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Filosofia e politica

Intervista a Paolo Virno[1] (a cura di Marco Mazzeo)




Dal tuo primo libro, Convenzione e materialismo, che risale al 1986 (riedito poi da DeriveApprodi nella nuova edizione del 2011), e anche dai tuoi primi scritti più politici negli anni Settanta, fino a quest’ultimi libri, Dell’impotenza (Bollati Boringhieri 2021) e ora Negli anni del nostro scontento (pubblicato in questi giorni da DeriveApprodi) è stata percorsa una lunga strada. Potresti ricordarne le tappe principali? (cosa che equivale a raccontare la storia della tua vita in un modo o nell’altro).


Ho cominciato a occuparmi sistematicamente di filosofia in seguito a una sconfitta politica. Parlo della sconfitta dei movimenti rivoluzionari che gremirono la sfera pubblica in Occidente tra la morte di John Kennedy e quella di John Lennon, dunque dall’inizio degli anni Sessanta alla fine del decennio successivo. Quei movimenti, che provarono orrore per il socialismo reale e si augurarono fin dal principio lo scioglimento del Pcus, avevano utilizzato Marx al di fuori e contro la tradizione marxista, mettendolo in contatto diretto con le lotte di fabbrica e la vita quotidiana delle società pienamente sviluppate. Un Marx letto insieme a Nietzsche e a Heidegger, posto a confronto con Weber e Keynes. Tuttavia, nel momento della sconfitta, quando l’intero panorama sociale fu sconvolto dall’iniziativa capitalistica, ci sembrò naturale saggiare i limiti, e mettere a nudo le omissioni, di questo nostro Marx. Ecco, per me il vagabondaggio filosofico è iniziato chiedendomi: quale teoria della conoscenza, quale etica, quale filosofia del linguaggio si possono desumere da Marx, senza che però egli le abbia mai sviluppate?

Il mio primo libro, Convenzione e materialismo, scritto tra il 1980 e il 1985, affronta con evidente povertà di mezzi questioni filosofiche niente affatto stagionali: il rapporto tra intelletto astratto e sensi, la genesi del singolare dall’impersonale, il radicamento dell’istanza etica nel funzionamento del linguaggio. Conta qualcosa, però, la stagione in cui mi sono dedicato a questi temi non stagionali. Proprio allora, infatti, la sconfitta politica di cui ho parlato prima sprigionava i suoi effetti più ruvidi sullo spirito del tempo, modificando in fretta forme di vita e stili di pensiero. In quel periodo fu rotta la schiena agli operai delle grandi fabbriche, che avevano tentato di fondare, con la sapienza e la spregiudicatezza tipiche di ogni autentica assemblea costituente, una repubblica da cui fosse messo al bando il lavoro salariato. Tra il 1980 e il 1985, transitarono per le carceri italiane circa cinquemila militanti politici; la casa editrice Feltrinelli espulse dal suo catalogo le opere di Antonio Negri; invalse l’uso, disincantato e stucchevole a un tempo, della parola «fidanzato/a» per indicare la persona amata; cominciò quella metamorfosi tumultuosa del processo produttivo che per lungo tempo sarebbe stata incasellata con l’etichetta pigra di «postfordismo».

Senza proporselo esplicitamente, quel mio primo libro fu anche un tentativo di afferrare con il pensiero questo passaggio d’epoca, assai più radicale, credo, del successivo crollo senza onore del «socialismo reale». È abbastanza naturale che nell’ora del pericolo, quando tutto è in bilico, si sia spinti ad allargare lo sguardo a certi problemi di fondo, logici o etici, della vita umana. Ma è altrettanto naturale che una riflessione rinnovata sui problemi di fondo, rilevanti da sempre, serva a stringere meglio la presa su quel che sta accadendo proprio ora. Non si tratta soltanto di una questione di metodo. Dai primi anni Ottanta in poi, il processo di produzione capitalistico non ha fatto che mobilitare a proprio vantaggio alcuni tratti invarianti della nostra specie: la facoltà di linguaggio, la flessibilità connessa alla mancanza di un ambiente rigidamente definito, la familiarità con il possibile e l’imprevisto ecc. Sicché, per comprendere l’attuale processo di produzione capitalistico, è davvero opportuno, anzi indispensabile, soffermarsi sui tratti invarianti della nostra specie. Ma queste, mi rendo conto, sono considerazioni retrospettive.

Il compito più urgente, a quel tempo, consisteva nel coniare concetti che eludessero in un colpo solo le due inclinazioni prevalenti: nostalgia per la situazione anteriore o isterica apologia del presente. Concetti in rotta di collisione sia con l’illuminismo senza luce di Habermas, sia con la livida euforia dei filosofi postmoderni. Concetti capaci di esprimere, come voleva Benjamin, «una totale mancanza di illusioni nei confronti dell’epoca e ciò nonostante un pronunciarsi senza riserve per essa». L’importante era passare a contropelo la grande trasformazione in corso, così da scorgere nei suoi esiti un potenziale campo di battaglia. L’importante era mettere mano a una filosofia che contenesse più cose di quante sembravano essercene tra cielo e terra.


In un certo senso, la questione del linguaggio non ti ha abbandonato durante tutto questo viaggio. È al centro di riflessioni più generali sulla politica o sulla città, come quando hai scritto quel bel testo che rovescia la proposizione di Wittgenstein che il linguaggio è costruito come una città, che diventa centrale nel libro «Parole con parole» (Donzelli 1995). La riflessione politica, che sembrava essere al centro dei tuoi primi libri, è ora relegata alle appendici, ad esempio, di E così via. All’infinito o del tuo recente Dell’impotenza. Nel testo appena uscito Negli anni del nostro scontento hai messo insieme una raccolta di articoli apparsi in varie riviste, specialmente sul quotidiano «il manifesto». Qual è il rapporto tra queste due produzioni, quella esplicitamente filosofica e quella più esplicitamente etico-politica?


Da principio, come ti dicevo, mi ero proposto di fare filosofia per contribuire a costruire uno sfondo antropologico-linguistico alla ripresa della politica sovversiva. Si trattava dunque di un «lavoro nelle retrovie», provvisorio e subalterno. In seguito, però, la ripresa della politica sovversiva mi è sembrata sempre più lontana, inattingibile per la mia generazione. Sicché la filosofia, da entr’acte che doveva essere, ha finito con l’occupare durevolmente l’intera scena del mio teatro. Hai ragione: sempre più spesso mi capita di confinare al margine, in appendice, o in forma di glosse, le riflessioni propriamente politiche. Ma questo fatto non indica una svalutazione della prassi politica, meno che mai un disamore per essa. Al contrario, ritengo che una azione anticapitalistica all’altezza dei tempi sia una cosa troppo seria per essere irreggimentata in quella disciplina vanagloriosa e truffaldina che è la «filosofia politica». Se non mi è possibile, o non sono più capace, di partecipare all’organizzazione di uno sciopero, allora non mi sembra il caso di produrre una teoria su come dovrebbero essere gli scioperi nell’epoca del lavoro precario: molto meglio provare a scrivere qualcosa di decente su come funziona la negazione linguistica o sull’importanza cruciale che ha il regresso all’infinito per la nostra vita cognitiva e affettiva.

Vorrei essere più chiaro sui motivi che mi spingono a diffidare della «filosofia politica». La differenza radicale, non attenuabile, tra filosofia e teoria politica non consiste tanto, o soltanto, nel rapporto con la prassi, con l’azione diretta. È piuttosto una differenza tra due forme di pensiero che, peraltro, condividono, o comunque possono condividere, gli stessi temi. Posso immaginare senza difficoltà un saggio sul principio di non-contraddizione che abbia le caratteristiche, la tonalità, la tensione della teoria politica. E viceversa, posso immaginare un saggio sullo stato di eccezione, o sulla storia delle prigioni, che abbia i requisiti di un testo filosofico, estraneo alla teoria politica. Questo vuol dire: per quanto sia importante, il campo oggettuale non basta a identificare con sicurezza che cos’è filosofia e che cos’è teoria politica. Si potrebbe dire: la filosofia si occupa spesso del contingente, di ciò che può essere diverso da come è, ma se ne occupa in una prospettiva non contingente. Come il calendario che registra le date, lo scorrere del tempo, ma non è, di per sé, temporalizzato. La teoria politica, invece, si sofferma talvolta su ciò che è necessario, invariante, «eterno», ma lo esamina da un punto di vista contingente, irripetibile, collocandosi sempre in un presente sospeso tra decorsi alternativi. Ebbene, la «filosofia politica» è il tentativo sistematico di velare, o abrogare, questa differenza fondamentale.

Vengo ora alla parte iniziale della tua domanda: la centralità della riflessione sul linguaggio. All’inizio del mio percorso, mi sono detto: la produzione contemporanea è diventata essenzialmente linguistica. In precedenza, nell’epoca della fabbrica fordista, chi lavorava taceva; al giorno d’oggi, chi lavora deve far sfoggio in ogni momento della sua competenza comunicativa. Sicché mi sembrò che, per comprendere il processo produttivo contemporaneo, anche nella sua concretezza sociologica, occorresse far ricorso meno a Walras o a Keynes e più a Saussure, a Benveniste, a Wittgenstein. In seguito, il mio interesse per il linguaggio si è radicalizzato: Saussure, Benveniste, Wittgenstein e molti altri sono diventati la cassetta degli attrezzi per studiare la «natura umana», i tratti caratteristici di una specie priva di una nicchia ecologica circoscritta, aperta al possibile e quindi alla storia. E «linguaggio», per me, non è soltanto o soprattutto uno strumento di comunicazione, ma il modo in cui pensiamo, sperimentiamo affetti e passioni, agiamo.


Vorrei insistere su questo punto. Contemporaneamente alla stesura dei tuoi primi libri, hai spesso pubblicato brevi testi su riviste, una sorta di istantanea filosofica, dove la parte biografica non era trascurabile. Hai scritto alcuni testi sul flipper, sui tuoi problemi con la legge, sul poker, che sembra aver avuto una certa importanza a un certo punto della tua vita ora raccolti, come dicevamo, nel volume «Negli anni del nostro scontento». Come sei riuscito a conciliare, per esempio, la filosofia e il poker? Hai detto che il giocatore di poker e l’intellettuale sono la stessa cosa. Potresti dirmi qualcosa di più su questo? E hai rinunciato a questo tipo di scrittura istantanea?


Del poker, è presto detto: è l’unico gioco di carte che non mi abbia annoiato e che, anzi, mi abbia fatto pensare. In più, dopo gli anni passati in carcere con l’accusa di «associazione sovversiva» e «costituzione di banda armata» (accuse lunari dalle quali infine sono stato assolto), questo gioco mi ha permesso, per un breve periodo, di avere di che vivere anche in mancanza di un lavoro stabile. Il poker è interessante per almeno due motivi, entrambi evidenti. Perché è la rappresentazione miniaturizzata, simile a un presepe, di alcuni meccanismi astratti che caratterizzano la società capitalistica (rischio calcolato, investimento, celebrazione del valore di scambio scisso dal valore d’uso etc.); niente a che vedere, dunque, con l’azzardo in voga nell’ancien regime. In secondo luogo, perché il poker mostra come il caso, il destino, il possibile scaturiscano da regole e procedimenti ripetitivi; come il singolare e l’imprevisto siano generati da regole sempre uguali.

Nei brevi testi di cui parli, ho cercato di applicare alla società postmoderna (versione edulcorata di: società forgiata dalla controrivoluzione e dal trionfo su scala planetaria del capitalismo) la lezione di Benjamin e Adorno: cogliere il presente di sbieco, obliquamente, a partire da fenomeni minori e tuttavia esemplari. Per esempio, la scomparsa del flipper, sostituito nel giro di pochi anni dai giochi elettronici, mi sembrò un sintomo esemplare di ciò che stava mutando su vasta scala: la trasformazione delle fabbriche con il passaggio dalla linea di montaggio (il cui equivalente ludico è per l’appunto il flipper) all’uso dei robot che garantiscono un processo produttivo automatizzato all’interno del quale gli operai hanno funzioni di sorveglianza e manutenzione (come avviene nei videogiochi). Altro esempio: solo quando venne il tempo della controrivoluzione si cominciò a chiamare la persona amata «fidanzato/fidanzata». Perché questo ritorno, in pieno cinismo postmoderno, a formule tradizionali, rassicuranti, zuccherose? Me lo chiesi e ne scrissi. Rimpiango questo tipo di prose, ma so anche che esse hanno la loro patria in certe particolari occasioni, non sempre.



C’è stata una stagione estremamente fiorente della filosofia italiana negli anni Ottanta, con autori come Gargani, Vattimo, Cacciari, Negri e Agamben, che sono più conosciuti al livello internazionale, e a cui anche tu hai partecipato con un bel po’ di pubblicazioni sotto forma di libri o articoli. Potremmo parlare di qualcosa come i «filosofi italiani». Qual è la linea ereditaria alla quale ti senti legato, se ce n’è una?


Negli anni Ottanta, in Italia come altrove, si è assistito a una biforcazione della filosofia: da una parte, il pensiero debole di Vattimo, insomma il postmoderno che elogiava il proliferare di differenze, la fine delle identità rigide, la dimestichezza con il possibile; dall’altra, pensatori a caccia di una qualche forma di «autenticità», inclini a una rappresentazione «tragica» della realtà. I primi, i postmoderni, scrivevano, per così dire, tra virgolette, quasi che le loro parole non dovessero essere prese alla lettera, essendo solo allusive e provvisorie. I secondi, i cani da tartufo della autenticità, scrivevano invece tutto in corsivo, come se ogni parola avesse un peso maggiore di quel che poteva sembrare a prima vista. Io e altri abbiamo provato a sbarazzarci di queste due inclinazioni simmetriche e complementari. Abbiamo riconosciuto ai postmoderni il merito di aver colto qualche tratto della realtà: indeterminismo, alea, una sensibilità accentuata per il possibile e l’imprevisto ecc. Ma rimproverando loro di spacciare tutto questo per un Eden, per una libertà finalmente conquistata, mentre si trattava soltanto di modi di essere ambivalenti, o meglio, delle condizioni su cui si impiantavano le nuove forme di sfruttamento capitalistico (lavoro precario e flessibile ecc.). Quanto ai «tragici», ci sono sembrati semplicemente ridicoli.

Negli ultimi anni, ho sentito spesso parlare di «Italian Theory», ossia di un interesse massiccio per il pensiero italiano, soprattutto in ambito anglosassone. Insomma, dopo la French Theory, l’Italian Theory. Mi sembra una invenzione senza fondamento. C’è qualche pensatore di assoluto rilievo, questo sì, come Giorgio Agamben. Ma per parlare di filosofia italiana dovrebbe esserci una rete unitaria, una voce comune. E questo manca. L’unica Italian theory davvero rilevante non è filosofica, ma politica: parlo dell’operaismo. Questa forma di marxismo eterodosso e spregiudicato, che dura dai primi anni Sessanta, ha avuto il merito di cogliere a colpo sicuro la grande trasformazione dei processi produttivi, delle forme di vita, delle soggettività che ha avuto luogo dagli anni Ottanta a oggi. Sebbene alcuni nomi di questa linea di pensiero siano diventati molto noti, si pensi a Toni Negri ma anche a Mario Tronti, l’operaismo italiano è stato un’impresa collettiva, in certa misura anonima o impersonale, in cui hanno contato una miriade di contributi molecolari. Se c’è stata rete intellettuale in Italia, una sfera pubblica del pensiero, questo rete o sfera coincide quasi solo con l’operaismo in quanto elaborazione di teoria politica e insieme di esperimenti pratici.


In Italia, come in Francia ad esempio, sembra che la filosofia analitica abbia ormai una posizione dominante, almeno nel mondo accademico. In Francia, questo è successo dopo anni di ostracismo; in Italia, ho l’impressione che le cose non siano andate così e che questa filosofia sia stata tradotta e studiata più a lungo. Tuttavia, si ha l’impressione di una sorta di uniformità. Quale sarebbe ancora la specificità di un «pensiero italiano» (se ha senso dire che ne esiste uno che può essere associato a un territorio, una nazione, un popolo ecc.)


La filosofia analitica ha una tradizione potente e affascinante. Somiglia per molti versi alla migliore filosofia medioevale: attenzione per i problemi teorici più che per la storia delle idee, primato dell’analisi linguistica nell’affrontare le più importanti e aggrovigliate questioni metafisiche, considerazione attenta delle obiezioni possibili. Parlo di Frege, Russell, Wittgenstein, Carnap, Quine, Austin ecc. Il dramma in cui questa linea di pensiero è incorsa, non sempre ma spesso, è l’abbraccio che da un certo momento in poi l’ha congiunta con le scienze cognitive. Queste ultime mostrano una sorprendente diffidenza per il linguaggio, e prediligono un approccio psicologistico all’analisi della mente umana. Credo che si possa, e si debba, rivendicare l’ispirazione originaria della filosofia analitica contro i suoi esiti recenti. Frege e Wittgenstein contro Fodor e Sperber, per capirci.



Sei stato uno degli imputati nel processo del 7 aprile, insieme a molti altri attivisti di Potere operaio, quelli che sono andati in Francia per evitare di essere condannati e hanno vissuto lì per molti anni. Mi riferisco a Toni Negri, Lanfranco Pace, Oreste Scalzone, Giambattista Marongiu e altri. Hai scelto di restare in Italia e di affrontare la giustizia, che ti ha condannato, nella persona del giudice Severino Santiapichi, inizialmente a 12 anni di prigione, prima di essere assolto in appello da tutte le accuse, dopo aver passato 4 anni in carcere. Quando li hai incontrati di nuovo a Parigi alcuni anni fa alla presentazione di uno dei tuoi libri, mi hai detto che hai avuto una strana sensazione quando li hai visti, come se stessi guardando uno dei tuoi mondi possibili. Sei in grado di spiegare questa scelta di restare, se è stata una scelta?


A dire la verità, non ho mai scelto di farmi arrestare. Poiché odiavo e disprezzavo gli apparati statali italiani, mai mi sarei messo nelle loro mani. Tra i miei vizi non c’è la tendenza al suicidio o all’autolesionismo. Secondo le leggi italiane, per mettermi in prigione erano necessari ancora alcuni passaggi procedurali. Ero pronto a fuggire in Francia, come avevano già fatto altri amici, non appena questi passaggi fossero stati compiuti. Ma le autorità italiane violarono le loro stesse regole, misero da parte le procedure ordinarie, e mi arrestarono prima del tempo. Nei confronti dei moltissimi esuli politici che la Francia ha accolto dopo il 1981 ho provato fratellanza, invidia, distanza. Le loro vite di esuli rappresentano, per me, mondi possibili che hanno sfiorato il mio. Mi è capitato spesso di chiedermi quali difficoltà e quali scoperte mi sarebbero toccate in sorte se, invece di stare nella cella 11 del settore «politici» del carcere di Rebibbia, avessi vissuto l’esilio francese. Di una cosa sono sicuro: sarei andato a sentire le ultime lezioni di Deleuze e avrei partecipato (con le cautele dell’esule…) alle lotte degli intermittenti dello spettacolo.



Note [1] L’intervista nella sua versione originaria è apparsa su «Multitude», 2014/2, 56, pp. 167-174 su iniziativa di Michel Valensi. Il testo ha subito tagli e modifiche concordate con l’autore in vista di questa nuova versione a cura di Marco Mazzeo.



Immagine: Maurizio Cannavacciuolo, Fabbrica di sorrisi, 1996, particolare, olio su tela,

190 x110 cm


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Marco Mazzeo, filosofo, insegna filosofia del linguaggio all’università della Calabria. Tra i suoi libri più recenti: Il bambino e l’operaio. Wittgenstein filosofo dell’uso (Quodlibet, 2016), Il sofista nero. Muhammad Ali oratore e pugile (DeriveApprodi 2017), Il pirata. Antropologia del conflitto (DeriveApprodi, 2021).


Paolo Virno, è stato militante rivoluzionario e ora si occupa di filosofia. Fu detenuto per quattro anni (e poi assolto) in occasione del processo contro «autonomia operaia». Docente di filoofia del linguaggio presso l'Università Roma Tre, tra i suoi saggi figurano: Dell'impotenza (2021); Avere (2020); Saggio sulla negazione (2013), entrambi per Bollati boringhieri. Con DeriveApprodi ha pubblicato: Covenzione e materialismo (2010), Grammatica della moltitudine (2014), Negli anni del nostro scontento. Diario della controrivoluzione (2022)

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