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Forza Italia. Goal al novantesimo minuto



Pubblichiamo un ritratto «insolito», che si inserisce all’interno della «cartografia dei decenni smarriti»: quello di un partito, Forza Italia e del suo fondatore, Silvio Berlusconi. Il perché è inseribile all’interno di questa sezione è spiegato da Diego Giachetti nell’articolo: Forza Italia, uno dei nuovi partiti che hanno stravolto il panorama istituzionale italiano, non sarebbe potuta esistere senza la figura del suo fondatore Silvio Berlusconi, figura che ha «innovato» le forme della politica, con l’imprenditorializzazione e personalizzazione della leadership, la figura del comunicatore come nuova avanguardia.

Un ritratto di un partito – e del suo fondatore – fondamentale per inquadrare il decennio Novanta: il berlusconismo, infatti, è stato l’inveramento dei mutamenti produttivi, sociali ed antropologici che hanno caratterizzato la «controrivoluzione capitalistica».


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Ma tu chi sei?

Sono il tuo incubo peggiore!

(Sylvester Stallone in Rambo 3)



Il 26 gennaio del 1994 Silvio Berlusconi annunciò la sua discesa nell’arena politica con Forza Italia, partito costruito repentinamente davanti a un notaio a Milano il 29 giugno dell’anno precedente. Una decisione presa col piglio di un investimento in un mercato partitico, svuotato dallo scandalo di Tangentopoli, per catturare la rappresentanza degli elettori centristi e moderati avversi alla seppur edulcorata sinistra. Pareva fosse giunta l’ora per l’andata al governo di una sinistra ripulita dalle ultime velleità socialiste berlingueriane, non più ostacolata dalla Democrazia cristiana e dai suoi alleati e favorita dalla nuova legge elettorale (il Mattarellum) che nel 1993 aveva abolito il sistema proporzionale introducendo il maggioritario-bipolare. Invece l’alba della presunta seconda repubblica riservava una sorpresa. Proprio sul finire della partita il goal segnato da un giovane e nuovo partito, Forza Italia, interrompeva sogni e velleità.


La messa a profitto della comunicazione

Per formazione e ragioni d’interesse legate alla professione d’imprenditore, Berlusconi aveva già fatto indirettamente capolino nel mondo della politica fin dal lontano 1977. Preoccupato dall’avvicinamento all’area governativa del Partito comunista, parteggiava per il consolidamento del rapporto fra Democrazia cristiana e Partito socialista, guidato da Bettino Craxi, al fine di contenere l’avanzata comunista. Grato per la «simpatia» che provava per Craxi, il Partito socialista sostenne l’apertura dell’etere alle Tv private già col varo del cosiddetto «decreto Berlusconi» del 16 ottobre 1984 e reiterato l’anno seguente.

La scalata nel mondo mediatico era iniziata nel 1977 rilevando una quota della società editrice del quotidiano «Il Giornale» e con l’acquisizione nel 1978 dell'emittente televisiva locale «Telemilano». Per fare della pubblicità un commercio privato e profittevole fu fondata la concessionaria Publitalia '80 allo scopo di sostenere il mercato televisivo di Telemilano e, in seguito, Canale 5. Nel 1982 la Fininvest, società fondata nel 1975, rilevò lo spazio televisivo Italia 1 da Edilio Rusconi. Due anni dopo, nel 1984, acquisì il 50% degli impianti di Rete 4 e il magazzino programmi, comprò il settimanale «TV Sorrisi e Canzoni», portando la tiratura da circa seicentomila a duemilioniduecentomila. Con tre reti nazionali la Fininvest divenne competitiva con la Rai nel mercato pubblicitario. Già nella prima metà degli anni Ottanta le entrate pubblicitarie del gruppo superarono quelle della Rai. Nel 1990, con la nuova regolamentazione del settore televisivo (legge Mammì), fu di fatto legalizzato lo stato di spartizione dell'etere tra Rai e Fininvest. Nel 1994 Fininvest esordì nel settore della produzione e distribuzione cinematografica con la società Medusa Film, confluita poi nel Gruppo Mediaset. Nel 1991 aveva acquistato il 53% della casa editrice Mondadori.

In sintesi, nel 1994, la persona che stava per entrare in politica era presidente della Fininvest, terzo gruppo imprenditoriale dopo la Fiat e la Montedison già nel 1988, composto da circa 300 aziende organizzate in più comparti. Poteva contare su migliaia di dipendente e collaboratori a vario titolo sparsi su tutto il territorio nazionale nelle sedi regionali di Pubblitalia, disponeva di 530 punti vendita della Standa, una fitta rete di agenti assicurativi raccolti sotto Programma Italia, più gli uffici di Mediolanum assicurazioni e di Edilnord, deteneva dal 1986 il controllo del Milan, una delle maggiori società calcistiche in ambito italiano e internazionale, di cui era Presidente.


L’anomalia Forza Italia

Le risorse finanziare, umane, organizzative necessarie alla costruzione del movimento politico, vennero dalle aziende Fininvest, ad iniziare dal gruppo dirigente formato da manager trasferiti in politica. Un partito costruito dall’alto, governato dallo staff aziendale, un’organizzazione patrimoniale, di proprietà del suo fondatore, con una gestione basata sul modello aziendale: forte centralizzazione e dirigenti scelti per cooptazione. Operava per impulso di una direzione centrale con ampia libertà di manovra, sottoposta a sua volta al carisma di un leader forte che dirigeva e decideva. Era una fusione diretta tra la rappresentanza politica e quella di interessi economici.

Trovava la sua ragion d’essere nella crisi di ristrutturazione e trasformazione del capitalismo e negli avvenimenti interni e internazionali che aprivano alla ridefinizione del regime e al ricambio del ceto politico partitico e governativo. I mutamenti in corso sfrondavano il sistema partitico dagli attributi culturali e politici che lo avevano sorretto. Restava solo l’aspetto crudo dei costi della politica, dei partiti e della corruzione, dopo la svalutazione del modo di far politica avvenuta nel decennio Ottanta, sintetizzabile in due concetti: il consociativismo tra i partiti di opposizione e di governo nella spartizione degli incarichi e del potere, e l’omologazione, intesa come accettazione da parte di tutti di un modello istituzionale ed economico retto da regole condivise e insuperabili. Con la fine delle appartenenze partitiche tradizionali, la politica diventava un mercato più libero, elettoralmente fluido e in movimento. Prima ancora di Forza Italia, il relativo successo della Lega Nord in alcune regioni settentrionali era rilevatore di questa nuova fluidità e del bisogno di rappresentanza politica di un mondo sociale raccolto attorno alla piccola e media impresa.

Forza Italia si presentava come una filiale nuova e aggiunta dell’azienda che interveniva in un nuovo mercato, quello elettorale. Era una frazione della borghesia che decideva di costituirsi in partito. A differenza di altre componenti la classe dominante, che avevano sempre affidato «marxianamente» ad un «comitato d’affari» di politici di professione il governo delle leve dello Stato, con Forza Italia un’importante impresa promuoveva un proprio ceto politico predisposto al governo del paese. Il colpo di scena sconvolse il normale modo di rapportarsi delle frazioni dei ceti dominanti borghesi con quello politico. Se tutte le componenti della classe borghese hanno i medesimi interessi in quanto classe contrapposta alle altre, hanno però interessi opposti e conflittuali all’interno, derivanti dai rapporti di produzione entro i quali i borghesi si muovono. La concorrenza indotta dal meccanismo capitalistico può comportare la messa fuori mercato di alcune componenti a vantaggio di altre. La scelta di Berlusconi di concorrere per governare il paese mise in allarme parte della borghesia stessa, nel timore che ciò avrebbe avvantaggiato la sua impresa a scapito delle altre componenti.


La scesa in campo del «partito azienda»

Lavorando da anni nel campo della comunicazione, della pubblicità, della televisione, quelli di Mediaset erano degli attenti osservatori dell’opinione pubblica, del sentire comune della «gente», e coglievano gli umori che emergevano dalle forze sociali legate alla crescita del nuovo terziario, della piccola e media impresa, dei lavoratori autonomi, nonché la paura dei vecchi e nuovi ceti, conservatori e anticomunisti, per il crollo del baluardo democristiano. Percepirono l’opportunità che si dava di occupare uno spazio elettorale offrendo un nuovo prodotto politico: un partito e un leader per cogliere l’occasione «bonapartista» che si profilava. Forza Italia si presentò sulla scena con un basso tasso di ideologia e con un forte pragmatismo aziendale e mediatico, che aveva come sfondo culturale un generico richiamo alla libertà dell’individuo contro le costrizioni statalistiche, al liberismo economico, una propensione per il «privato» rispetto al «pubblico», un antistatalismo inteso come insofferenza alla regolazione dell’economia. Pescava nell’animo di quei settori che si sentivano stretti nella morsa della grande impresa (privata e di Stato) e delle forze popolari organizzate in partiti e sindacati, politicamente orfani del protettorato democristiano, favorevoli ai condoni fiscali e edilizi, alla riduzione delle tasse, all’abolizione dei vincoli che impedivano il libero gioco del mercato: equo canone, scuola pubblica versus scuola privata, deregolamentazione del lavoro, libertà d’impresa e di intraprendere.

Il lancio del prodotto Forza Italia avvenne secondo gli schemi in uso per il decollo di prodotti sul mercato a partire dalla domanda. Si scoprì ad esempio che la domanda era caratterizzata da una forte critica alla politica partitica; pertanto, Forza Italia e Silvio Berlusconi sposarono subito l’antipolitica quale elemento costitutivo del movimento: disprezzo verso chi viveva di politica, polemica contro le «lobby» politiche e culturali, particolarmente quelle di sinistra.

La scelta dei candidati da inserire nelle liste di Forza Italia per le elezioni politiche del 1994 fu fatta privilegiando le «facce nuove» della società civile. I candidati una volta individuati furono sottoposti a selezioni atte a garantirne l’idoneità con particolare attenzione all’aspetto: stile, abbigliamento, volto sbarbato e ben curato, capelli corti e ben tagliati, tipo dirigenti aziendali di successo. Educati alle prove televisive e opportunamente addestrati alle tecniche di comunicazione al fine di proiettare un’immagine positiva e rassicurante. Il rinnovamento riuscì. Dopo le lezioni politiche del 1994, il nuovo parlamento risultò composto da un’elevata percentuale di «nuove facce»; il contributo maggiore al rinnovamento dei parlamentari venne da Forza Italia: il 90% dei suoi eletti risultò alla prima esperienza parlamentare. Berlusconi mise al centro della campagna elettorale se stesso, spostò la politica sulla persona, sulle qualità e le doti del leader, costringendo i suoi avversari a confrontarsi su questo terreno. A cominciare da quella lontana campagna elettorale, temi e programmi degli schieramenti politici opposti divennero secondari rispetto alle virtù o ai difetti del candidato Berlusconi.


La sorpresa…

La sua discesa in campo apparve agli oppositori improvvisata e raffazzonata. Molti sorrisero bonariamente e «cazzeggiarono» allegramente e ironicamente sulle sue iniziative, sugli spot elettorali, sui dirigenti. Si convinsero fosse una meteora che non avrebbe mai brillato o tuttalpiù si sarebbe bruciata presto. Con grande sorpresa, alle elezioni del 1994 si affermò lo schieramento di centro destra. Forza Italia diventò il primo partito intascando, alle elezioni politiche e poi quelle europee di quell’anno, rispettivamente 8.136.135 (21%) e 10.098.139 (30,6%) voti. La vittoria elettorale fu possibile grazie all’alleanza con la Lega Nord, Alleanza Nazionale e il Centro Cristiano Democratico e al sistema elettorale maggioritario e uninominale che consentì alla coalizione di ottenere la maggioranza di seggi alla Camera, non al Senato.

Il 10 maggio Berlusconi diventò per la prima volta Presidente del consiglio. Il progetto berlusconiano si esplicò in quei mesi secondo orientamenti economici liberisti: attacco allo stato sociale, privatizzazioni, riduzione del deficit col taglio della spesa pubblica, avvio di proposte di riforme istituzionali tese a rafforzare il bipartitismo e il potere dell’esecutivo rispetto al Parlamento, critiche a quelle che erano considerate intromissioni della magistratura, in particolare i giudici di Milano, definiti «le toghe rosse». Avviò la riforma del sistema pensionistico, conclusa dal successivo governo Dini dopo la crisi di quello guidato da Berlusconi, primo esempio di «governo tecnico». Vacillante, incerto e debole, il primo governo Berlusconi ebbe vita breve, cadde col ritiro della Lega Nord dalla maggioranza. Il 21 aprile del 1996, si tornò a votare. Presentatosi diviso – la Lega Nord corse per conto suo – il centro destra fu battuto grazie al sistema elettorale maggioritario e uninominale, pur avendo riportato in assoluto (sommando la quota ottenuta dal Polo delle libertà con quella della Lega Nord) più voti del centro sinistra.

Agli oppositori di Berlusconi parve che il paese avesse ritrovato la sua normalità, dopo la breve parentesi storica dello spirito di crociana memoria, secondo la quale il fascismo fu una «parentesi», un fenomeno politico dovuto allo «smarrimento di coscienza». Similmente, l’emergere del berlusconismo avrebbe aperto un’altra «parentesi» sulla via della libertà e della razionalità, così almeno diversi intellettuali e appartenenti alla schiera degli antiberlusconiani, compresero e spiegarono il fenomeno, come se si trattasse di un fatto estraneo alla storia, alla cultura, ai rapporti fra le classi, simile a un’invasione aliena che aveva conquistato un popolo buono.

Il berlusconismo attingeva e suscitava emozioni radicate nell’animo profondo della popolazione, conquistava con le tecniche moderne della telecomunicazione e l’uso dello spettacolo mediatico menti e cuori, facendo leva sulla forza magica dei simboli e dei segni, della parola e degli slogan, che diffondeva utilizzando i ritrovati moderni della tecnica comunicativa. Il berlusconismo era un prodotto sociale non riducibile alla persona e alle sue attitudini, ai suoi vizi e presunte virtù. Troppo spesso, la reazione ad esso, l’antiberlusconismo, non seppe o volle andare oltre la critica dell’uomo, incentrando tutta l’attenzione sulla persona, riducendo un fenomeno storico e sociale complesso a un fatto personale.

Terminata la legislatura, nelle elezioni politiche del 13 maggio 2001, il centro destra, nuovamente unito nella Casa della Libertà, raccoglieva 16.938.532 voti contro i 16.309.566 del centro sinistra. Silvio Berlusconi ritornava alla presidenza del consiglio, incarico che mantenne per tutti i cinque anni della legislatura. Il 9 aprile 2006, si tornò a votare con i due schieramenti contrapposti in campo: il centro destra nel nome della Casa della Libertà ottenne 18.977.843 voti e il centro sinistra, che si era ribattezzato Unione, 19.002.598. Con solo 24.755 voti di differenza il centro sinistra risultava titolare di una debole maggioranza, soprattutto al Senato. Il governo Prodi secondo nacque in balia di questa debolezza strutturale, voluta dagli elettori in primo luogo.

Dopo due anni fu costretto a dimettersi. Si votò nuovamente il 13 aprile del 2008 e l’esito fu clamorosamente favorevole al centro destra con 20.278.863 voti (55,6%) rispetto ai 15.783.940 (43,3%) del centro sinistra. Così per la terza volta Silvio Berlusconi diventava Presidente del consiglio, sorretto da una solida maggioranza e da un consenso elettorale che era il più alto tra quelli avuti. Berlusconi e il suo partito, con un’accorta politica di alleanze con le altre forze di destra, aveva costruito un blocco elettorale che riprendeva e interpretava mali vecchi: il qualunquismo, l’illegalità, la centralità del familismo, spesso amorale, coniugandoli con necessità nuove della forma economica capitalistica emersa dopo la fine della Guerra fredda: privatizzazione e svendita dei beni pubblici, subalternità della politica all’economia e agli organismi economici finanziari e bancari europei e internazionali, rapporto diretto con gli elettori, il «popolo», attraverso l’uso dei sistemi mediatici.


Lo diceva Prodi…

Nel frattempo le idee politiche contrapposte, nel senso di alternative progettuali di sistema, cedettero via via il posto alla dialettica della disfida di Barletta. Al berlusconismo si contrappose un antiberlusconismo da professionisti del ramo, necessario ma insufficiente, perché non intaccava le radici del fenomeno, il radicamento sociale, la società che lo aveva prodotto e lo alimentava. Molto si iniziò a fare e a scrivere contro Berlusconi e le sue malefatte vecchie e nuove, ma si trattava di un agire e di un pensare minuto e quotidiano, che non andava al di là dell’attacco alla persona, non chiamava in causa il sistema, i suoi valori di fondo, il suo funzionamento: una denuncia che riempiva la cronaca ma non faceva storia, lasciava tracce nei giornali, senza scrivere progetti alternativi, senza incidere a fondo e in modo duraturo. Le passioni, in una lotta politica ormai ridotta a tifoseria calcistica, crebbero «più violente di prima, perché non erano in gioco diverse idee della storia e del futuro, ma stili di vita, opinioni, valori che riguardano la vita quotidiana. E al posto dei partiti vennero le persone, i leader»[1].

Che tutto sommato centro destra e centro sinistra abbiano fatto le stesse cose, quando sono stati rispettivamente al governo, lo ammetteva una voce autorevole del centro sinistra, Romano Prodi, per ben due volte Presidente del consiglio. Invece di una politica di rinnovamento e di inversione di rotta, rispetto a quella portata avanti da Ronald Reagan negli Stati Uniti e da Margaret Thatcher in Gran Bretagna negli anni Ottanta, i governi, diceva l’autorevole fonte, si «limitavano ad imitare le precedenti politiche dei conservatori inseguendone i contenuti e accontentandosi di un nuovo linguaggio. Sul dominio assoluto dei mercati, sul peggioramento nella distribuzione dei redditi, sulle politiche europee, sul grande problema della pace e della guerra, sui diritti dei cittadini e sulle politiche fiscali le decisioni non si discostavano spesso da quelle precedenti. Il messaggio lanciato all’elettore era il più delle volte dedicato a dimostrare che il modo di governare sarebbe stato migliore. Nel frattempo il cambiamento della società continuava secondo le linee precedenti»[2].

Al di là della sorte personale di Silvio Berlusconi, l’età politica da lui inaugurata proseguì assieme alla «morte della politica», secondo il pronostico di Veronica Lario, seconda ex moglie del leader, la quale dichiarò, furente per lo scandalo «Papi» nel 2009: «il vero pericolo è che la dittatura arrivi dopo di lui, se muore la politica, come temo stia accadendo»[3]. Difatti venne la «dittatura» dei mercati, della troika e del governo Monti e Letta, benedetta dalle larghe intese tra il Partito Democratico e quello guidato da Silvio Berlusconi, dopo le sue dimissioni «forzate» da Presidente del consiglio il 12 novembre 2011, accolte da una folla insultante che confondeva un’operazione politica più simile al “25 luglio” del 1943 col “25 aprile” del 1945, celebrando la «liberazione» dopo «il ventennio peggiore dal dopoguerra», scriveva «Il manifesto» il giorno dopo.



Note [1] Ilvo Diamanti, Vent’anni dopo piccoli muri crescono, «La Repubblica», 1° novembre 2009 [2]Romano Prodi, Il riformismo in Europa ha fallito, «Il Messaggero»,14 agosto 2009 [3] Citato da Peter Gomez, Marco Lillo, Marco Travaglio, Papi. Uno scandalo politico, Milano, Chiarelettere, 2009, p. 331



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Diego Giachetti (1954) vive a Torino. Si è occupato di movimenti giovanili e di protesta attorno al ’68 e delle lotte operaie nel corso dell’autunno caldo. Molteplici le sue pubblicazioni, tra le quali La rivolta di corso Traiano (1997-2019); Un Sessantotto e tre conflitti (2008). Con DeriveApprodi ha pubblicato Nessuno ci può giudicare (2005) e Il sapere della libertà. Vita e opere di Charles Wright Mills (2021).

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