Fare e disfare le politiche ecologiche per sentirsi a casa…ed essere liber*!
In questo articolo, Elisa Bosisio recensisce il volume Per un’ecologia pirata…E saremo liberi! (Tamu edizioni, 2024) di Fatima Oussak. Territorio, casa, quartiere, libertà, cura e amore: discutendo il libro di Oussak, l’autrice ricostruisce la complessa trama di una concezione molteplice, complessa, intersezionale, aperta e in-divenire dell’ecologia politica. Questa deve essere in grado «di dare corpo ad alleanze indispensabili e di pensare un’ecologia intersezionale e indomita ai riduzionismi consumistici “verdi” e “sostenibili”, dove, dunque, la giustizia sociale non si disarticola mai da quella ambientale».
La libreria Tamu ha organizzato un percorso di lettura sul pensiero di Fatima Oussak, Louisa Yousfi (autrice di Restare barbari, DeriveApprodi, 2023) e Houria Bouteldja (autrice di Maranza di tutto il mondo, unitevi!, DeriveApprodi, 2024), intitolato «Barbari, indigeni e pirati dell'Impero: la banlieue tra violenza coloniale e possibili alleanze» a Napoli, presso la libreria Tamu.
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Ecologia non fa rima con polizia. In primis perché, se l’obiettivo dell’ecologia è un respiro a pieni polmoni, la polizia soffoca. Soffoca in senso letterale, come ci impone di ricordare l’I Can’t Breathe che hanno tentato di urlare, con il fiato spezzato e la voce interrotta, Eric Garner, Javier Ambler, Manuel Ellis, Elijah McClain, e George Floyd, mentre le ginocchia di uomini in divisa gli premevano contro la schiena, schiacciandone i corpi neri sull’asfalto, fino a sottrargli la possibilità di respirare in modo irreversibile[1]. Ma tutte le oppressioni poliziesche soffocano, anche se in modi meno facilmente visibili con un solo, singolo, gesto percettivo. La vista, del resto, può essere un senso ingannevole. E il respiro viene mozzato anche lungo temporalità più profonde, omeopatizzate nel quotidiano, che è asmatico e asfissiante. Fatima Ouassak, madre, militante, araba e musulmana riesce a vedere quest’atmosfera soffocante cingere i corpi dei bambini che abitano le banlieue parigine. A Bagnolet, nell’area periferica, migrante e operaia di Seine-Saint-Denis, dove Ouassak e i suoi figli abitano – bambini arabi, che sono assunti dallo sguardo repressivo come futuri criminali, calciano il pallone e giocano a nascondino sotto gli occhi vigilanti delle forze di polizia. In Per un’ecologia pirata…e saremo liberi!, recentemente pubblicato dalla casa editrice napoletana Tamu, Ouassak parla di muri che tolgono agli occhi la possibilità di contemplare albe e tramonti, eretti tra le zone della metropoli in cui la polizia identifica e controlla e le zone dignitose in cui a vivere è la popolazione bianca e abbiente. La prima è separata e protetta dalla seconda attraverso i corpi di quegli stessi uomini armati in divisa e dal loro prolungamento materiale, inorganico, costituito da telecamere e da quei muri bianchi che ricordano, a chi sta di là, quanto le loro esistenze non siano degne della stessa aria respirabile di chi sta di qua.
La biografia di Ouassak è immersa nelle periferie, lì vive e lì si sviluppa. Questo mi impone di riconoscere, mentre scrivo queste righe, che il mio corpo e la mia esperienza sono quelli di una giovane donna bianca che abita in un tranquillo e silenzioso quartiere residenziale di una cittadina del nord Italia. Ouassak è immersa nelle periferie metropolitane: ha partecipato alla marcia organizzata a Parigi il 18 luglio 2020 in occasione dell’anniversario della morte del giovane franco-maliano Adama Traorè, ucciso per «asfissia da costrizione», causata da «compressione toracico-addominale» a seguito di «manovre di immobilizzazione di natura potenzialmente asfissiante» durante il suo arresto da parte di tre gendarmi[2]. La coalizione che organizzò il corteo, che avrebbe attraversato tutti i luoghi toccati da Adama il giorno della sua morte, prese il nome di Generation Adama, Generation Climate, e riempì le strade un’alleanza di militanti antirazzist* e attivist* per il clima. Il 18 luglio 2020, la sorella di Adama, Assa, urlava a gran voce che nessuna giustizia sociale sarebbe stata possibile senza una giustizia ambientale, e viceversa. I corpi neri soffocano in tanti modi, perché la polizia gli spezza il respiro e perché il respiro gli è tolto dall’inquinamento dei loro quartieri sacrificali, intossicati da industrie, inceneritori, discariche e raccordi stradali. Ouassak ricorda quel giorno come una scintilla per una lotta davvero ecosistemica[3], in grado di dar corpo ad alleanze indispensabili e di pensare un’ecologia intersezionale e indomita ai riduzionismi consumistici «verdi» e «sostenibili», dove, dunque, la giustizia sociale non si disarticola mai da quella ambientale.
In questi quartieri militarizzati non ci si può sentire a casa. Polizia non fa rima con casa, ecologia non fa rima con polizia, perché ecologia fa rima con casa.
Non si tratta di una mera questione etimologica, anche se in greco casa si traduce oikos, proprio il suffisso da cui prende corpo il termine ecologia, Ouassak abbandona i sofismi per calarsi nella carne e nel cemento del suo mondo, a Bagnolet. Casa è un luogo che si abita, amandolo. Casa è il luogo in cui poter ritrovare la propria bellezza e la propria potenza. Casa è un sito in cui si intessono rapporti impoteranti[4] con uno spazio in cui si dipanano le relazioni con l* altr*, in cui si danno i propri amori, i propri affetti, in cui si lasciano correre le proprie gioie e la propria vulnerabilità. Come ci si può sentire a casa in un quartiere in cui è continuamente richiesto di esibire i propri documenti? In cui il passaggio di volanti e divise significa, chiaro e tondo, che sarebbe meglio rientrare nella propria dimora, senza stare lì fuori a «bighellonare», a fare piazza?
Osservo la dimensione politica di questa casa da femminista, e la mia memoria va a bell hooks che, negli anni Ottanta, invertiva la rotta di un dibattito che riduceva la casa ad un sito di costrizione per le donne, lì vincolate dalla divisione sessuale del lavoro. Per lei, bambina nera, e per la sua comunità piegata dal suprematismo, casa era quel luogo intimo e politico in cui ritrovare la propria dignità, in cui era possibile spogliarsi degli strati di umiliazione inchiodati alla pelle per ritrovare i propri affetti e la propria bellezza lontan* dall’oppressione vissuta di fuori. Per le stesse donne nere spogliarsi del grembiule da donna di servizio indossato come uniforme nelle case dei bianchi, potersi premurare di ristorare sé stesse e i propri cari attorno a un focolare – il cui scoppiettio era lo scoppiettio politico di una rivoluzione che recuperava menti indebolite dalla violenza – era un gesto che ribaltava la nozione del domestico come spazio di privazione e asservimento[5]. La voce di hooks non è poi così lontana da noi: è vero che hooks parla, qui, della casa in senso letterale, a differenza di Ouassak, ma entrambe hanno a cuore la stessa possibilità di ristoro, amore e protezione che i luoghi abitati devono suscitare affinché le persone possano sentirsi bene. Non è un caso che sia proprio Ouassak a rimproverare alle sinistre occidentali di aver romanticizzato la nozione di libertà di movimento tenendola distante da quella di ancoraggio. Ancoraggio e libertà di movimento sono dimensioni intrecciate tra loro e non scindibili come, invece, si ritrovano a essere nelle narrazioni polarizzanti del dibattito occidentale. Il primo termine è un legame alla terra che le destre vedono inscritto nel sangue, nella stirpe e nella tradizione, mentre la seconda è un privilegio/diritto che le sinistre difendono senza integrarlo alla potenza della relazione con un luogo che si riconosce come casa. Ancorarsi a un luogo, avere il diritto e le possibilità materiali di farlo è la condizione necessaria per poter godere di una libertà che, allora, diventa avventura e non solo erranza. Non c’è libertà senza possibilità di sentirsi a casa[6].
Per sentirsi a casa è necessario molto, e questo molto non può essere un privilegio. Casa è un luogo dove si può accogliere, aspettare e ospitare chi si ama. Eppure, per le persone migranti e non europee questo diritto all’accoglienza dei propri cari da oltreoceano è una possibilità preclusa. Casa, ricorda Ouassak, è un posto che si può lasciare sapendo di potervici tornare. Eppure, da qui i corpi migranti non possono pensare di spostarsi liberamente perché ingabbiati da documenti, discorsi, leggi che impediscono movimenti scomposti e imprevisti come sempre sono i movimenti dei liberi. Casa è quel posto in cui si viene chiamat* per nome. Eppure, per le persone africane è sempre consigliato scegliere un nome europeo per rendere più facili le cose, sul luogo di lavoro, alla «lingua bianca» che le interpella. Casa è anche quel luogo in prossimità di cui si viene seppellit*, e in cui è seppellit* chi amiamo e continuiamo a voler incontrare nello spazio, forse, cingendo un fiore reciso tra le mani e portando una preghiera sulle labbra. Eppure, nei paesi europei è difficile, se non impossibile, rispettare i riti funerari islamici. Leggendo le parole di Ouassak sul complesso mercato delle salme che intercorre tra Europa e Africa per dare una degna sepoltura e un degno riposo a chi ha lasciato i propri cari, mi torna alla mente un potente intervento dell’antropologa Stefania Consiliere. Eravamo, tra compagn*, negli spazi della Panetteria Occupata di via Conte Rosso, a Milano, e discutevamo insieme del dramma collettivo, invisibilizzato dalla narrazione mainstream, dell’interdizione a partecipare ai funerali durante le ondate più intense di Covid-19. Ricordo le riflessioni di chi non aveva potuto salutare qualcun* di car*, ricordo vividamente come ripercorrevamo con la mente la sfilata dei camion militari che lasciavano la città-epicentro di Bergamo carichi di salme che i servizi locali non riuscivano più a gestire, ricordo il dolore di chi aveva convissuto con l’immagine martellante del corpo di chi amava andare lontano, viaggiare senza poter essere adeguatamente accompagnato. Chi subisce distacchi del genere senza eccezionalità? Chi non può facilmente andare a deporre un fiore sulla terra che copre il corpo di un amato o un’amata? Come ci si può sentire a casa dove questa possibilità è, di fatto, negata? Questo «chi» sono i senza-terra, dice Ouassak. E senza-terra si è senza-potere.
Questi cari desiderati e non accoglibili, questi morti non ossequiabili in prossimità, questi uomini armati che osservano, controllano e identificano, sono questioni ecologiche per Ouassak. Perché dove non ci si sente a casa non è possibile instaurare con la terra – di qual si voglia tipo di «terra» si tratti – un rapporto di cura reciproca, quel rapporto che sta alla base di un’ecologia politica incarnata, sensibile, reale, vicina alla vita.
Non ci si sente a casa neppure in un luogo in cui non è possibile alcuna forma di autodeterminazione alimentare. Ed è proprio dove si aggrovigliano i nessi tra spiritualità e nutrimento che mi riallaccio alla biografia di Ouassak: madre, musulmana e abitante di un quartiere popolare. Con un altro gruppo di madri e genitori, Ouassak si riunisce nel 2016 nell’organizzazione politica Front de Mères, in primo luogo, per portare avanti una battaglia sull’alternativa vegetariana e sana per gli/le studenti delle scuole di Bagnolet. A loro era chiaro che la carne servita nei piatti delle mense non solo derivava da una filiera industriale e intensiva, malsana e corresponsabile di enormi danni ambientali su scala locale e globale, ma che questi corpi esangui dinnanzi ai palati di bambini e bambine affamat* dopo ore di lezione non stavano neppure nel complesso rituale halal, che prevede un certo tipo di attenzione alla vita che gli animali hanno condotto prima della macellazione previa recitazione del Bismillāh al-Rahmān al-Rahīm. Oggi l’apposizione della dicitura halal nella filiera degli allevamenti intensivi si riduce a formalità che nulla hanno a che vedere con la sostanza. La tracciabilità degli alimenti sta tradizionalmente alla base del poter essere definito halal, eppure la sottile intersezione tra spiritualità e attenzione alla salute dei propri figli, da cui deriva l’impossibilità di accettare alternative a base di soia e edulcoranti, non è stata considerata nel dibattito, finendo per tacciare il Front de Mères come un’organizzazione oltranzista e fondamentalista (sic!). L’islamofobia si rintraccia nei quartieri migranti come una malcelata forma di razzismo, in luoghi dei quali i corpi migranti e razzializzati sono considerati solo ospiti utili all’estrazione di plusvalore a basso costo per il capitale: come se non avessero riti, tradizione, cultura, relazioni da coltivare e un contorno da intessere insieme; come se la loro esistenza iniziasse e finisse al timbro del cartellino. Del resto, rimostranze islamofobe sono state mosse dinnanzi all’apertura di Verdragon, prima Casa dell’Ecologia Popolare in Francia, proprio nel quartiere di Bagnolet[7]. Verdragon, aperta da un’alleanza stretta tra il Front de Mères e il movimento cittadino contro il cambiamento climatico Alternatiba, è uno spazio di incontro, un luogo sicuro dove intessere relazioni impoteranti tra generazioni; un luogo in cui cucinare insieme pasti equilibrati e nutrienti, secondo rituali collettivi che innestano tradizioni diverse e ri-cablate nel qui ed ora di chi vi partecipa, con prodotti provenienti dalle piccole comunità agricole del circondario a prezzi sostenibili. Uno spazio in cui fare ecosistema con la città, con la campagna che nutre, con i bambini che vanno a scuola, tra persone razzializzate e povere che sanno materializzare reti di supporto oltre l’individualismo, che siano efficaci e divertenti, utili e investibili dei propri desideri oltreché dei propri bisogni.
Casa dell’Ecologia Popolare. Casa. Torniamo al concetto che muove Ouassak con la sua sensibilità anticoloniale e femminista. Anche bell hooks, che nel dibattito femminista ha risignificato la casa come spazio abitativo in senso “stretto”, riconosce l’importanza del fuori, come sito in continuità, sia quando lo contrappone a un dentro tutelante, sia quando parla della terra e del paesaggio del suo Kentucky come luoghi di un possibile e cruciale processo di riconoscimento di sé[8]. L’espansione del concetto-casa accomuna Ouassak a molte altre femministe razzializzate. Ricordo il lavoro di Wilmette Brown delle Black Woman for Wages for Housework movimento separato ma legato a doppio filo alla lotta femminista internazionale per il Salario al lavoro domestico a partire dagli anni Settanta. Statunitense, Brown abita un quartiere impattato dal redlining, quella pratica discriminatoria che non finanzia servizi tra cui quelli sanitari e relativi all’approvvigionamento in quartieri i cui immobili diventano meno costosi, finendo così per diventare l’unica «casa» possibile per la popolazione nera o marrone, più povera. Brown in Black Ghetto Ecology parla della necessità di espandere la nozione di casa oltre le sue mura, per comprendervici la complessità di tutto il quartiere, proprio quel quartiere in cui le contaminazioni dovute alla prossimità a discariche, inceneritori, fabbriche altamente inquinanti e grandi raccordi stradali ammalano i corpimente delle persone razzializzate[9]. Quegli stessi quartieri, però, dove si animano lotte e tensioni contro il potere costituito, che fanno contare i desideri accanto ai bisogni. Sono questi, infatti, i quartieri in cui intessono relazioni di parentela le othermothers, vere e proprie depositarie di un sapere artigiano per la riproduzione, oltre il solo legame biologico, di comunità lacerate da strappi violenti e reiterati. Donne razzializzate che riprendono una preziosa cultura popolare nera e diasporica, significandola come sito di insorgenza per pratiche comunitarie alternative a quelle vigenti, per essere madri oltre il legame di sangue, per ripensare il proprio qui in modo altro, prendendosi cura di un’intera comunità martoriata dal suprematismo. Facendo casa. E tenendosi stretto tutto il portato della propria agency[10].
Non si può fare ecologia se non ci si sente a casa. Domandiamoci con Ouassak: che tipo di rapporto con la terra crea, dunque, il rapporto coloniale? E nel rispondere aggiustiamo subito il tiro: non si può fare ecologia qui se qui non ci si sente a casa. La popolazione operaia e migrante è comunemente considerata poco sensibile alla tematica ambientalista. Ma si tratta di un’illusione ottica indotta da un gioco di prestigio colpevole di razzismo. Questa narrazione è smentita dal sostegno economico – e dall’investimento affettivo che muove queste donazioni – di molti abitanti di banlieue a progetti ecologicamente rilevanti, come la piantumazione di nuove foreste o lo scavo di nuovi pozzi di acqua pulita e potabile, nei propri Paesi d’origine in Africa.
Il rapporto tra cura della terra e amore per la stessa non segue traiettorie piane: si possono amare luoghi martoriati, sempre che in essi sia viva la fiamma di un altrimenti possibile e di una certa memoria affettiva. Lo dimostra la storia della Palestina, che Ouassak non dimentica nel libro. Una terra martoriata da un genocidio che affonda le sue radici nel progetto ecocida del sionismo, un progetto coloniale d’insediamento e sostituzione che cerca spasmodicamente di recidere le relazioni intense che intercorrono tra un popolo e la terra che lo ha nutrito, venendo da esso nutrita indietro. La sistematica devastazione degli uliveti e delle greggi da parte dei coloni in Cisgiordania parla proprio di questo. Le risorse agricole dei palestinesi, al pari dei nuovi nati palestinesi[11], risultano un ostacolo al programma sionista, a significare come i corpi umani e i territori che di essi diventano casa e risorsa sono legati a processi di vita e processi di morte senza poter essere separati dall’irreale partitura tra ambiente e società, terra e umanità. I contatti tra la Palestina occupata e i luoghi periferici attraversati da Ouassak sono molteplici, seppur mai appianabili ad un comun denominatore trasparente e limpido: ricordo, a questo punto, che proprio la polizia francese sembra avere chiesto via fax il supporto del capo della polizia israeliana per la gestione dei manifestanti dopo la morte di Nahel Marzouk. Uno sposalizio dagli evidenti afflati arabofobi e islamofobi.[12]
Che tipo di rapporto con la terra crea, dunque, il rapporto coloniale? Laddove la violenza estrattiva esiste e lacera, ma dove la terra è amata, la cura del territorio resta una necessità per la propria liberazione; dove la violenza agisce in spazi in cui nessun ancoraggio è reso possibile alle persone, il territorio resta uno spazio privo di investimenti affettivi, e dunque antiecologico.
Resta da domandarci perché ecologia pirata? Dove stanno i pirati nella lotta e nella proposta di Ouassak? «…e saremo liberi!», partiamo da sottotitolo del suo libro. Si tratta di una citazione che viene da One Piece, manga amatissimo dai bambini, dalle bambine e da chi abita i quartieri popolari. …e saremo liberi! è il grido di tre bambini che sognano di diventare pirati, abitanti di un quartiere che funge da discarica per un quartiere più ricco; è il grido di bambini che vogliono salpare all’arrembaggio promettendosi di essere finalmente liberi in mezzo ai venti del mare aperto, coi polmoni aperti a un’aria finalmente buona! La storia giapponese di One Piece ricorda la genealogia nera e marrone di quartieri intossicanti e ammalanti, ma il rimando all’immaginario pirata va oltre One Piece, di cui Ouassak indossa fieramente la spilla raffigurante un Jolly Roger cartonato e irriverente col suo sorriso e il suo cappello di paglia a falda larga.
Il posizionamento di Ouassak è pirata perché quando le istituzioni chiedono alle madri di sorvegliare i propri figli, educandoli alla docilità o sedando i loro slanci di rabbia e sovversione, le madri del Front e le mamme di banlieue spingono oltre lo sguardo e si pongono in rapporto solidale ai loro figli vessati e arrabbiati[13]. È il caso della madre di Nahel Marzouk, ucciso dalla polizia a Nanterre[14] nel 2023, indomita nel respingere il solo ruolo di mamma in lutto e, dunque, addolorata, facendo risuonare nel suo lutto e nel suo dolore la rabbia per il sistema razzista e neocoloniale che ha privato suo figlio della possibilità di respirare. Le fa eco, e si unisce al suo lutto Ouassak, perché Nahel poteva essere suo figlio e perché la rabbia è un diritto, un motore per chi vive a corto di ossigeno[15]. La mia mente va all’esperienza di altre, in primis a Rosa Piro, che abita vicino alla mia città, madre di Davide Cesare, detto Dax, militante antifascista di Rozzano, nella periferia milanese, morto per mano fascista, i cui compagni e le cui compagne in lutto all’ospedale San Paolo di Milano, a poche porte e muri di distanza dal suo corpo esanime, venivano violentemente manganellat* dalla polizia[16]. Leggendo Ouassak la mia memoria va a Rosa perché è dalla sua voce che ho appreso dell’alleanza internazionale di madri orfane dei propri figli, uccisi dal capitalismo, dal sionismo, dal colonialismo di un Mediterraneo ridotto a confine di morte quasi ineluttabile, dalla dittatura militare[17]. Madri che nel fare memoria e testimonianza vogliono impegnarsi in lotte per un mondo più giusto. Sta qui l’afflato pirata di queste madri, e con loro di Ouassak[18]. Sta nella potenza di uno sguardo che pone la libertà, e con questa i processi di liberazione, al centro di immaginari che non si lasciano vincolare dai limiti di una moderata critica all’esistente, facendo al contempo esplodere l’immagine della madre mansueta, per ricomporla all’incrocio tra una cura-che-è-politica e la rabbia sociale, come motore di odio mosso d’amore.
L’ecologia di Ouassak si spinge nell’ogni-giorno fatto di cemento e nelle strutture razziste e poliziesche del presente dei quartieri popolari, come l’antifascismo di Rosa Piro si fa largo nelle strade e nel concreto delle lotte dei compagni e delle compagne di Dax, che sono ora i suoi/le sue figl*[19]. Ouassak fa un’ecologia che è pirata perché rifiuta l’ecologia annacquata del consumo sostenibile per poch* privilegiat*, della tutela di luoghi maestosi e lontani, radicandosi nelle strade militarizzate, per provare a renderle casa di qualcun*, nelle scuole dei bambini di banlieue per renderle posti più sani, nei centri autogestiti di quartiere che sono luogo di affetti e sperimentazioni di modi di vita diversi, in cui le menti e i corpi possano finalmente respirare e trovare spazio di lotta e rivendicazione, ma anche spazio per gioire e prosperare insieme. Ouassak è pirata perché traduce gli universali liberali de LA Terra e IL Pianeta in un qui più modesto, e insieme più radicale, dove è possibile far andare mani e cervello.
Sappiamo che la crisi ecologica in corso sta colpendo e colpirà più violentemente i popoli africani, e che in Occidente l’impatto dell’aumento delle temperature si registra soprattutto sulla pelle di chi vive in quartieri completamente cementificati e dunque soggetti ai picchi di calore: quartieri cementificati per ragioni di costi di mantenimento (costa meno costruire uno spiazzo liscio che mantenere parchi e giardini) e di sicurezza cittadina (gli spazi vuoti e piani sono più facilmente controllabili dai dispositivi tecnologici di sorveglianza e dalle forze dell’ordine). Dinanzi a ciò, porsi nella posizione dei missionari, cercare di trovare soluzioni ecologiche per chi abita questi territori, irrobustendo relazioni gerarchiche pregresse e dunque privando ancora del proprio potere le soggettività marginali, replica l’ingiustizia sociale per mezzo di una vera e propria violenza epistemica.[20] È dai saperi dei margini, dell’Africa e delle periferie, che serve scrivere nuove cosmologie per cambiare il proprio rapporto con la terra. Ma dobbiamo tutt* fare in modo che si crei lo spazio perché questi saperi, e i luoghi da cui emergono, fioriscano. Ai margini stanno i semi di saperi che possono sovvertire il presente per renderlo più respirabile a partire da nuovi modi di leggere il corpomente umano in continuità al nonumano, all’urbanistica, alle leggi, all’economia. Celine Krauss in un testo intitolato Mothering at the Crossroads. African American Women and the Emergence of the Movement Against Environmental Racism[21] parla delle madri, delle donne, delle othermothers nere che hanno intrapreso negli USA lotte contro l’inquinamento dei quartieri loro e delle proprie famiglie come depositarie di una conoscenza ambientale [environmental knowledge]: sono donne capaci di anticipare gli studi tossicologici per attestare la pericolosità di certi composti e sostanze, stando “semplicemente” a contatto con i corpi esposti alle esalazioni e alla contaminazione di chi amano, facendosi veicolo di saperi situati preziosi e in grado di smentire la riduzione illuminista della scienza a quella forma di conoscenza astratta e anaffettiva prodotta da uomini in camice bianco richiusi in qualche illustre laboratorio. Patricia Hill Collins le fa eco parlando della conoscenza contro-potere [oppositional knowledge][22] delle othermothers, scompaginatrici dell’idea di famiglia bianca e occidentale, per fare comunità. Sono saperi come questi, saperi situati, femministi, antirazzisti, di prima linea, che per Ouassak sono necessari per dare potere ai senza-terra e permettergli di prefigurare e iniziare a materializzare altri mondi, facendone una casa. Non siamo e non saremo i salvatori della gente di Ouassak, perché è la ripresa del potere nelle loro mani che ci salverà! Sono i saperi degli operai, delle madri arrabbiate e dei bambini arabi, neri, indomiti che possono cambiare il nostro qui e il nostro ora collettivi. Come quelli dei popoli indigeni, delle persone trans*, delle persone disabili… I loro sguardi, a cui dobbiamo lasciare spazio, sono il cambio di rotta. Perché come dicono a due voci Valeria Cirillo e Nina Ferrante nella loro introduzione a Per un’ecologia pirata “la battaglia per un’ecologia popolare tiene da un lato la bandiera pirata, dall’altra secchiello e paletta!”
Note
[1] Anche Valeria Cirillo e Nina Ferrante nella loro introduzione al testo di Ouassak, che qui vado a discutere, parlano del grido I Can’t Breathe ripreso da Black Lives Matter.
[4] Impoteramento è traduzione dell’inglese empowerment come proposta da Maria Nadotti, intenta a restituire il portato politico trasformativo del pensiero di bell hooks. Il concetto viene ripreso anche dalla geografa femminista Rachele Borghi per intendere un potenziale rivoluzionario che non potrebbe essere adeguatamente reso dal termine empowerment, ormai impregnato dal massiccio impiego in ambito liberale. Cfr. R. Borghi, Decolonialità e privilegio. Pratiche femministe e critica al sistema-mondo, Meltemi, Milano, 2020.
[5] Si rimanda a bell hooks, Casa: un sito di resistenza in Elogio del margine, Tamu, Napoli, 2020.
[6] Lo dice bene Ouassak in un’intervista per Reporterre: «Ces deux notions peuvent paraître contradictoires. La droite et l’extrême droite portent cette question de l’ancrage territorial et de la terre. À l’inverse, les questions de liberté et notamment de liberté de circuler sans condition, sont portées par le camp progressiste et par la gauche. Ce que j’ai essayé de faire, c’est d’articuler les deux. On ne peut se sentir chez soi quelque part que si on peut s’en échapper». Qui l’intervista completa.
[8] bell hooks, Sentirsi a casa. Una cultura dei luoghi, Meltemi, Milano, 2023.
[9] Wilmette Brown, Black Ghetto Ecology, Housewifes in Dialogue, Londra, 1986.
[10] Per un affondo sulle othermothers si rimanda a Patricia Hill Collins Black Feminist Thought. Knowledge, Consciousness, and the Politics of Empowerment, Routledge, New York e Londra, 2000.
[11] Su questo punto si consiglia la lettura del potentissimo saggio di Layal Ftouni, «They Make Death, and I’m the Labor of Love». Palestinian Prisoners’ Sperm Smuggling as an Affirmation of Life, in «Critical Times», 7, 1, 2024.
[13] Sulla possibile alleanza politica, contro il capitale, tra la teppa e le donne, le madri, ha discusso anche un certo femminismo negli anni ’70. Si rimanda per esempio a Mariarosa Dalla Costa, Donne e sovversione sociale, ombrecorte, Verona, 2021.
[14] Si badi che Nanterre è quel luogo della geografia parigina in cui gli operai nordafricani, coloro che lavoravano alla Simca (Société Industrielle de Mécanique et de Carrosserie Automobile) e in altre fabbriche limitrofe, furono a lungo costretti a vivere in vere e proprie bidonville, come baraccati senz’acqua corrente e potabile, senza alcun sistema fognario, e ovviamente senza elettricità. Proprio a Nanterre, nel 1961, una rivolta degli algerini che abitavano le bidonville venne repressa nel sangue e i cadaveri dei loro morti gettati nelle acque della Senna. Per un affondo sul tema si suggerisce la lettura della Postfazione –«Il trionfo postumo della bidonville: Abdelmalek Sayad a Nanterre» di Agostino Petrillo al libro di Abdelmalek Sayad Una Nanterre algerina, terra di bidonville, per ETS Edizioni, a cura di Sonia Paone e Agostino Petrillo, reperibile online.
[16] Per un affondo sulla morte e sull’eredità politica di Dax, per un incontro vivo con la rabbia e l’amore che sono continuati oltre il suo respiro, rimando al documentario Brucia Ancora Dentro, prodotto dal collettivo della Foa Boccaccio e dall’Associazione Dax, grazie allo zelo e alla complicità, intelligenti e appassionati, di Marta Canidio, Filippo Repishti, Paolo Pioltelli e Francesco Manzato. Nel girato molto spazio è dedicato alle riflessioni della madre di Dax, Rosa Piro. .
[17] Per l’intervento di Rosa Piro sulle alleanze tra madri come soggetti politici a livello transnazionale si veda il registrato in occasione della proiezione del documentario Brucia Ancora Dentro al Cinema Beltrade di Milano, presenti insieme a Rosa i registi.
[18] Per un affondo sulle madri come soggetto politico si raccomanda la lettura del precedente saggio di Fatima Ouassak, La poiussance des mère, Pour un nouveau sujet révolutionnaire, edito nel 2020 dalla casa editrice francese La Découverte.
[19] Riprendo, qui, le parole di Rosa Piro in un’intervista raccolta nel documentario Brucia Ancora Dentro.
[20] Della cosiddetta «sindrome del missionario» parlano Angela Davis, Gina Dent, Erica Meiners e Beth Richie in Abolizionismo. Femminismo. Adesso. edito in traduzione italiana da Alegre nel 2023. Elaboro questa riflessione partendo dalla loro analisi sui rapporti tra militanti senza un passato di detenzione e militanti ex- o attuali detenut* nel movimento contro le prigioni e per l’abolizione della polizia.
[21] Celine Krauss, Mothering at the Crossroads. African American Women and the Emergence of the Movement Against Environmental Racism, in Filomena C. Stedy (a cura di), Environmental Justice in the New Millennium. Global Perspectives on Race, Ethnicity and Human Rights, Palgarve MacMillan, New York, 2009
[22] Sempre in Patricia Hill Collins, Black Feminist Thought. Knowledge, Consciousness, and the Politics of Empowerment, op. cit..
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Elisa Bosisio è militante e PhD in filosofia politica. Si occupa di riproduzione ai tempi della crisi socio-ambientale, provando a intessere il femminismo marxista e il nuovo materialismo femminista per dar peso al contempo alla materia oltre l'umano e ai processi economico-politici che infomano gli spazi e tempi che condividiamo come creature terrestri.
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