisava inoltre, «ci sono i titolari di lavoro dipendente. Quelli che hanno un datore di lavoro privato possono (ma non sempre) avere prospettive economico-sociali analoghe a quelle del primo strato. Ma i dipendenti del pubblico non accetteranno facilmente una riduzione sostanziale del ruolo della mano pubblica nell’economia e nella società» (Io, Bossi e la Lega. Diario segreto dei miei quattro anni su Carroccio, Mondadori, Milano 1994, p. 63). In sostanza, se la rivolta leghista aveva puntano energicamente sulla protesta fiscale, e sebbene la Lega avesse persino promosso forme di sciopero contro le tasse, Miglio notava come una parte consistente degli elettori del partito guidato da Bossi fosse in realtà ostile a riforme volte a ridurre il peso della spesa pubblica.

La metamorfosi della Lega e soprattutto lo smarrimento della sua critica «rivoluzionaria» non indussero Miglio a rivedere le previsioni sulla tendenza verso la formazione di assetti neo-federali. La Lega di Bossi non rappresentò però più ai suoi occhi il soggetto in grado di portare avanti una battaglia credibile. Nel declino e nella «normalizzazione» della rivolta leghista, Miglio vide in fondo una conferma della lettura che nel 1989, proprio pochi mesi prima di iniziare la sua collaborazione con Bossi, aveva esposto in un saggio su Vocazione e destino dei lombardi. Per il politologo, uno dei tratti caratterizzanti dei lombardi era infatti la loro tendenza a-politica: «la tendenza di questi a lasciare ad altri l’esercizio del potere, per concentrarsi sull’attività economica e, se mai, condizionare da questa sede chi il potere detiene». Attendersi che i lombardi si sarebbero posti alla guida di un movimento riformatore sembrava dunque una vana speranza: «È un sogno affascinante. Ma, se l’esperienza storica insegna qualche cosa, credo di aver già dimostrato che i lombardi non sembrano aver mai avuto la vocazione dei creatori di aggregazioni politiche, dei fondatori di Stati. […] Penso quindi che quanti temono la crescita della “Lega Lombarda” possano dormire sonni tranquilli. Quei movimenti […] incideranno sull’elettorato, e modificheranno probabilmente il panorama dei partiti di governo oggi esistente. Ma la frazione economicamente più attiva (e quindi decisiva) dei lombardi, lungi dal mirare a conquistare la direzione dello Stato nazionale, tirerà a superarlo: coglierà le chances offerte dall’integrazione europea, spostando oltre i confini nazionali i propri interessi e le proprie energie. E, se avrà bisogno di protezioni e di alleanze politiche, le cercherà oltralpe» (Vocazione e destino dei lombardi, in Id., Io, Bossi e la Lega, cit., pp. 93-94). 

Dopo la fuoriuscita dalla Lega, Miglio proseguì fino al momento della scomparsa – avvenuta nell’agosto 2001 – la sua attività all’interno delle istituzioni, seppur con un profilo molto più defilato e con un’azione prevalentemente culturale di promozione delle istanze federaliste, che riteneva fossero state del tutto abbandonate dal partito di Bossi. Sull’onda del «vento del Nord», il federalismo era entrato nel dibattito politico, e per alcuni anni tutte le forze politiche sembrarono convenire sull’idea che da una riforma in senso federale passassero tanto il rilancio economico italiano quanto la ricucitura del rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni. L’unico frutto di quella discussione rimase la modifica del Titolo V della Costituzione, promossa e sostenuta dalla maggioranza di centro-sinistra nel 2001 e poi confermata dal referendum popolare. Un simile risultato non poteva che rimanere molto lontano dagli auspici di Miglio, il quale però, sebbene avesse col tempo abbandonato le speranze di giungere a un’unione federale, non rivide mai l’ipotesi che aveva formulato sul finire degli anni Ottanta, quando aveva intravisto nella «quinta rivoluzione produttiva» il punto di avvio di un’epocale riduzione dello spazio della politica. E non tornò mai, dunque, su un’ipotesi che appariva per alcuni aspetti non secondari in contraddizione con quanto aveva sostenuto per molto tempo. Un po’ paradossalmente, per un cultore dei grandi maestri del realismo politico – oltre che per uno studioso che per mezzo secolo aveva invitato a riconoscere il carattere originario della politica nella dimensione conflittuale, nell’aspirazione al potere e nella polarizzazione fra gruppi – Miglio era infatti giunto a ipotizzare che proprio la politica potesse scomparire, surclassata da relazioni contrattuali «non politiche», ma orientate da una logica puramente utilitaristica.

Nella sua lunga carriera di studioso, Miglio aveva invitato a considerare proprio gli aspetti più crudi della politica, ricordando che dai tempi di Tucidide è «sempre toccato a coloro che scrutano per mestiere la natura della politica […] il duro privilegio di chiamare le cose con il loro nome e di aiutare gli uomini a non confondere la realtà effettuale con i proprî sogni». Nel clima di euforia degli anni Novanta, dinanzi al repentino mutamento degli scenari internazionali e degli equilibri interni, aveva però in gran parte messo tra parentesi proprio quegli aspetti. E forse confondendo la realtà effettuale con i suoi sogni federalisti, aveva finito per delineare una visione del futuro in scompariva proprio la politica. Ma, benché la globalizzazione non fosse destinata ad arrestarsi, il XXI secolo – a partire dall’11 settembre – avrebbe riportato sempre più al centro della scena la guerra e i conflitti, e cioè proprio quegli aspetti di quella «verità effettuale» che per mezzo secolo Miglio aveva fatto oggetto dei suoi studi.

 

 

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Damiano Palano insegna Teoria politica dell’età globale e Scienza politica presso l’Università Cattolica (Milano). Tra i suoi lavori: La democrazia senza qualità. Le «promesse non mantenute» della teoria democratica (Mimesis, 2015); Populismo (Editrice Bibliografica, 2017); Bubble Democracy. La fine del pubblico e la nuova polarizzazione (Scholé, 2020); Animale politico. Introduzione allo studio dei fenomeni politici (Scholé, Brescia, 2023), Politica. Un’introduzione Scholé, Brescia, 2024). Ha curato i volumi di Gianfranco Miglio, La legge del più forte. Scritti brevi sulla politica internazionale, l’Europa, la storia (Rubbettino, Soveria Mannelli 2022) e di Mario Tronti, Hobbes e Cromwell (Mimesis, Milano 2023).

 

 

 

 

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