Una riflessione sulla curatela della Biennale di Venezia 2024
La Biennale di Venezia, se guardata a partire dall’espansione globale del circuito delle biennali e delle mostre internazionali su larga scala, rimane, ancora oggi, una delle macchine espositive più potenti al mondo. Si posiziona tra gli ingranaggi più rodati di un programma speculativo di costruzione capitalista e neocoloniale, strutturato su razzismo, patriarcato ed estrattivismo, di cui, ormai da tempo, abbiamo denunciato la governance neoliberale (senza però metterne in discussione l’egemonia). In questa particolare congiuntura politica, di deriva autoritaria e neofascista, il direttore artistico Adriano Pedrosa sceglie significativamente di intitolare la 60a edizione Stranieri Ovunque - Foreigners Everywhere.
L’analisi di Jonas Tinius non è solamente una recensione, ma una disamina critica che si inserisce nel dibattito internazionale da una prospettiva sia antropologica che curatoriale, per disfare le retoriche costruite intorno ai meccanismi - opposti e complementari - di inclusione e di alterità. Tali retoriche si costruiscono nel rapporto asimmetrico tra colonizzatore e colonizzato, proprio della tassonomia espositiva modernista (e coloniale) costantemente reiterata dalla storica kermesse lagunare e nell’intersezione tra linee di genere, razza e classe di cui, dopo l’attraversamento geografico, etnico e identitario proposto da Pedrosa, restano solo i «frutti puri» (J. Clifford) e fuori dal tempo, risultato di un processo di gerarchizzazione che struttura la nostra società e che ridisegna costantemente il concetto di «straniero».
A differenza della controversa biennale di Cecilia Alemani del 2022, accolta invece con entusiasmo quasi unanimemente, Pedrosa propone un’esposizione altrettanto problematica ma in grado di sollevare una serie di critiche costruttive. Non era forse dal 2015, con la discussa 56a edizione che - sotto la direzione di Okwui Enwezor - prefigurava tutti i futuri del mondo richiamando i fantasmi marxiani (il fulcro espositivo era l’Arena: un palcoscenico che ospitò un’imponente lettura dal vivo, per tutta la durata della mostra, dei tre volumi de Il Capitale) che non si riattivava un dibattito pubblico? Questo è, in ultima analisi, il merito di Pedrosa.
Sono passati quasi dieci anni da All the World’s Futures e la macchina biennale rivela ancora una profonda inadeguatezza nelle strutture della sua esposizione e nell’assorbimento simbolico dell’arte «a livello della sua funzione, in quanto spettacolo», senza intaccare le relazioni di valorizzazione e divisione del suo sistema (per non parlare delle forme di estrattivismo a livello locale). Con questo primo testo, la sezione Dirty Cube intende aprire uno spazio per una critica estetico-politica delle contemporanee forme di riproduzione sociale capitalistiche. Tanto più urgente in questo momento di profonda crisi della costituzione politica del presente.
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Mettiamola così. Sappiamo tutti da dove viene Adriano Pedrosa. Come curatore della Biennale di Venezia di quest’anno, intitolata Foreigners Everywhere (Stranieri ovunque) e come direttore artistico e curatore aggiunto di importanti mostre e istituzioni (come le Biennali di San Paolo del 1998 e del 2006, la Biennale di Istanbul del 2011 e il MASP - Museo de Arte de São Paulo dal 2014), è ben consapevole del potenziale critico dell’«alterità» e del potere delle narrazioni nella creazione della storia, dell’epistemologia e della «verità». Non è nuovo alla cura dei modernismi transcontinentali e delle loro
storie profonde di modernità coloniale. Ha rimodellato e attivato le collezioni del MASP come nessuno aveva mai fatto prima. Il suo progetto Histórias, avviato insieme alla popolare antropologa e storica brasiliana Lilia K. Moritz Schwarcz presso l’Istituto Tomie Ohtake di San Paolo, è stato portato al MASP nel 2016 - attraverso un’esplorazione dell’infanzia, della sessualità (2017), dell’Afro-atlantico (2018), delle donne (2019), della danza (2020), dell’indigenità (2021), del Brasile (2022), della natura (2023), della diversità sessuale (2024), delle storie deliranti (2025) - con cui ha aperto le collezioni museali per raccontare nuove storie; storie non più cronologiche, alfabetiche e semplicemente raccontate da un’epistemologia occidentale del tempo, ma una curatologia speculativa e aperta a una rilettura queer del modernismo e della modernità.
Non c’è bisogno di ripercorrere i modi in cui il Brasile è stato oggetto-soggetto della ripetizione di tante storie sul modernismo, sulla modernità, sulla colonialismo, sulla metafisica e sulle epistemologie al di là della natura e della cultura, sulla costruzione della razza, sulla nerezza, sull’indigeneità e sulla bianchezza. Non c’è bisogno di raccontare le storie in cui antropologi, storici dell’arte, artisti e curatori hanno costruito e resistito alle narrazioni della differenza inscritte in questo esemplare laboratorio di violenza moderna (Holsten 1989,
Schwarcz 1999). Non c’è nemmeno bisogno di ricordare ai lettori di questa rivista, o a chiunque abbia familiarità con la storia della pratica curatoriale degli ultimi quarant’anni, esposizioni controverse e divisive come Magiciens de la Terre (curata da Jean-Hubert Martin al Centre Pompidou nel 1989) - certamente non la prima ma la più citata, che ha revocato l’autorità epistemologica occidentale nel determinare cosa sia artistico, cosa sia indigeno e cosa sia sciamanico. In altre parole, per definire l’alterità. È difficile ignorare le conseguenze di mostre come “Primitivism” in 20th Century Art: Affinity of the Tribal and the Modern (curata da William Rubin al MoMA nel 1985) o la rivoluzionaria Intense Proximity: An Anthology of the Near and the Far (curata da Okwui Enwezor, con Mélanie Bouteloup, Abdellah Karroum, Emilie Renard e Claire Staebler al Palais de Tokyo nel 2012). Oppure, in realtà, qualsiasi tentativo negli ultimi vent’anni di «decostruzione graduale della griglia modernista per leggere il mondo» (Bourriaud, 2024), che ha avuto luogo anche all’interno dei portali veneziani in così tanti padiglioni e mostre negli ultimi decenni. Non è certo necessario ripercorrere di nuovo la storia della filosofia occidentale e il suo confronto con l’identità e la differenza, con l’idea di concetti originali e metafisici, o con l’alterità radicale (Jacques Derrida 1967, Emmanuel Levinas 1995). È difficile ignorare le conseguenze di opere come Differenza e Ripetizione (Gilles Deleuze 1968) o Cannibal Metaphysics (Eduardo Viveiros de Castro 2009) nella loro concettualizzazione della differenza prima dell’identità, o nell’apertura di possibilità per pensare il mondo e l’alterità concettualmente oltre le metafisiche non occidentali. È anche difficile ignorare il rifiuto di un ripiegamento nel particolarismo come conseguenza della negazione dell’epistemo-splaining occidentale di Edward Said, Gayatri Chakravorty Spivak (1988), Achille Mbembe o Souleymane Bachir Diagne. Difficile ignorare, in altre parole, il complesso lavoro intellettuale e curatoriale degli ultimi quarant’anni, che ha provincializzato l’Occidente senza però cadere nel relativismo identitario.
La curatela della 60. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia è riuscita a farlo. Offre una riflessione pericolosamente superficiale, vaga e, sorprendentemente, stranamente astorica sull’alterità che confonde, come ha scritto Simon Njami (2024) nella sua recensione della mostra,
un’idea identitaria di razzializzazione e othering con un’indagine filosofica sull’alterità fenomenologica o
transcendentale. Né la disorientante narrativa dell’esposizione principale ai Giardini, né la rielaborazione formalistica dell’Arsenale, e certamente nessuna delle produzioni testuali di Pedrosa o del team curatoriale, hanno offerto nulla, nemmeno in minima parte, della ricca storia di riflessione sulla politica, l’epistemologia e l’estetica dell’alterità e della differenza. Una storia ricca, di fondamentale importanza per assicurarci di smettere di precipitare lungo quel pendio scivoloso verso un inferno planetario, «lastricato dalle buone intenzioni» (paved with good intentions, come diceva Baldwin) di tanti tentativi attuali di riparare ai torti della storia. Siamo su quel pendio e se gli ultimi 70 anni di pensiero critico sulla colonialità, la modernità e il razzismo significano qualcosa per noi, dobbiamo approfondire questa biblioteca, invece di limitarci a leggere gli abstract.
Il titolo dell’esposizione è tratto, come per la Biennale di Istanbul del 2011, da un lavoro artistico, in questo caso, una serie di opere realizzate a partire dal 2004 dal collettivo Claire Fontaine, fondato a Parigi e ora di base a Palermo. Più precisamente: una serie di sculture al neon appese, sospese e disposte che riportano l’espressione «Foreigners Everywhere» (Stranieri Ovunque) in differenti colori e lingue, tra cui «diversi idiomi indigeni, alcuni dei quali di fatto estinti», come osserva Pedrosa nel suo concept per la mostra. (Quello che non dice è che nel 2009, al MAM, Museo d’Arte Moderna di São Paulo, ha organizzato il 31° Panorama of Brazilian Art con lo stesso titolo, tradotto nell’antica lingua Tupi, in un atto inverso di traduzione imposta, che non lo rende affatto migliore). Per Pedrosa, il loro lavoro si confronta con «un mondo brulicante di crisi multiformi che riguardano il movimento e l’esistenza delle persone all’interno di Paesi, nazioni, territori e confini» (Pedrosa 2024: 53). Ma queste crisi riguardano anche le pratiche di condizionamento delle persone «per identità, cittadinanza, razza, genere, sessualità, libertà e ricchezza» (ibidem). Una crisi che si sente fin troppo forte quando il nativismo xenofobo
attraversa l’Europa, ripristinando una paura dello straniero che utilizza cinicamente slogan simili:
«stranieri ovunque, chiudiamo le frontiere».
La serie di Claire Fontaine si traduce per Pedrosa in una formula semplice e in realtà semplicistica: primo, significa che «ovunque si vada e ovunque ci si trovi si incontreranno sempre degli stranieri: sono/siamo ovunque» (Pedrosa 2024: 54) e, secondo, «che a prescindere dalla propria ubicazione, nel profondo e di fatto si è sempre stranieri» (ibidem). In altre parole: i concetti di straniero, differenza e alterità hanno completamente perso il loro significato, e, se ne hanno ancora uno, è un significato contraddittorio. Come possiamo «nel profondo e di fatto» di noi stessi - una frase che risuona di essenzialismo metafisico dell’anima - essere sempre degli stranieri? È come se fossimo composti da pura differenza, ma avessimo comunque un’essenza. Se fossimo tutti stranieri, allora la mostra si concentrerebbe su tutti noi. Ma non è così: ce ne sono alcuni, che, in realtà, sono più stranieri di altri. L’essere stranier*, la differenza e l’alterità non sono categorie che Pedrosa ci permette di ri-politicizzare per far fronte ai correnti processi di straniamento razzializzante, culturale e identitario. Piuttosto, la sua scelta di far convergere l* stranier* come categoria culturale con il suo potenziale emancipatorio come categoria filosofica a comprendere il gioco di potere dell’esistenza umana in generale, rende totalmente
assurdo l’assunto che:
(La) Biennale Arte 2024 punta dunque i riflettori su artisti che sono essi stessi stranieri, immigrati, espatriati, diasporici, emigrati, esiliati o rifugiati, in particolare quelli che si muovono tra il Sud e il Nord del mondo. E qui i temi chiave sono migrazione e decolonizzazione. (Pedrosa 2024: 54)
Per dirla in poche parole, il pericolo principale di questa errata concezione curatoriale è che: tutti sono stranieri, ovunque. Nel profondo di noi stessi, siamo tutti stranieri. Ma ce ne sono alcuni che sono più stranieri di altri. Abbiamo già sentito questa affermazione altrove, ma lì era un avvertimento ironico: «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri», scriveva George Orwell nel suo Animal Farm del 1945, in un momento in cui in «un mondo brulicante di crisi multiformi» assumeva un altro significato, ancora più acuto. Se questo non provenisse da una strada lastricata di buone intenzioni, sarebbe facile definirlo una cancellazione della criticità.
È quindi ancora più inquietante leggere la nota concettuale, che ci ricorda, o meglio, che associa liberamente, le vaghe etimologie delle parole «straniero», «queer» e del «perturbante» freudiano. È stato Lévi-Strauss, la cui antropologia strutturale è basata sulla ricerca sul campo in Brasile, a descrivere i pericoli della mente binaria, che considera l’inclassificabile come una minaccia. Pedrosa invita il collettivo indigeno brasiliano MAHKU (Movimento dos Artistas Huni Kuin), noto per le sue collaborazioni ben remunerate con istituzioni occidentali, a dipingere la facciata del padiglione dei Giardini, mostrandoci bene come l’altro non-binario e inclassificabile possa diventare l’opposto del pericolo epistemologico, trasformandosi invece in illustrazione decorativa. Come sottolinea Manuel Borja-Villel nella sua recensione della mostra: «Non c’è alcun antagonismo tra struttura e superficie. Il
problema, in questo caso, è curatoriale, non artistico» (2024). Non si tratta di una sfida epistemologica per lo spettatore occidentale, che si imbatte nel padiglione con un caffè freddo Illy in mano per sfuggire al caldo o alla pioggia - per quanto l’opera possa essere visivamente grandiosa. Del tutto differente dall’installazione francamente perversa Dios es inmigrante (God is an Immigrant), dell’artista argentina Mariana Telleria, che richiama una barca di immigrati affondata, ordinatamente sommersa da erba srotolata, che, tuttavia, ha una croce cristiana, o un crocifisso, come albero maestro. Se questa installazione assumeva un significato provocatorio nel porto di Buenos Aires, presso il MUNTREF (Museo de la Inmigración), dove è stata installata la prima volta nel 2017, risulta fuori luogo e violenta sul prato dei Giardini, e riecheggia l’ancor più violento «monumento» ai mille migranti, affondati con la barca - Barca Nostra - che Christoph Büchel collocò nel porto dell’Arsenale per l’edizione della Biennale di Venezia del 2019, e che non voglio certo qui riprodurre.
Se Pedrosa avesse orientato il suo programma curatoriale in modo più audace sul contesto italiano, cosa che poche Biennali hanno fatto, a dire il vero, avrebbe collegato il lavoro evocato da Claire Fontaine alle migliaia di iniziative, sparse in tutto il paese, che sfidano la cancellazione violenta della pluralità epistemologica ed esistenziale da parte dell’attuale governo e dei suoi predecessori fascisti. Iniziative come il Black History Month, come Non Una di Meno, come i vari gruppi Antifa e i centri sociali presenti in tutto il territorio. E avrebbe dovuto aprire la biennale a pratiche che vanno oltre l’«arte», trasformando l’intera esposizione in un Disobedience Archive, rendendo un omaggio più serio al lavoro concettuale e politico dell’archivio a lungo termine di Marco Scotini, in continua crescita dal 2005, che ri-abilita l’emarginato e il disagiato come potenziale politico,piuttosto che offrirlo come una gradita interruzione dalla datata narrazione etnografica in stile Wunderkammer dell’Arsenale, che durerà qualche mese per poi essere smantellata. Se, d’altra parte, Pedrosa avesse incentrato il suo programma curatoriale in modo più coraggioso nell’esplorazione di modernismi e modernità contro o parallele, avrebbe avuto bisogno di un programma pubblico, di una serie di pubblicazioni - in altre parole: di una profondità intellettuale, storica e teorica - per collegare il tentativo di stranierizzare (foreignizing - rendere stranieri) tutti senza essenzializzare la differenza, alle lunghe genealogie di artisti, pensatori e troublemakers pre e post-identitari. O un tentativo di aprirsi più audacemente ai mondi in fuoco - letteralmente - dentro e intorno alla laguna.
Invece, non troviamo né l’uno né l’altro. L’approccio curatoriale di questa biennale ri-essenzializza la
differenza culturale attraverso la sua griglia di annullamento della differenza, che non permette a questi molti «stranieri» di esprimere le proprie complessità. Questo è ironico, perché la sua aspirazione autoproclamata è proprio quella di evidenziare l’intelligenza, la profondità, la diversità dei modernismi e delle non-normatività al di là dell’Occidente. In questo senso, come sottolinea Borja-Villel (2024), nell’armonizzare la differenza Pedrosa finisce per rafforzare la «gerarchia di un’autorità superiore». La rottura, l’uscita dalla griglia curatoriale borgesiana di una categorizzazione poco chiara, è dovuta alla genialità degli artisti che egli cerca di portare alla ribalta per pagare il «debito storico» (Pedrosa) della loro assenza nel canone. Tuttavia, riguardo alla narrazione curatoriale, questo elenco infinito di differenze («È la prima volta che XYZ partecipa alla Biennale Arte») re-inscritte finisce per creare quello che Nicolas Bourriaud ha descritto come «uno spazio sicuro per l’essenzializzazione del folklore» (Bourriaud 2024). Ciò non è meno problematico se si considera che il gran numero di artisti a cui viene concesso l’«onore» di essere inclusi, questo onore lo ricevono post-mortem.Accogliere stranieri nei confini ben finanziati di un’organizzazione privata, inaccessibile ai pubblici che non pagano il biglietto d’ingresso alla Biennale, non equivale a un atto di decanonizzazione; è invece spalancare le fauci del canone e inghiottire ciò che è stato ai suoi margini; suggerendo un dubbio percorso di progresso lineare di matrice modernista che vede il culmine a Venezia. (Non sono ancora sicuro se i vari tentativi di oltrepassare, fendere, abbattere l’autonomia artificiale dei muri della Biennale da parte di coloro che sono stati invitati ad esporre al suo interno aggiungano la beffa al danno o se offrano una ben accettata critica istituzionale, come nel caso del Padiglione Austriaco della Biennale di Architettura 2023 del collettivo AKT e dell’architetto Hermann Czech). In ogni caso: la pluralizzazione del canone non è ancora decanonizzazione, anche perché l’idea stessa di canone è un esercizio moderno di
sanitazione. E mentre un’energia queer, indigena, inclassificabile e autonoma ha appena radunato le
forze per scavalcare un canone occidentale di critica istituzionale in prepensionamento, mezzo
addormentato e purificato, mentre la sua «inclusione» dà motivo di esultare, rimane un atto di
generosità dell’ospite, un atto che è paternalista e sminuente. «L’altro sussiste sempre come altro, e la
separazione tra chi è fuori e chi è dentro rimane intatta» (Borja-Villel 2024). Lo spettro dell’ospitalità
rimane. Bourriaud ha descritto il processo di curatela del numero record di artisti presenti in questa mostra, molti dei quali invitati per la prima volta ad esporre alla biennale, come il loro divenire «soggetti di una sorta di classificazione borgesiana: italiani emigrati, queer, quelli dimenticati dalla storia, gli artisti autodidatti, quelli delle comunità rurali, gli artisti dal Sud globale» (ibidem). Ma, purtroppo, la possibilità di disfare le loro narrazioni e di intrecciarle è resa impossibile dalla loro organizzazione in un’iscrizione etnografica, dove i due aspetti forse meno importanti dell’arte giocano il ruolo più rilevante: forma e identità. Non c’è alcuna indagine sul vero potere della classificazione, né alcun tentativo di rimuoverla. Abbiamo Las Meninas di Velazquez senza Le parole e le cose di Foucault. La messa in mostra della
complessità senza la sua indagine. Il Museum of the Old Colony di Pablo Delano non presenta «un arazzo intricato delle travagliate vicende di Porto Rico», come sostiene Pedrosa (Carniero, Pedrosa 2024: 126), ma piuttosto ribadisce e replica immagini di «dominazione spagnola e statunitense sulle comunità indigene e native, nonché sulle persone di origine africana» (ibidem). Come esempio opposto, appena
fuori dal Padiglione Centrale dei Giardini, il Padiglione nazionale della Spagna con la Migrant Art
Gallery di Sandra Gamarra Heshiki è una letterale sovversione della storica pinacoteca etnologica
occidentale, sovvertendo ognuna delle sue stanze, elementi, narrazioni con sottili commenti scritti sopra
i dipinti o inclusi nelle didascalie.
Nel percorrere la prima parte del museo etnologico dell’Arsenale, ci spostiamo tra didascalie che legittimano le opere per il loro radicamento in un’alterità non normativa, disposte apparentemente secondo griglie funzionali di forma, materiale e dimensione, offrendo a ciascuna la propria voce visiva nella cacofonia degli alter-modernismi. (Questo trova il suo culmine nello schiaffo in faccia del Nucleo Storico ai Giardini dedicato ai «Ritratti», che assegna a ogni parte del mondo un’immagine per rappresentare il proprio modernismo). Un approccio-jolly alla complessità storica, quando in realtà
quello di cui abbiamo bisogno è di più microstoria, come nell’installazione performance di Ersan
Mondtag, un requiem per un lavoratore dell'amianto nel Padiglione tedesco (Tinius 2024). Ma tornando all’Arsenale, ci ritroviamo alla fine in una sorta di sala tributo, che toglie il tappeto sotto i piedi all’esposizione: la seconda delle tre sezioni del Nucleo Storico, questa volta così goffamente intitolata «Italiani Ovunque». Oltre alla spirale a chiocciola del Disobedience Archive, è ironico che l’unica
installazione museografica visionaria sia in realtà il riciclo delle Caveletes de vidro dell’architetta Lina Bo
Bardi, progettate per il MASP già nel 1968 e riprodotte con l’autorizzazione dell’Istituto Bardi. Una
installazione che permette ai visitatori di vedere sia il fronte che il retro dei dipinti o delle opere d’arte
esposte, che sono racchiuse in rettangoli di vetro tenuti in piedi da blocchi di cemento.
Ancora più ironicamente, è qui che ci rendiamo conto di ciò che è veramente sbagliato nella concezione curatoriale di questa biennale: mentre «noi», gli esseri umani sul pianeta Terra, anche quelli cyborg e quelli ibridi, possiamo essere tutti stranieri «nel profondo e di fatto», ciò che si intende con «stranieri», in realtà non siamo «noi» - artisti modernisti bianchi, europei, o meglio ancora, italiani. Perché, come lo stesso Pedrosa afferma, «gli italiani all’estero spesso immersi nelle culture locali» (notate la differenza di scala tra la «diaspora artistica italiana» e le «culture locali») hanno «a volte svolto un ruolo significativo nello sviluppo delle narrazioni del Modernismo al di fuori della propria terra d’origine» (Pedrosa 2024: 59). In altre parole: c’è qualcosa di ancora più profondo rispetto allo «straniero in tutti noi», ed è il «nativo europeo» che si avventura all’estero. Non ci hanno appena spiegato che soprattutto a Venezia, in Italia, il motto della biennale assume un altro significato, perché «a Venezia, gli stranieri sono ovunque» [Pedrosa, 54]? Italiani Ovunque tradisce il confronto con il Black Mediterranean, con Black Athena, Black Rome, e con qualsiasi opera che ha forzato l’immaginario di un’Europa mediterranea bianca e autoctona. «Tutto ciò che rimane è il folklore, il lato kitsch del vernacolo» (Bourriaud 2024). Non credo che il Legong Dance (1939) di Romualdo Locatelli superi (o elimini) l’immaginario coloniale dello sguardo coloniale bianco (italiano) sugli altri sessualizzati, in questo caso, come ci viene ricordato, su «ragazze in età prepuberale, pratica (quella della danza tradizionale balinese N.d.T.) che di solito abbandonavano dopo il matrimonio» (Belmonte, Pedrosa 2024: 205). Infatti, come viene ulteriormente descritto nella didascalia sul retro: «Sono raffigurate in scenari sospesi ed esotici che inevitabilmente evocano l’esperienza di Gauguin a Tahiti» - che conosciamo per i suoi aspetti profondamente problematici.
Quando Pedrosa si sente generoso, lascia parlare questi artisti vernacolari: «Nel Sud del mondo, numerosi artisti sono entrati in contatto con il Modernismo europeo, attraverso viaggi, studi o libri. Tuttavia, apportano alle proprie opere riflessioni potenti e contributi personali, raffigurando figure riprese da propri repertori visivi, da proprie storie e vite, se stessi inclusi» (Pedrosa 2024: 57). Il profondo intreccio della produzione mondiale non dovrebbe lasciare spazio a grammatiche paternalistiche. Sappiamo che certamente anche il subalterno può parlare (Spivak 1988)! Sappiamo che c’è molta più derisione reciproca, appropriazione e magia simpatetica. Quindi lasciatemi chiarire ancora una volta: questa recensione riguarda la curatela, e non gli artisti invitati a questa mostra. Ad esempio, Gaddafi in Rome: Anatomy of a Friendship (2024) di Alessandra Ferrini, esposta ai Giardini, offre proprio un collage di forze contrastanti, riconfigurazioni, tradimenti e riappropriazioni del rapporto pre e neocoloniale tra Italia e Libia. Infatti, sono innumerevoli gli esempi di opere d’arte impressionanti, complesse e profonde che attraversano l’esposizione curata da Pedrosa. E forse questo è il vero risultato: gli artisti sono straordinari e creano le loro mini-biennali e mini-manifesti all’interno del «manifesto» di Pedrosa (Raza 2024).
Il murale collettivo di Aravani Art Project, ad esempio, una celebrazione delle donne transgender e della trasformazione, ha occupato per la prima volta uno spazio nell’Arsenale solitamente non destinato a opere di grandi dimensioni poste a conclusione del percorso espositivo, ma ha parlato con una chiarezza senza pretese. Non raggiunge lo stesso impatto travolgente e gli ironici colpi ritmici come, ad esempio, the space in which to place me di Jeffrey Gibson nel Padiglione Americano, ma lo stesso vale per molte altre opere e installazioni fuori dall’esposizione principale, come la geniale Super Superior Civilizations di Guerreiro do Divino Amor per la Svizzera.
Fantastico, intelligente e divertente è il Pabellón Criollo (2024) di Sol Calero ai Giardini. Un ottimo esempio di una modalità ingegnosa di riflettere su creolità e stereotipi, facendo anche attenzione alla sostenibilità, riutilizzando i materiali delle precedenti biennali internazionali di Venezia. Le sue scenografie situate, divertenti ma incredibilmente serie, si snodano attraverso proiezioni, collage e palinsesti dell’America del Sud, celebrando, ripensando e prendendo in giro il modo in cui vediamo noi stessi e gli altri, e come gli «altri» vedono «noi», e così via.
L’immensa opera di Bouchra Khalili, purtroppo, è ridotta alla semplice illustrazione di una posizione migrante, che narra un movimento traumatico ma finisce per ri-creare la visione stigmatizzata del migrante che non tutti coloro che sono migrati, fuggiti o appartenenti alla diaspora, artisti e studiosi, condividono. Ancora una volta, in questo contesto - non per colpa dell’opera in sé, ma per il posizionamento curatoriale - viene presentata come una ri-autenticazione dell’alterità, piuttosto che come un omaggio all’agency, alla soggettività e ai poteri immaginativi che ogni essere umano può esprimere, anche in circostanze di costrizione. E questo, nei confini protetti del deposito dell’Arsenale, sorvegliato da espatriati e viaggiatori volontari, sembra francamente un insulto alle persone (e ai bambini) che sono stati usati solo come un’ulteriore spunta nella lista degli stranieri di Pedrosa.
Ma se vogliamo andare oltre un’interpretazione folkloristica identitaria del mondo, in cui tutto può essere compartimentato dentro sicure differenze e in una tiepida positività, e se davvero vogliamo fare i conti le possibilità che ci vengono offerte dalla creatività, dalla finzione e dalla fantasia - quelle che ci trasformano nelle molteplicità plastiche che l’arte rende visibili, per dirla con l’antropologo David Berliner (2024) - allora sarebbe meglio partire dal presupposto che nessuno è uno straniero e che, piuttosto, non ci sono stranieri da nessuna parte. Siamo tutti in uno stato di divenire altro in ogni momento, il che rende la distinzione situata, locale e costruita. Dobbiamo capire chi viene reso altro e
in che modo e come possiamo nullificare forme violente di alienazione, facendo allo stesso tempo i
conti con forme più radicali di alterità - di forme di essere, di esistenza, persino di ciò che intendiamo
per differenza. Sono posizioni che sono state articolate da operatori teatrali e drammaturghi, antropologi e sociologi che lavorano con il concetto di post-migrante o post-altro (Ndikung e Römhild 2013, Sharifi 2019, Tinius 2023), ma c’è una discussione antropologica non del tutto estranea all’idea
stessa di alterità e di metafisica, a cui ho accennato nei paragrafi iniziali, che va ancora oltre). Sembra davvero che questa biennale cerchi di riportarci a un vecchio immaginario etnografico in cui non possiamo trascendere i presunti dati di identità, posizionamento e sessualità, che abbiamo creati noi stessi, quando invece è proprio un’intera agenda anti-essenzialista, così politicamente rilevante oggi, che ha cercato di mostrarci che non abbiamo bisogno di superare questi «dati»; dobbiamo solo smettere di reiterarli e di immaginarli. Ogni immaginazione della differenza - metafisica, culturale, ontologica - è un
modo di costruire il mondo, il cosmo, la vita, la morte. Allora situiamo queste immaginazioni, quelle che
ci piacciono e quelle che non ci piacciono, e vediamo come sono formulate, come sono messe insieme,
mettiamo in evidenza i loro difetti. Altrimenti non saremo mai in grado di smontarle e riassemblarle.
È possibile scaricare qui la versione in inglese del testo:
Riferimenti bibliografici
David Berliner, Becoming Other. Heterogeneity and Plasticity of Self, Berghahn, Oxford, New York, 2004.
Manuel Borja-Villel, Venice Biennale 2024, in «Artforum», 2024.
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Lilia Moritz Schwarcz, The Spectacle of the Races: Scientists, Institutions, and the Race Questions in Brazil, 1870-1930, traduzione di Leland Guyer, originariamente pubblicato come O espetáculo das raças: Cientistas, instituições e questão racial no Brasil, 1870-1930 (Companhia das Letras, Brazil, 1993), Hill and Wang, New York, 1999.
Azadeh Sharifi, «The cultural and political impact of post-migrant theatre in Germany», in Peter Eckersall, Helena Grehan (a cura di), The Routledge Companion to Theatre and Politics, Routledge, Londra, 2019, pp. 50–54.
Gayatri Chakravorty Spivak, 1988, «Can the Subaltern Speak?», in R. C. Morris (a cura di), Can the Subaltern Speak? Reflections on the History of an Idea, Columbia University Press, New York, pp. 21–78.
Jonas Tinius, State of the Arts. An Ethnography of German Theatre and Migration, Cambridge University Press, Cambridge, 2023.
Jonas Tinius, «In Schwellenzeiten. Der Deutsche Pavillon der Venedig Biennale 2024», in Arts of the Working Class, 23 maggio 2024,
Eduardo Viveiros de Castro, Cannibal Metaphysics. For a Post-Structural Anthropology [2009], traduzione di Peter Skafish, University of Minnesota Press, Univocal, Minneapolis, 2014.
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Jonas Tinius è antropologo socio-culturale e attualmente coordinatore scientifico e ricercatore post-dottorato nel progetto ERC Minor Universality. Narrative World Productions After Western Universalism presso la Saarland University. È stato ricercatore post-dottorato presso il Centro di ricerca antropologica sui musei e il patrimonio del Dipartimento di etnologia europea della Humboldt-Universität zu Berlin e visiting fellow presso il Dipartimento di World Arts and Culture / Dance di UCLA. Ha conseguito il dottorato di ricerca in antropologia sociale presso l'Università di Cambridge. Tra le sue pubblicazioni: Across Anthropology. Troubling Colonial Legacies, Museums, and the Curatorial (Leuven University Press, curato con Margareta von Oswald, 2020) e State of the Arts. An Ethnography of German Theatre and Migration (Cambridge University Press, 2023).
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