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Gabrio: centro sociale e centrosocialismo (II)

Un dibattito tra generazioni di militanti.


Centro sociale Gabrio
Immagine: Immagine: Particolare murales Aladin - sala concerti Gabrio

Il centro sociale Gabrio a Torino è occupato nella notte tra il 17 e il 18 settembre 1994. In via Revello 2 c’era la ex-scuola elementare Gabrio Casati, nel quartiere popolare di Cenisia-San Paolo, storico insediamento di barriera e con una grande tradizione comunista. È qui che nell’agosto del 1917 si combattono alcune delle pagine più cruente delle giornate della rivolta contro la guerra, come l’incendio della chiesa di San Bernardino; è qui che si trova la casa di Dante di Nanni, che si difese fino alla morte dai fascisti nel 1944.

Il Centro di via Revello è occupato da un gruppo di giovani militanti che avevano precedentemente occupato, nel 1993, l’ex Asilo infantile Principessa Isabella in via Verolengo, nel quartiere Lucento, dando vita all’esperienza del Centro Sociale Isabella. L’utilizzo dello stabile, dopo circa un anno di occupazione, è concesso a titolo di comodato gratuito dal Comune di Torino a un’Associazione universitaria, in accordo con l’assemblea degli occupanti. La sede di via Revello però ha il problema dell’amianto, il centro è minacciato di sgombero. Nel giugno 2013 il Gabrio decide di occupare i locali della scuola Pezzani di via Millio, da quel momento sede del Centro.

Dopo la pubblicazione su «Machina» del testo di Gigi Roggero Tra realtà dei centri sociali e centrosocialismo reale: il ciclo degli anni Novanta, si decide di provare a sviluppare una discussione collettiva, tra compagni di diverse generazioni del Gabrio. Si svolgono così due incontri i cui contenuti sono stati qui trascritti. Il limite principale degli incontri è la partecipazione esclusivamente di compagni alla discussione, scelta non voluta, ma che ovviamente restituisce una visione parziale della materia.


* * *

 

 Secondo incontro, Gabrio 7 maggio 2024

 

Presenti: Marco, Salvatore, Stefanone, Guazzo, Alex della prima generazione Gabrio

Sollazzo della seconda generazione

Claudio e Marco M. della terza generazione

 

Salvatore: Ogni generazione ha la sua traiettoria e (purtroppo) quasi sempre anche una sua parabola. Gigi Roggero, nel suo documento (che avevo avuto modo di discutere con lui prima che uscisse), è abituato a ragionare per cicli: cicli della soggettività, della rappresentazione e della militanza politica. Se assumiamo questo metodo, a mio avviso la periodizzazione proposta da Gigi non fa una piega. Anche per me il 10 settembre del 1994 a Milano rappresenta («simbolicamente», è ovvio) il punto alto della parabola. Si può dire anche in modo diverso: termina la fase di «stato nascente», per usare il lessico dei sociologi, del movimento dei centri sociali. Di creazione linguistica e di trasformazione soggettiva, quella per cui nasce qualcosa di nuovo e differente, che prima non c’era o era caratterizzato in modo molto diverso (es. i circoli del proletariato giovanile negli anni Settanta).

Per fase ascendente della parabola penso si debba intendere la transizione dalle forme della politica degli anni Ottanta, come residuo (non necessariamente conservativo o «residuale», beninteso) del ciclo di lotte precedenti, che nel mio caso era il collettivo S-contro... ma con il passaggio fondamentale del movimento universitario della Pantera del ’90, perché senza la Pantera non si arriva ai Centri Sociali (qui parlo però un poco di me stesso, oltre che di molte altre realtà in Italia con cui ho avuto modo di discutere, ma forse questo assunto vale assai meno a Torino). E del resto anche il gruppo di «panterozzi» che poi arriva a occupare il Gabrio è molto ridotto.

Il gruppo che occupa il Gabrio è quello che l’anno prima occupa l’Isabella[13], e nasce dall’incontro di due percorsi, forse più biografico-generazionali che politici in senso stretto: i giovani, che erano molto giovani, tra cui c’era anche Andrea Guazzo, che gravitavano, chi più chi meno, intorno ai Giovani di Rifondazione comunista; il secondo, di cui facevo parte, di quelli che dopo la Pantera cercarono di fare un Collettivo, Ombre rosse, una rivista universitaria, «Riff Raff»[14], e una serie di cose, con poca capacità di impattare. L’esperienza di Ombre rosse dopo un anno dalla nascita (1991) era virtualmente finita. Ci trovavamo in un contesto in cui in tutta Italia c’era ormai un proliferare di occupazioni di ogni tipo. Probabilmente solo a Torino ci fu una rilevanza così alta dell’area squatter, che del resto era a sua volta articolata tra «spessi» e «lessi» (per velocità, tra area più «militante»” e area più «esperienziale», ma sono termini inadeguati), una divisione che però attraversava anche noi e spesso scindeva schizofrenicamente gli stessi individui. Era chiaro comunque che dopo la Pantera non volevamo tornare al vecchio collettivo, non volevamo andare in Rifondazione comunista. Io e qualcun altro andammo anche a vedere, ne uscimmo quasi subito. Non volevamo fare quello. Nascono occupazioni in tutta Italia, a Torino c’era Radio Black out[15], noi costruiamo un’esperienza generazionale, che ebbe un molto limitato impatto politico, che era Ombre rosse, e con la rivista, in radio, entriamo insomma dentro un dibattito. Parlo dei miei coetanei, che è quella parte che confluisce nell’occupazione dell’Isabella e poi nel Gabrio. Quello è il percorso attraverso il quale arriviamo all’occupazione. All’epoca, aggiungo, a me il 10 settembre del 1994 sembrò l’inizio, mentre un anno dopo era chiaro che eravamo entrati in una fase differente dell’esperienza dei Centri Sociali!

Sono incuriosito però dal fatto che un altro gruppo è attualmente impegnato, in questo periodo, nella ricostruzione (anche con documentazione iconica, audio e video) degli anni Novanta a Torino, con uno sguardo concentrato sui centri sociali o sull’area antagonista: hanno organizzato non molto tempo fa un momento di confronto al Prinz Eugen[16], in cui hanno proposto una periodizzazione degli anni Novanta diversa da quella di Gigi, in cui il punto più alto è spostato più avanti, verso il 1998 (all’epoca delle manifestazioni seguite ai suicidi di Sole e Baleno e la montatura giudiziaria da cui originarono)... ciascuno chiaramente ricostruisce i passaggi secondo la propria prospettiva e biografia politica. Vale per le grandi periodizzazioni della storia, figuriamoci se non vale per i centri sociali.

Devo dire che l’esperienza dei Centri sociali in cui volemmo entrare, ci serviva per non chiuderci di fronte all’emergere di una soggettività nuova, che non era già più quella della Pantera. Nel 1992-93-94, intorno a Radio Black out… ma in realtà più in generale in uno spazio ibrido tra politica, controcultura, consumo urbano... ai Murazzi c’era Giancarlo, ma c’erano anche i concerti organizzati alla Lega dei furiosi[17], c’era il fenomeno delle Posse, erano arrivati i primi rave, erano cose molto importanti che facevano incontrare e avvicinare le persone, nel creare delle reti, quasi delle forme comunitarie; però non erano gli stessi della Pantera, che semmai era l’ultimo residuo degli anni ’80 (i residui pacifisti, ecc…). Si era affacciata una generazione diversa e divenne per noi quasi spontaneo dirci che se stavamo ancora a tenere il nostro collettivo con la nostra rivista, saremmo stati fuori da qualsiasi dimensione pubblica. Poi c’erano tutte le altre suggestioni (a cui sono tuttora particolarmente legato), erano nate una serie di riviste dell’area operaista, io non venivo dall’operaismo dal punto di vista politico-organizzativo, ma frequentavo i seminari di Romano Alquati, leggevamo le ricerche sul bacino del lavoro immateriale  a Parigi dove c’era la diaspora operaista, le ricerche di Lazzarato, queste cose qui. La nostra rivista di questo si occupava. Per noi diviene quasi spontaneo sciogliere la nostra micro esperienza organizzata dentro questa dimensione, almeno per me di questo si trattava (all’epoca dei fatti): sciogliere le forme della militanza che avevamo creato in quel periodo nel movimento dei Centri sociali, che a Torino voleva dire radio Black out, i riferimenti culturali e intellettuali del tipo richiamato.

Torniamo alla questione… Io condivido che nel 1994-95 (la scelta della data precisa del 10 settembre 1994 è simbolica) è il punto più alto di scontro dei leoncavallini, ma non è solo quella data lì, è tutto un quadro politico che cambia. Si entra nella Seconda Repubblica! Però è chiaro che quella soggettività (quella dello «“stato nascente”) ») rincula, arretra! Dopo tre anni o giù di lì personalmente esco dal Gabrio, perché quella ricerca, quella tensione tra spazio politico e spazio di socialità, tra militanza e controcultura si esaurisce, si impoverisce. Almeno per come l’avevo vissuta personalmente, non dico che fosse la realtà, si ricadeva in una dimensione identitaria, comunitaria e anche un po’ marginale. Ero convinto allora, anche più di oggi, che nella marginalità non ci potessero essere spazi proattivi di crescita politica, ma unicamente la dialettica sgombero-repressione-rilancio. È viceversa chiaro che a ridosso del 2001 inizia (anche per i centri sociali) un’altra storia; io non sono più al Gabrio, mentre ad esempio Marco e Paolo (per limitarsi ai presenti, ovviamente) hanno un ruolo forte proprio in quegli anni.


Sollazzo: Quel periodo vede, per tutta una serie di motivi, che sembrano indipendenti l’uno dall’altro, la nascita di piccole realtà legate a riviste. Io in quel periodo sono in scazzo con l’area dell’autonomia e, per una fase, fondo il «Laboratorio politico», un’esperienza interessante. Ci sono state una serie di piccole aggregazioni che hanno prodotto cose interessanti. Ricordo un numero di «Laboratorio politico» che aveva affrontato, con tutti i limiti di allora, la questione ambientale, avevamo analizzato gli scritti di O’Connor e il suo Ecomarxismo. Poi queste realtà ovviamente si esauriscono, ma sono state un corollario attorno a quello che succedeva. C’era un bisogno di ridefinizione di idee, di categorie, di comprendere come stava cambiando la società.


Luca: Noi del collettivo Falsospettacolo prima e Punto.zip poi, ad esempio, decidiamo di non occupare un posto, ma di cercare di immettere i nostri contenuti, quelli che cercavamo dai situazionisti ai seminari di Parigi, tra gli universitari o tra le persone che frequentavano i posti occupati o che andavano alle manifestazioni, distribuendo spesso gratuitamente i nostri grandi e splendidi poster-riviste, nella speranza che le persone se li appiccicassero in camera...


Salvatore: C’è stato un momento, fino alla fine della prima radio Black out, nel 1995, che secondo me è il periodo di massima mobilitazione. Tenere insieme la dimensione della militanza politica con la dimensione controculturale e della socialità, voleva dire ricercare un tessuto di cooperazione, di pratiche che non era più basato sulle categorie con le quali ero cresciuto. Però poi, dieci anni dopo, cambiai un po’ idea. Quello era quello che pensavo allora. Non potevo dirlo neanche troppo esplicitamente, perché sapevo che la maggioranza dell’assemblea del Gabrio era contraria, soprattutto dopo la fuoriuscita di tutti quelli con cui avevo fatto politica per dieci anni (che in parte fuoriescono dopo un anno di occupazione, mentre al centro si erano uniti, come sempre accade, altri soggetti, oltre alla componente molto importante - del quartiere)...  io allora ero convinto che la prospettiva in seguito tracciata dalla Carta di Milano[18], andasse in qualche modo agita... solo che a Torino era molto impopolare. Per me i centri sociali dovevano andare in una direzione che applicarono soprattutto i Veneti. Ero vicino a Punto.zip su questo aspetto. Ma sapevo che nel Gabrio ero in minoranza assoluta, infatti non la ponevo neppure.


Luca: Una precisazione ancora sul 10 settembre 1994. Riguardando le riviste e i giornali dell’epoca, sono rimasto colpito che in quel periodo parlavamo di tantissime cose, la vicenda del Leoncavallo è strettamente legata al cambio tra Prima e Seconda Repubblica, la Lega ha conquistato Milano, c’è Formentini sindaco e Maroni ministro dell’Interno. Berlusconi è la nuova concretizzazione del politico al tempo della tv generalista. Una nuova composizione sociale, una nuova dimensione della cultura. Noi discutevamo tantissimo di post fordismo, di un milione di cose e i centri sociali non erano al primo posto di questa discussione. Erano un dato materiale importante, ci permetteva di avere tante persone attorno, ma poi la discussione non verteva su questo, tranne in alcuni momenti, come in occasione del mancato convegno di Arezzo. Il dibattito sui centri sociali a me oggi appare piuttosto rozzo, semplicistico: c’è chi occupa e chi è solo autogestito, c’è l’autoproduzione, la lotta alla repressione, l’antifascismo, l’opposizione alla Lega. Il 10 settembre 1994 è stato il punto più alto di un immaginario che avevamo allora come militanti, che peraltro ricordava molto il ’77. Era stato quello che noi ci immaginavamo dovessero essere la forza dei centri sociali: riuscire a sconvolgere Milano, la punta avanzata del capitale. Sfasciare le vetrine luccicanti e dimostrare che sapevamo essere un’opposizione politico-sociale alla Lega e alla destra, mentre la sinistra ex-Pci era ancora frastornata dalla caduta del Muro. Ma nella nostra testa, quella giornata doveva essere replicabile, se possibile in forme più potenti. In ogni città. Il fatto che quello non sia successo, dimostra i limiti di quell’immaginario che ci eravamo costruiti. Noi in quell’epoca, ragionavamo molto di creare un immaginario collettivo, qualunque cosa volesse dire per ciascuno di noi. Peraltro trovo oggi emblematico che quel conflitto, agito secondo la classica dinamica sgombero-conflitto-repressione-conflitto, viene risolto pochi giorni dopo non da Maroni né da noi, ma da Cabassi, cioè dalla borghesia cattolica-sociale meneghina (ovviamente sospinta a forza dall’orda del Leoncavallo)! A Torino ricordo una scritta davanti alla Biblioteca civica, il «10 settembre può succedere sempre», era quella l’idea che avevamo. Ma non si è data. Invece, secondo me, nel 2001, dopo anni di una storia lunga, «a fisarmonica» come diceva Sollazzo, lì si raggiunge il punto massimo. Una grande alleanza tra Veneti e Rete del sud ribelle, con mille altri gruppi aggregati in quella rete e in quella simbologia delle tute bianche. Perché entriamo nel mondo globale e dei movimenti globali, siamo sull’onda di Seattle, lì l’area dei centri sociali riesce a fare una cosa incredibile, un tentativo di grande alleanza. Lì non si è più una componente «sopportata» dagli altri, ma si rappresenta davvero un mondo. E per arrivare lì si era fatta tanta strada e quel tentativo regge fino alla guerra del 2003 e al movimento pacifista del 2003 contro la guerra in Iraq.


Salvatore: Ogni generazione ha la sua biografia, ed è giusto così, però dopo il ’95 il movimento si restringe. Fino al ’95 i centri sociali sono un soggetto (non nel senso dell’unità politica, sia chiaro). In seguito, i centri sociali sono solo una parte (anche se importante) delle Tute Bianche, dell’area che si riunisce allo stadio Carlini a Genova.


Luca: Però rappresentavano ancora la parte fondamentale delle tute bianche.


Salvatore: Dal punto di vista organizzativo e della logistica delle mobilitazioni, non c’è dubbio. Probabilmente sbaglio, ma non vedo tuttavia il centro sociale come l’elemento trainante di quella fase.


Claudio: Se devo datare il mio arrivo nel mondo dei Centri sociali è in coincidenza con Genova 2001, io ero ventenne, ed ero dentro una organizzazione di partito, i Giovani comunisti, entriamo in quel movimento lì. Quel Movimento dà il colpo che deve dare. In quel Movimento, nei Social forum, in una dimensione eterogenea, al cui interno c’erano anche i centri sociali. Dà quel colpo, e dopo Genova 2001 i Centri sociali sono l’unico soggetto tra tutte le forze che animano i Social forum, ad offrire a tanti giovani, una possibilità di continuare quel percorso lì e la offrono anche a me, che ero un ligio militante di una organizzazione di partito. La funzione dei centri sociali in quella fase è proprio quello di poter proseguire la lotta, uno sbocco di continuazione di militanza. Il caso Genova ha quel significato, in tutta la sua complessità, dalla piazza all’articolazione della discussione politica all’interno dei social forum. Quando andavo ai Social forum, per quanto avessi una linea di partito di un certo tipo, però mi trovavo molto più vicino all’intervento delle compagne e dei compagni dei centri sociali, non solo il Gabrio.


Salvatore: : A Torino era così.


Claudio: Credo che Torino abbia delle specificità su cui valga la pena ragionare. I centri sociali hanno avuto quella grande forza lì, dal punto di vista politica e della piazza. Rifondazione nel 2002 ha poi la triste idea di fare una Conferenza nazionale sulla non-violenza, per me è stato quello il momento di rottura, non la dimensione istituzionale! In una fase già di scazzo, dicevo: «Ma come, un anno fa ci hanno massacrati e noi discutiamo di non-violenza… Ma di che cosa stiamo parlando?». Ciao Rifondazione e meno male che ci sono i centri sociali, altrimenti la dimensione della mia militanza e di tanti altri nati attorno all’anno ’80, come sarebbe finita? Ripiegavano. Anche di fronte alla perdita dopo poco della spinta iniziale di quel movimento, comunque quel movimento era stato in grado di dare una zampata rispetto a qualcosa di grosso che era stato il movimento internazionale no-global e di dire: «Ci siamo anche noi! Diciamo queste cose e pratichiamo l’autogestione e rispetto alla politica istituzionale abbiamo queste cose da dire». Tra il 2001 e il 2003, io ero nel coordinamento nazionale della giovanile di Rifondazione, tantissimi come me siamo usciti da Rifondazione e siamo finiti dentro il mondo dei Centri sociali, dentro l’area della Disobbedienza, che ebbe l’intelligenza di collocarsi in un certo modo e di raccogliere. Se nella prima occupazione del Gabrio del 1994 c’è un pezzo di fuoriusciti da Rifondazione, con Genova al Gabrio arriva un altri gruppetto di giovani che giunge da quella esperienza in rottura con il Partito ma con quella testa lì. Incontriamo dei “«vecchi” » con i quali ci scontriamo anche sul modo di intendere la politica, la militanza, un periodo dal 2001 al 2004 che è stato anche di frizioni. Però a un certo punto, racconto un aneddoto, avevamo appena occupato un altro luogo per provare a fare un altro spazio sociale a pochi isolati dal Gabrio, perché questi giovani facevano un po’ di fatica a trovarsi su tutto con quello che era il vecchio Gabrio, mi trovo a fare una lunga discussione con Paolo sull’esperienza degli zapatisti, con Paolo che mi diceva che la prospettiva dei centri sociali era di fare un ragionamento militante sul territorio, sul quartiere e di costruire una cosa tipo la Selva Lacandona nel quartiere. Se devo pensare a quello che, con la mia generazione di compagne e compagni, ho fatto dentro il Gabrio, è stata quella roba lì, è stato provare a mettere in pratica a realizzare quella cosa lì, che poi abbiamo rilanciato con i curdi, ragionando su quella esperienza. Siamo partiti da una struttura che c’era, da cosa c’era di attivo in quella struttura, per rilanciare. Questo ha dato un’altra boccata di ossigeno al centro.


Salvatore: C’è stato il ricambio generazionale di una leadership! Il Gabrio era finito, voi lo avete rilanciato.


Claudio: In quegli anni, usciti da Rifondazione, dove potevamo andare? Non c’era solo il Gabrio, c’era anche l’Askatasuna. Abbiamo sentito che lo spazio dei centri sociali ci offriva una serie di possibilità che ci davano modo di continuare la nostra dimensione di militanza, in una dimensione di radicalità, in accordo con la nostra idea di comunismo nel 2001. Alla fine facevamo il Laboratorio delle disobbedienze con il Gabrio, non con l’Aska.


Salvatore: Beh... L’Aska era ostile all’area della disobbedienza!


Stefanone: Il Gabrio aveva mantenuto sempre una grande apertura rispetto alle sue interlocuzioni, fin dall’Isabella, dalla parte antecedente. Non ti si chiedeva prima di appiattirti sulle sue posizioni. Fin dal 1994 se guardi le iniziative e le interlocuzioni, sono significative. Nel 1996 si fa una grande iniziativa per ricordare i sessant’anni della Guerra civile spagnola con la Federazione anarchica. Questa modalità di apertura era un mezzo di attrazione, proprio perché si parlava di costruire possibili percorsi di militanza, non già determinati.


Salvatore: Voglio ricordare però a Claudio che voi non entraste subito al Gabrio, c’ero anch’io all’Assemblea delle disobbedienze che si ritrovava in corso Brescia. Prima occupate via Elba, via Gioberti, Cit Turin, si fanno delle occupazioni per creare lo spazio della Disobbedienza. Solo in seguito entrate al Gabrio e lo rivitalizzate, senza togliere nulla ovviamente a chi c’era già. Però due anni dopo, non nel 2001.


Claudio: Però c’era il Laboratorio delle disobbedienze in quel periodo ed è vero che provavamo a fare delle occupazioni, per fare gli «sportelli», che era quello che i centri sociali decisero di sperimentare, per provare a rideclinare in un modo nuovo l’intervento sociale e politico nei territori dopo Genova, su alcune questioni come la casa, il lavoro, la questione migrante, ecc… Fallito il tentativo di affiancare al Gabrio un nuovo spazio, alla fine decidiamo di entrare nel Gabrio.


Alex: A Torino c’erano i modelli degli squatter, quello dell’autonomia dell’Aska e poi fra questi poteva nascere un altro modello per quelli che non si sentivano rappresentati da quelle due modalità. E questa realtà è abbastanza per fare non un centro sociale, ma due, perché a Torino il Manituana ci assomiglia. A Roma è la storia del Forte, che ha una storia particolare, che ha vissuto le tute bianche in maniera tangenziale… Rappresentano delle frazioni di umanità.


Sollazzo: Non a caso il Gabrio era definito un «centro sociale cerniera»… Stiamo girando intorno ad alcuni elementi, uno di questo è quello delle dinamiche generazionali. Comincio a rileggere anche in una dimensione di dinamica generazionale quello che ho vissuto. Sono le classiche dinamiche per cui nel mondo succedono delle cose nuove, ci sono dei giovani che hanno dei punti di riferimento diversi e non sono più i tuoi e che sono quelli che li innescano alla politica, e poi diventano loro i vecchi e arrivano altri giovani a scalzarli. Va sempre avanti così. Una seconda dinamica è questa: quando si parlava della possibilità o meno della riproducibilità di questi grandi momenti di scontro e rivolta, come il 10 settembre 1994, è una cosa che andrebbe analizzata bene: prima del 10 settembre c’è stato lo sgombero del Leoncavallo del 1989. Subito dopo lo sgombero del Leoncavallo c’è quello di Conchetta non si replica quella modalità di scontro, ma quelli del Conchetta vanno sul tetto e iniziano a tagliarsi i corpi. Il 16 agosto 1989 non si è riprodotto, come non si è riprodotto il 10 settembre 1994, come non si era riprodotto corso Traiano nel 1969. Quella riproducibilità non si dà. Questi eventi attirano molto l’attenzione, con gente, militanti, che credono che da lì in avanti sia tutto in più, secondo questa logica della riproducibilità, e non è mai così. C’è sempre qualcosa di diverso che interviene.


Stefanone: La giornata non è riproducibile e normalmente diventa un mito. Il mito non si riproduce per sua stessa natura. Ma quel mito agisce sulle soggettività che si avvicinano. Funziona come un punto di riferimento, cioè «facciamo come il 10 settembre»…


Paolo: Però erano le parole d’ordine che usavamo, quello che avevamo in testa davvero di rifarlo.


Stefano: Ma la realtà è che non lo riproduci, ma resta come mito per chi non lo ha praticato, per la generazione successiva.


Luca: Ripensandoci, una cosa che mi aveva colpito e per anni avevo un po’ rimosso, è questo: ricordo un corteo che gira attorno al carcere di San Vittore a Milano, pochi mesi dopo il 10 settembre 1994 nella mia memoria, e ho l’immagine di Primo Moroni che parla con Manconi credo e Daniele Farina forse, e che tra loro si dicono: «Facciamoli velocemente andare via, altrimenti succede di nuovo come il 10 settembre». Può essere un falso ricordo o comunque molto deformato, ma so che io avevo pensato: «Ma come, il nostro obiettivo è proprio quello! Oppure no?». Sul libro sulla storia del Leoncavallo[19], uscito nel quarantennale del centro, al 10 settembre sono dedicate due paginette striminzite, che chiaramente ridimensionano quell’avvenimento. Credo, oggi, che quell’avvenimento da gestire fu davvero complesso. Ma per noi era fondativo, affascinante, il nostro obiettivo. C’è da pensarci… Penso al libretto 10 settembre 1.9.9.4. Per l’antagonismo dei centri sociali[20] pubblicato da Velleità alternative dai Murazzi, ad esempio, che identificava proprio nel 10 settembre il punto più alto di scontro da riprodurre: quella è la forma della radicalità di quella realtà.

Dopo i collettivi degli anni Ottanta, i centri sociali, che hanno una loro tradizione, sembrano la nuova forma della politica tanto ricercata, che aveva uno stretto collegamento alla dimensione culturale e sociale. Allora lo vivemmo come la scoperta di una forma dell’agire politico, una grande novità. In alcuni casi era appena un puro mascheramento dell’attività politica dei collettivi precedenti: sono un piccolo gruppo, occupo uno spazio e cerco di trasformarmi in qualcosa di diverso, più grande. In altri casi, come avete raccontato, è l’esito di un travaglio profondo e di grandi mutamenti teorici e di pratica politica. In quegli anni si sviluppano anche i sindacati di base, ci sono altre novità, le radio, Ecn. Ma quella sembra configurare una nuova forma della politica. A distanza di trent’anni direi che è stato un generoso tentativo che ha coinvolto migliaia di compagne e compagni, ma che di fatto ha dato tutto quello che poteva dare e non è stato in grado di rispondere a quel bisogno di trovare un nuovo strumento dell’organizzazione politica, dopo il tramonto della forma partito, e non ha retto ai cambiamenti.


Stefano: Per un periodo i centri sociali sono stati una forma possibile della politica, in forma non compiuta. In un momento di trasformazioni profonde, i cui risultati solo oggi iniziano a vedersi meglio. Hanno accompagnato con quella forma lì la possibilità di reinventarsi un’altra volta ancora. I collettivi degli anni Ottanta non potevano reggere i trent’anni che ci separano dal 1989. La forma centro sociale è riuscita a attraversare questi trent’anni e ha comunque ancora qualcosa da dire. Ogni forma è transitoria e quella rispondeva a quei bisogni, sia della piccola comunità militante sia di una parte di giovani in cerca di forme di aggregazione, socialità, visibilità, di autogestione, in forme differenti da quelle presenti.


Salvatore: Non riesco a ragionare in quei termini. All’epoca ero convinto che quelli fossero dei passaggi fondamentali perché il collettivo non bastava più, ma non so quanto ciò corrispondesse a una visione razionale, analitica, quanto piuttosto ad un sentire, ad una percezione … Noi a un certo punto rinunciammo anche all’idea che dovessimo rappresentare chissà chi… Quando facciamo quelle riviste, ci ponevamo davvero il problema di quale potessero essere gli equivalenti negli anni Novanta dello sciopero a gatto selvaggio o del sabotaggio degli anni Sessanta, ce lo ponevamo come problema. Io non ho mai visto però il centro sociale come la forma privilegiata della militanza … Forse è questa la differenza. L’ho vista in quel periodo. Dopo, penso che siano stati l’armatura, l’infrastruttura che ha consentito di fare molte cose, anche più avanzate. E’ stata abitata da generazioni nuove, che giustamente hanno la loro visione. All’epoca avevo la percezione, e non era solo mia, che in qualche modo dentro una società che stava cambiando il livello di istruzione, la sfera dei consumi nel mediare la socialità, l’arbitraggio dei consumi capitalistici nel formare le soggettività e le identità, che tu dovessi agire – anche ambiguamente - su quel piano lì. È chiaro che insieme soddisfacevi anche un bisogno tuo: noi abbiamo l’abitudine di porci sempre come soggetti esterni, come se fossimo una soggettività astorica che attraversa i secoli, come leninisti, anarchici, libertari, immutabile di fronte a una società che cambia. Ma noi stessi siamo sempre un prodotto. Quando ho visto che i centri sociali ne riproducevano un’altra, che non era neanche più una militanza, in una fase di chiusura della fisarmonica delle lotte, era chiaro che si stava chiudendo una stagione… Anche dopo il 2003-2004 avviene qualcosa di simile, quell’esperienza rincula, la disobbedienza finisce; dal 2008 cambia nuovamente tutto, la crisi, l’Onda e poi il Movimento 5stelle cambiano la scena. Per me (torno agli anni Novanta) era la percezione che noi stessi dovessimo cambiare, come individualità, soggettività. Ebbi in quel periodo discussioni accese con chi riproponeva una antropologia militante astratta che non apparteneva a quelli con cui volevo dialogare, prima nella Pantera, poi nei quartieri, ma non apparteneva neanche a me.[…] E poi è chiaro che cambia. Però è storia più recente: tutto ciò che dà vita alle disobbedienze, l’idea che fosse possibile piegare da un punto di vista antagonista l’innovazione capitalistica postfordista (perché questa era l’operazione che poi iniziò a definirsi post-operaismo), allora era lecito sperimentare questi percorsi, anche se poi hanno prodotto delle forme assolutamente insoddisfacenti. Io credo che il movimento da Seattle a Genova non sia rinchiudibile nello spazio dei centri sociali.


Luca: Ma il ragionamento è diverso: i centri sociali, almeno una loro parte importante e significativa, riesce a stare lì dentro da protagonista, con degli alleati sociali che ne riconoscono la legittimità. Mentre a Milano erano praticamente da soli. Ci ricordiamo «il manifesto» che l’11 settembre esce con il titolo «Brutta Milano», che segnalava un certo isolamento…


Salvatore: Ma non c’era niente nel 1994! Nel 2001 era un’altra cosa, avevi avuto Seattle, è stato l’ultimo movimento planetario di soggettivazione…


Luca: I ragazzi di FFF a loro modo lo sono stati.


Alex: Occupy Wall Street anche.


Marco: Ricordare cosa si pensava davvero venti-trent’anni fa è davvero difficile. A vedere le cose oggi, eravamo un gruppo di inconsapevoli. Anche ingenui, perché nel 1991 andavamo a chiedere aiuto a quelli di El Paso, ci siamo confrontati con loro per spiegargli cosa volevamo fare per occupare. Questo per dire che c’era questo rassemblement con chi scappava da Rifondazione perché era un ambito militante impraticabile, anche perché gran parte del partito era in mano ai cossuttiani, togliattiani. Quest’azione che ci viene di fare, l’occupazione a Lucento-Vallette dell’Isabella, l’abbiamo fatta pensando un po’ al passato, un centro sociale che agisce nel quartiere, cercando di fare una battaglia sui bisogni e di parlare alla composizione operaia e proletaria del quartiere, aggregarla e rappresentarla. Il primo posto interessante che abbiamo trovato è stato un luogo abbandonato, pubblico, dove una volta si facevano le rassegne dei gruppi di base, la Rana Gresba[21], pensando di trovare un appoggio nella componente erede di quelle realtà che in quel periodo sedeva in Circoscrizione con i Verdi. I Verdi furono quelli che osteggiarono maggiormente l’occupazione, anche perché volevano farci altro. Ma noi eravamo dei «facilitatori», avevamo anche l’idea che occupando un posto pubblico abbandonato, nel bene o nel male, anche se ti sgomberavano, acceleravi il processo di riutilizzo pubblico, perché operavi comunque un’azione di denuncia, di agitazione e propaganda. Poi l’occupazione dell’Isabella ha avuto le sue rotture e i suoi strascichi rispetto al fatto che non era una struttura gestibile, aveva il tetto che stava venendo giù e durante lo sgombero c’è chi ha rischiato di cadere giù… La rottura tra i più giovani e i pochino più vecchi della Pantera, era sull’oggetto dello scambio, perché il Comune ci proponeva un posto in corso Umbria che era una stamberga. Avremmo dovuto spenderci un sacco di milioni che non avevamo per renderla vivibile. Alla fine a Toni viene l’idea di andare a occupare a San Paolo perché c’è una struttura appena abbandonata.


Alex: Pochi giorni dopo il 10 settembre 1994…


Marco: Sì, pochi giorni dopo, ma la discussione era stata fatta prima. Avevamo aderito alla manifestazione del 10 settembre, ci ricomponiamo come gruppo su questo obiettivo.


Salvatore: È stato quello il momento in cui il gruppo si era diviso in una Isabella A, che accetta lo scambio del comune, e una Isabella B, quelli che non accettano lo scambio del comune.


Marco: Così l’idea è di trovare un altro obiettivo, avere due posti occupati e rilanciare la trattativa con il comune, e da lì vedere cosa succede. Nel frattempo era avvenuta un’altra rottura con un gruppo di ragazzi del quartiere, un altro elemento che entra in gioco quando entriamo al Gabrio. L’Isabella a quel punto era per noi un puro oggetto di scambio, ma quando si tratta poi di lasciarlo c’è l’opposizione dei giovinastri del quartiere, del Delta House[22], che si erano chiusi in una stanzetta. Erano ragazzi delle Vallette a modo loro simpatici, frizzanti. A Lucento-Vallette non c’erano in realtà le condizioni per noi per fare questo tentativo di radicamento sociale nel quartiere. Questa cosa l’abbiamo trovata a Borgo San Paolo. Qui abbiamo trovato giovani che in parte già frequentavano il centro sociale dei Murazzi, giovani delle case popolari della zona, che iniziano a vedere cos’era questa occupazione e piano piano la fanno propria. C’era anche la questione del consumo protetto delle droghe e questo sarà un elemento fondamentale nella storia del Gabrio, quello dell’autogestione dello spaccio.


Salvatore: Che se ricordo bene, risolvono loro le «contraddizioni in seno al popolo».


Alex: Non si poteva spacciare al Gabrio.


Marco: Sì, la lunga discussione su questa questione porterà all’istituzione della «farmacia», uno spacciatore unico per tutto il Gabrio, e solo per modica quantità. Insomma, alla fine non eravamo un posto occupato e a Torino per tutti gli anni Ottanta e un pezzetto dei Novanta, l’egemonia dei posti occupati ha fatto un po’ scuola. Eravamo un aspetto anomalo. Eravamo quelli che aprivano il centro sociale alla popolazione, tutti i giorni si poteva entrare, si cercava anche di assegnare dei pezzi a vari gruppi. Ed era un problema gestionale non indifferente, ma è stata una scelta strategica e vincente, perché ci permise di legarci con questa gioventù di quartiere, che si è portata avanti nel tempo in via Revello.

Ma la particolarità era anche il fatto che non eravamo né dell’autonomia ortodossa né dello squatterismo anarchico, rappresentavamo un terzo polo, cercavamo di dialogare con chiunque, con pezzi del sindacato di sinistra, con la Cub.


Salvatore: Anche perché in quel periodo con gli squatter per noi era impossibile discutere…


Marco: Eravamo in un’oggettiva ricerca, e l’abbandono di un certo tipo di militanza politica, noi l’abbiamo vissuto nella pratica. Ci siamo spogliati dei nostri abiti di militanti politici e siamo diventati dei militanti sociali, degli attivisti. Questo è stato un po’ il processo sociale, cercando di fare un’attività sul territorio. L’ultima generazione è riuscita a portarla avanti, molto molto dopo…


Salvatore: Quando periodizzate, quante generazioni intendete?


Claudio: Io non sono l’ultima… L’ultima sono i venti-venticinquenni di oggi. In coerenza con la storia del Gabrio c’è un gruppo di compagne e compagni molto giovani, in gran parte studenti o studentesse o lavoratori/trici di primissimo ingresso nel posto di lavoro, anche specializzati. Sono del quartiere, di San Paolo. Il Gabrio è sempre stato una spugna, in grado di assorbire quello che di sensibile aveva attorno, anche per vie traverse. Quello che è stato descritto da Marco, quel processo si è poi concluso dopo al Gabrio, quella dimensione di radicamento sociale piano piano si è dato e oggi passa attraverso attività come la Palestra popolare, che è stata una delle porte principale di ingresso nel Centro. Tanti compagne e compagni nuovi sono arrivati dentro il sociale attraverso quel percorso di radicamento sociale. Il Centro sociale è tale se, oltre a costituire una comunità politica che è il collettivo ma che sono anche le compagne e i compagni che non sono più attivi nel collettivo, ma che ci sono, anche se non vanno più alle assemblee, che però passano. I centri sociali non sono la forma definitiva, ma il susseguirsi di generazione che li hanno abitati e hanno provato a farci politica e le iniziative sociali. È stata l’unica forma che è stata in grado di sopravvivere all’esterno, ma anche a se stessa, che è stata in grado di cambiare e di restare patrimonio di una generazione successiva che arriva con aspettative politiche differenti, ma che prende il centro sociale con quello che è il suo patrimonio. I venti-trentenni che oggi sono nel collettivo del Gabrio, del Gabrio si beccano tutto quello che è stato prima, nel bene e nel male. E ogni generazione ha lasciato un contributo in termini pratici, di lettura e interpretazione del mondo, oltre che umani. La dimensione umana, dentro al centro sociale, è la dimensione della costruzione di quella comunità da cui non si può prescindere, come vediamo in Chiapas o in Kurdistan. E i centri sono ancora oggi l’unica realtà in grado di offrire dal punto di vista sociale (non voglio spingermi nella soggettivazione politica) un ambito di radicalità dentro quello che il solco della storia del movimento operaio, e continua ad aggregare dei giovani che vivono una dimensione di militanza, ma anche dei giovani che vivono nel territorio circostante e che a volte con quella dimensione di militanza entrano in conflitto. Spaccano le finestre, ad esempio, per entrare nel centro sociale e trovare nel quartiere un luogo sicuro e nel quale possono stare, per chi nel quartiere non trova uno spazio per vivere. Certo il centro sociale non può essere lo strumento che risponde a tutte le esigenze che negli anni ci siamo posti.


Marco: I giovani oggi li trovi qui al Gabrio, all’Askatasuna. A El Paso ci trovi i cinquantacinquenni. Quella è una forma che non si è evoluta. Non ci sono altre forme aggregative…


Salvatore: Su questo punto non sono d’accordo!


Luca: Neanche io, ce ne sono talmente tante oggi, che rischiamo di essere marginali.


Salvatore: Aggiungo... a me per essere sinceri invece del quartiere non importava niente. La chiudo qui. Nonostante ciò all’Isabella sono tra quelli che cerca di costruire un ponte con quella composizione sociale, ma finisce a botte… Il Gabrio è diverso. Credo davvero che il Gabrio sia l’unico centro sociale con un legame simbiotico con il quartiere, ma questo avverrà dopo. Noi allora non avevamo in mente quello, forse lo sostenevamo retoricamente, ma non in maniera realistica. Paolo prima diceva che il centro sociale è uno spazio appropriabile da nuovi soggetti per nuovi scopi. Il quartiere all’epoca era fatto di persone poco scolarizzate, precari, disoccupati. Adesso Claudio stai parlando di studenti: anche il quartiere è cambiato. Quelli della saletta dell’Isabella facevano gli edili-precari, era un’altra cosa… Invece su un cosa sono in totale disaccordo: in queste settimane ho provato a seguire le mobilitazioni contro il G7, Extinction rebellion, questa generazione c’entra molto poco con i centri sociali e li intercettano molto poco l’immaginario che ci portiamo dietro, per quanto modificato.


Guazzo: Oggi il Gabrio attira molti studenti, quando siamo arrivati stasera era ancora attiva l’aula studio, che è uno spazio aperto e che è rimasto aperto anche durante la pandemia, quando tutto il resto era chiuso. Il quartiere è cambiato, e sta cambiando molto velocemente. Ma su questo il Gabrio ha saputo intervenire, basta vedere la trasformazione del vecchio edificio del Gabrio in via Revello[23], cosa è stato restituito. Basta vedere cosa è successo con la ristrutturazione della Diatto[24], si è riusciti a bloccare una parte del cemento e si ottenuto un giardino, non ancora aperto, ma che è lì, uno spazio che resta pubblico. E abbiamo ottenuto che non fosse costruita nella parte storica dell’edificio un supermercato e che fosse riacquisito dal pubblico e adesso col Pnrr verrà rimesso a posto. Così come la questione della Westinghouse[25], con cui sono stati raccolti anche tanti voti dai 5stelle dall’Appendino,  se non fosse stato per la generosità dei compagni del Gabrio non sarebbe stata riaperta. Nell’attrazione delle persone che vengono qua, c’è una grossa spontaneità e necessità di istruzione, di riconoscersi in una storia, di confrontarsi con chi è più grande per capire il passato, è una generazione che si interroga molto e profondamente. Anche nel personale, come non vedevo da anni. Il movimento Non una di meno qui ha avuto lo spazio per crescere che ha dato gambe a tutto il movimento femminista. Ma nel Gabrio girano tante persone di quartiere, che sono piccoli professionisti, istallatori, chi fa il ferro battuto, e cose così. Una componente giovanile molto conflittuale, ragazzi di seconda e anche terza generazione di stranieri cresciuti qua, con cui i giovani del posto si confrontano. È vero che l’assemblea del Gabrio è molto razzializzata, ci sono solo bianchi. Rispetto al passato, la maggioranza della componente dell’assemblea del Gabrio è femminile, non è più maschile come in altri tempi.


Stefanone: Oltre al livello di quartiere, il Gabrio ospita comitati non necessariamente di quartiere, come il Comitato sul debito, quello No olimpiadi, che hanno una dimensione diversa dal territorio come spazio limitrofo. Sono d’accordo con Salvatore che, all’inizio, a me come ad alcuni di noi, il quartiere interessa poco ed è il quartiere che si impone, il quartiere che scopre questo posto. Evocare i comitati è l’evocare l’idea di territorio come città, il tentativo di intervenire contro le dinamiche di governo del territorio che si danno su Torino, che è qualcosa di particolarmente interessante, è un tentativo di porsi come punto di riferimento effettivo, che ha la capacità di parlare alla città.


Luca: Un’ultima cosa: i centri sociali nascono in un momento in cui la città, la vecchia città industriale, sta cambiando. Questo è molto chiaro a Torino e Milano. E nascono nel momento, e parlo per Torino, in cui anche il livello del sistema non sa bene cosa fare, ci sono immensi spazi vuoti, fabbriche dismesse, su cui intervenire. Tra l’altro per Torino inizia una contrazione demografica oltre che una ridefinizione produttiva. Una situazione in cui la città è piena di zone vuote, è una situazione particolare, forse unica per dimensione. Forse stava nelle cose che in quel momento a qualcuno venisse in mente un utilizzo diverso, alternativo, di questi spazi, che non diventassero solo palazzi, rendita, supermercati, nuove strade, ma spazi di socialità, beni comuni. A Torino c’è ancora l’enorme spazio di Mirafiori in dismissione, che sarà un bel problema da affrontare… L’idea un po’ utopistica di restituire scuole, asili, fabbriche, che erano stati spazi pubblici alla dimensione sociale e politica era un messaggio potente negli anni Novanta. Nella città una cosa simile può essere addirittura catalizzatore di ben altre tensioni sociali, penso alla battaglia di Gezi Parc a Istanbul… Oggi che la città è stata trasformata dal capitale, che il territorio è stato messo a valore, la vita delle persone (e dei giovani) completamente mercificate, nella metropoli ci sono forme di vita differenti, come diceva Alex, e i centri sociali in grado di accogliere quelle forme di vita che hanno sensibilità particolari, pulsioni radicali, gli iperproletari che Alquati definiva «non accettanti», però in un contesto in cui altre forme di vita trovano un’infinità di luoghi, materiali e immateriali, da frequentare o attraversare, stabilmente o con modalità nomadiche, in quello che sempre Alquati chiama il grande campo della riproduzione delle capacità umane. Quando nascono i centri sociali, si ha un po’ l’idea che poi ogni quartiere avrebbe avuto il suo centro sociale, che ci sarebbe stata una proliferazione capillare, che si sarebbe data una rete almeno nazionale dei centri. Questo non è successo, se non a Roma. Ma intanto la città cambiava, trasformata da immani flussi di capitali, in una gigantesca messa a valore, dello spazio e del tempo delle persone, messe a lavoro 24 ore su 24, in forme fenomeniche nuove, di cui i quartieri dei «distretti del piacere», della movida, possono essere un emblema.


Sollazzo: A Roma c’è stato un periodo in cui ogni quartiere ha avuto il suo centro sociale che ha sviluppato un percorso di democrazia diretta che ha coinvolto molte migliaia di persone anche se questo forse non ha fatto storia. È stata una storia molto diversa da quella di Torino, Milano o di altre città.


Salvatore: Iniziamo con dire una banalità: Milano, Torino, Roma, sono città molto diverse. Io penso che c’è una consapevolezza maturata successivamente, all’epoca non c’era il discorso contro la gentrification, è arrivato dopo, insieme alle forme emergenti di capitalismo che si mangia la città. È una consapevolezza che in Italia arriva negli anni 2008-2009 principalmente a Milano, molto poco a Torino. Un’occupazione che è nata su quel discorso, che lo ha messo al centro, era Macao a Milano, l’occupazione di Torre Galfa nasce esplicitamente con l’idea di mettere in discussione il piano di ristrutturazione dell’area di Porta Nuova di Milano, della gentrification del centro di Milano, ma arriva nel 2012. Negli anni ’90 questa consapevolezza non c’era. Poi so che al Gabrio c’era chi studiava il piano regolatore di Gregotti[26] e Cagnardi, che provava a ridisegnare la città anche ideologicamente in una prospettiva post-industriale. Ma nei centri sociali la capacità di aggredire quel livello di progettazione dello spazio urbano non c’era, e fu una occasione persa. Però all’epoca era difficile.


Marco: Si è fatto sul terreno dell’occupazione delle case, della lotta sulla casa.


Salvatore: Hai ragione, però è diverso. Oggi al Gabrio invece si trova il Comitato contro il piano regolatore.


Stefanone: In quella fase, chi ne capiva di più sulla città, mancava nella nostra generazione, e per noi quello era l’ultimo dei nostri problemi, e dipende anche dalla composizione di chi attraversava questi posti. Questo lo si vede prima che nei centri sociali in Val Susa, lì ci sono una serie di specialisti di alto e altissimo livello che intervengono che costruiscono un sapere specifico su quella questione, che mettono in comune rendendolo pubblico e che noi non avevamo. In quel momento c’è una frattura tra quel pezzettino microscopico di società che siamo noi, che mediamente ha dei saperi e delle competenze molto basse e il grosso della società. Noi siamo una variabile oppositiva e distaccata, qui invece c’è un passaggio quando hai persone che hanno competenze e saperi che si avvicina a questo mondo, passaggio non da poco perché cambia un pezzo di referenza sociale, permette alleanze con pezzi di società molto differenti che si pongono sul terreno se non altro di opposizione.


Alex: Un limite enorme di questa bella discussione è che non è stata presente nessuna donna. Imperdonabile.


Guazzo: Tornando alla domanda di Luca, è vero, in quegli anni c’erano molti più spazi con la possibilità di essere occupati. Allora era molto più facile aprire uno spazio occupato, perché anche lo stato non aveva tutte quelle armi che ha oggi, basta pensare al decreto rave: dopo il decreto rave ce ne sono stati molto pochi di rave… C’è stata anche una reazione da parte dello Stato.


Salvatore: Pensa quando due mesi fa è venuta al Gabrio Lucia Tozzi[27], c’erano centocinquanta persone.


Guazzo: A queste riunioni contro il piano regolatore viene Marcello Vignardi, che è l’ex Assessore dei tempi della Giunta Novelli, che poi ha lavorato con Raffaele Radicioni, assessore all’Urbanistica nelle giunte Novelli del Pci tra il ’75 e il 1985… vuol dire che ti sei costruito una forza politica in città e che quindi attrai anche queste persone.

Cosa è rimasto oggi?  Dove posso costruire liberamente dei linguaggi diversi dall’oppressione che c’è? Vi lasciamo con questa domanda… Grazie!



Note

[13] Centro culturale Principessa Isabella, già Asilo Principessa Isabella, attuale sede del Centro di Documentazione della Circoscrizione 5 di Torino, in via Verolengo 212, a Lucento. Nei primi anni Ottanta era un centro d’incontro di quartiere, poi chiuso nel 1987. Nel 1993 viene occupato e lo rimane fino al 1994.

[14] Rivista universitaria torinese.

[15] Radio di movimento nata nel settembre 1992.

[16] Squat in corso Principe Eugenio a Torino.

[17] La Lega dei furiosi nasce nel 1990, dopo una serie di incontri tenutisi a Imperia, La Spezia e Firenze, ed è un catalogo collettivo nato dall’esigenza di diverse realtà; collettivi, gruppi, centri sociali, singoli, interessati all’autogestione / autoproduzione / distribuzione di libri, dischi, cassette audio e video, zines, cartoline, magliette ecc.L’intento comune è quello di far conosce Nei primi anni ’90 organizza iniziative e concerti in uno spazio sotto le arcate dei Murazzi sul lungo Po.

[19] Leoncavallo Spazio Pubblico Autogestito (a cura di), Centro sociale LeoncavalloQuarant'anni di cultura a Milano, Edizioni Interno 4, Milano 2019.

[20] Csa Murazzi, 10 settembre 1.9.9.4. Per l’antagonismo dei centri sociali, Velleità alternative, Torino 1994.

[21] RA.NA. GR.ES.BA., acronimo di RAssegna NAzionale dei GRuppi ESpressivi di BAse, eventi culturali che nascono nel 1981 dai laboratori teatrali e musicali dei centri d'incontro dei quartieri di Vallette e Lucento e che producono spettacoli tra la fine degli anni Settanta e inizio anni Ottanta all'interno di manifestazioni come le feste di quartiere, il carnevale, i corsi delle 150 ore.

[22] Poi Delta House occupato, dell’area squat torinese.

[24] Ex fabbrica, a lungo sede di uffici comunali. Nel 2012 il Comune di Torino decide di demolire l’edificio per realizzare nuovi edifici abitativi di lusso, un centro commerciale e parcheggi. Un Comitato spontaneo di quartiere SniaRischiosa che insieme a Pro natura, a Legambiente e al Gabrio ingaggia una lotta per evitarne la demolizione, che avviene il 5 giugno 2013. Nel 2020 sarà definito un progetto di costruzioni di residenza per studenti con annessa area verde a uso pubblico.

[25] Il progetto di riqualificazione dell’ex fabbrica di freni Westinghouse, in via Borsellino a Torino, prevedeva la costruzione di un centro congressi, nell’ex area industriale, e di un supermercato Esselunga, nel parco. Contro questo progetto si costituisce il Comitato Essenon, animato dai centri sociali Gabrio e Askatasuna, che protestano contro questo utilizzo dello spazio urbano.

[26] Raffaele Radicioni, Assessore all’urbanistica delle due giunte torinesi Pci di Diego Novelli (1975-1985) predispone il nuovo Piano Regolatore Generale ai sensi della Legge Urbanistica Regionale, la 56/1977, cosiddetta Legge Astengo, orientato a riequilibrare lo sviluppo urbano a scala regionale, a moltiplicare i servizi e a ridistribuire la rendita urbana. Proprio per impedire l’approvazione di quel piano regolatore che avrebbe intaccato interessi consolidati, nel gennaio 1985 viene fatta cadere la seconda giunta Novelli e avviata con il Pentapartito una diversa impostazione del PRG (architetti Gregotti e Cagnardi) che sarà poi adottato dalla Giunta Castellani e approvato dalla Regione nel 1995.

[27] Discussione pubblica con gli autori del libro Le nuove recinzioni a Torino, Carocci 2023, Lucia Tozzi, Stefano Portelli, Luca Rossomando, al Gabrio, 29 febbraio 2024.



* * *


Luca Perrone collabora con la rivista «Machina» di DeriveApprodi, per la quale, con M. Pentenero, ha curato il testo La riproduzione del futuro. Le ipotesi di Romano Alquati per una trasformazione radicale. Ha pubblicato Banditi nelle Valli valdesi. Storie del XVII secolo (Claudiana, 2021) e, con Enrico Lanza, Abbiamo fatto un sindacato. Enrico Lanza: una vita dalla parte dei lavoratori (DeriveApprodi, 2022).

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