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Alberto Toscano

Fascismo razziale

Estratto da Tardo fascismo. Le radici razziste delle destre al potere (hic sunt leones, DeriveApprodi 2024)


immagine di Angelica Ferrara
immagine di Angelica Ferrara


In un volume che affronta l’attualità e le sfide del fascismo nel presente, l’estratto che proponiamo riprende gli scritti dal carcere di Angela Y. Davis e George Jackson per illuminare attraverso il prisma della razza – della dominazione razziale, del capitalismo razziale e del terrore razziale del complesso carcerario-industriale – il nesso violento tra fascismo e democrazia, tra democrazia liberale e fascismo razziale.

 

* * *

 

(…) Fu in gran parte grazie alle Pantere, o almeno nell’orbita del percorso da loro aperto, che il «fascismo» tornò in primo piano nel discorso e nell’impegno politico radicale tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. La conferenza United Front Against Fascism tenutasi a Oakland nel 1969 richiamò un’ampia fetta della vecchia e nuova sinistra, insieme a militanti asiatico-americani, chicani e portoricani che avevano sviluppato una propria prospettiva sul fascismo americano (ad esempio, mettendo in primo piano l’esperienza dell’internamento dei giapponesi durante la Seconda guerra mondiale)[1]. A partire da una serie straordinaria di testimonianze sulla peculiarità e la continuità delle tradizioni antifasciste statunitensi, tra i punti principali della conferenza c’era la richiesta, teoricamente riformista, di una polizia comunitaria o decentrata per allontanare gli agenti bianchi razzisti dai quartieri neri ed esercitare il controllo locale sull’applicazione della legge. Tuttavia, per trovare riflessioni teoriche sulla natura del tardo fascismo negli Stati Uniti, non è ai membri di spicco del Black Panther Party che dobbiamo guardare ma ai prigionieri politici vicini alle Pantere. Mentre la discussione sui «nuovi fascismi» polarizzava il dibattito radicale in Europa, gli scritti e la corrispondenza di Angela Y. Davis e George Jackson dal carcere hanno delineato la possibilità di una teoria del fascismo radicata nell’esperienza diretta del nesso violento tra Stato carcerario e capitalismo razziale[2].

In una delle sue lettere dal carcere sul fascismo, raccolte in Col sangue agli occhi, George Jackson ha proposto la seguente riflessione:

 

Una volta ebbi un’intervista con un militante della vecchia guardia, e io gli indicavo il cemento e l’acciaio intorno, il piccolo microfono elettronico nascosto nell’apertura tra di noi, la falange di gorilla che ci sbirciavano da distante, il suo registratore di plastica funziona a mala pena, eppure gli era costato una settimana di lavoro, e sottolineavo come queste cose fossero tutte delle manifestazioni di fascismo, ma lui cercava tenacemente di negarmelo, definendo il fascismo semplicemente come un fenomeno di economia geopolitica, che vede un solo partito in grado di esistere apertamente, mentre ogni altra attività politica di opposizione non è permessa[3].

 

Seguendo Jackson, potremmo chiederci: cosa succede ai ripensamenti e alle riproposizioni del dibattito teorico sul fascismo e sul (neo)autoritarismo quando subisce uno spostamento della Gestalt e assume lo Stato capitalista razziale e il suo apparato carcerario come qualcosa di simile a una «inquadratura inclinata dal basso» che potrebbe rivelare «un panorama di violenza subita»[4]? Come ha lasciato intendere Jacques Derrida in una lettera non spedita a Jean Genet, datata un giorno prima dell’assassinio di Jackson da parte di un cecchino di guardia a San Quintino:

 

In una prigione – questa e altre – dove pensava di aver messo in catene il suo altro-esterno, il sistema sociale (occidentale, bianco, capitalista, razzista) ha, con questo, reso possibile l’analisi del suo funzionamento, un’analisi pratica che è allo stesso tempo la più implacabile, la più disperata, ma anche la più chiara[5].

 

Nelle discussioni sul fascismo, è diventato un luogo comune criticare gli anni Settanta come una sorta di nadir cognitivo, quando il fascismo è stato degradato da categoria di analisi storica e tassonomia a insulto politico uguale per tutti, con conseguenze disastrose. In quanto segue, voglio fare l’imprudente scommessa circa l’esistenza di virtù e intuizioni nell’apparente esagerazione o inflazione del fascismo nel contesto del radicalismo e della politica di liberazione degli anni Settanta. Ma voglio soprattutto sottolineare come guardare al fascismo attraverso il prisma della tradizione intellettuale radicale nera possa riorientare il nostro dibattito contemporaneo in modo fruttuoso e importante. Cosa potrebbe accadere alla nostra concezione del fascismo e dell’autoritarismo se prendessimo le mosse non da analogie prese in prestito dalla scena europea tra le due guerre, ma, ad esempio, dalla materialità del complesso carcerario-industriale, da «il cemento e l’acciaio», dai dispositivi e dal personale di sorveglianza e repressione? Sondando il nesso analitico tra fascismo e capitalismo razziale forgiato nelle lotte di liberazione degli anni Settanta, possiamo anche ricollegarlo all’analisi del fascismo prodotta dai teorici neri a partire dal periodo tra le due guerre, e in avanti fino a considerare la persistenza del fascismo alla fine del XX e all’inizio del XXI secolo.

Nei loro scritti e nelle corrispondenze, che sono caratterizzato da differenze di interpretazione intrecciate con un profondo cameratismo, sia Angela Y. Davis che George Jackson hanno individuato nell’apparato statale statunitense il luogo di riemersione o addirittura di perfezionamento di alcune caratteristiche dei fascismi storici (europei). Gran parte della loro teorizzazione è influenzata dai discorsi sulla natura del capitalismo monopolistico, sull’imperialismo e la crisi capitalistiche, nonché, nel caso di Jackson, da uno sforzo di rivisitazione della storiografia classica sul fascismo. Degna di nota e rilevante per le preoccupazioni contemporanee è la luce specifica che il prisma della razza – della dominazione razziale e del capitalismo razziale – getta sul nesso tra fascismo e democrazia, e il modo in cui può aiutarci a discutere e sfatare la convinzione normativa dell’assoluta antitesi tra dispotismo fascista e democrazia liberale. Jackson e Davis sono profondamente consapevoli delle disanalogie tra le attuali forme di dominio e il fascismo storico, ma entrambi affermano il punto di vista, epistemologicamente privilegiato, fornito dalla visione dall’interno di un sistema carcerario-giudiziario che potrebbe essere giustamente descritto come uno Stato di terrore razziale. In modi diversi, i loro rispettivi punti di vista possono essere intesi come una sorta di rilettura e ricodifica di quel gesto fondante dell’antifascismo radicale nero e antirazzista cristallizzato nel Discorso sul colonialismo di Césaire. Come racconta il poeta e politico martinicano: «E così, un bel giorno,

la borghesia viene svegliata improvvisamente da un formidabile contraccolpo: le gestapo si danno da fare, le prigioni si riempiono, i torturatori creano, si perfezionano, discutono intorno alle macchine di tortura»[6].

Tuttavia, la nuova forma di fascismo americano che Jackson e Davis analizzano non è un ritorno indesiderato dall’altro spazio della violenza coloniale, ma proviene dal seno della stessa democrazia liberale. Le prigioni sono già piene. Piuttosto che un contraccolpo, la generalizzazione del terrore carcerario razzializzato nella società nel suo insieme – che è una delle caratteristiche principali del nuovo fascismo – è un processo di infiltrazione molto meno drammatico o improvviso, rappresenta la compenetrazione dello spazio sociale del liberalismo attualmente esistente da parte di modelli e dispositivi inventati, raffinati e discussi tra cemento e acciaio. Come osservano giustamente Mullen e Vials:

 

Per le persone di colore l’esperienza della razzializzazione all’interno di una democrazia liberale può, in vari momenti storici, avere la valenza del fascismo. In altre parole, se uno Stato fascista e una democrazia suprematista bianca hanno meccanismi di potere molto diversi, l’esperienza dell’assenza di diritti razziali all’interno di una democrazia liberale può rendere poco chiara, a livello di esperienza vissuta, la distinzione tra quest’ultima e il fascismo. Per coloro che sono stati razzialmente fatti fuori dal sistema di diritti della democrazia liberale, la parola «fascismo» evoca un ordine sociale che non sempre è lontano ed estraneo[7].

 

Come Davis, anche Jackson sottolinea la necessità di leggere il fascismo non come una struttura statica ma come un processo, profondamente influenzato dal contesto e dalla congiuntura politica ed economica. Da qui i limiti di modelli, analogie o idealtipi. Jackson commenta: «i tentativi di analizzare un movimento prescindendo dalle relazioni concatenate del suo svolgimento [sono] destinati a fallire. Si ricavano solo delle immagini. fugaci e smorte di un passato ormai sepolto»; osserva come, storicamente, lo sviluppo del  fascismo «varia da nazione a nazione, a partire dalle diversità nei livelli di sfacelo del capitalismo tradizionalista»[8]. Ora, se per l’autore di Fratelli di Soledad il fascismo è profondamente legato alla ristrutturazione capitalista, si tratta fondamentalmente anche di una struttura controrivoluzionaria, che si manifesta nella violenza con cui risponde a qualsiasi minaccia sostanziale all’integrità del capitale. È tuttavia istruttivo notare che per Jackson, che riprende l’analisi di Nicos Poulantzas in Fascismo e dittatura, il fascismo non risponde direttamente a una forza rivoluzionaria in ascesa; è una sorta di controrivoluzione ritardata, un parassita della debolezza o della sconfitta della sinistra anticapitalista. L’opposizione «a una rivoluzione socialista debole» è quindi una caratteristica comune ai vari fascismi (nell’allusione storica di Jackson si può cogliere l’accusa alla sinistra a lui contemporanea)[9]. In sintesi, quindi: «Il fascismo deve essere visto come uno stadio episodico ma coerente dello sviluppo socio-economico del capitalismo, durante i suoi periodi di  crisi. È il risultato di una spinta rivoluzionaria che era debole ed è abortita, di una coscienza che è scesa a compromessi»[10]. Dal punto di vista degli Stati Uniti, quel compromesso è necessariamente intrecciato con il persistente modello di razzializzazione della classe che definisce la storia americana fin dalla contro-rivoluzione suprematista bianca contro la Black Reconstruction (1860-80), o addirittura fin dalla Bacon’s Rebellion (1676-77) e dalla concomitante «invenzione della razza bianca»[11]. Come ironizza Jackson, «la storia dei lavoratori in Amerika è una verifica piena della definizione che Marx dà della storia: un riflesso sordido, contorto e spezzato della lotta di classe»[12].

Per Jackson il fascismo negli Stati Uniti aveva raggiunto una sorta di struttura perfezionata, tanto più insidiosamente egemone a causa del matrimonio tra il capitale monopolistico e gli orpelli (razzializzati) della democrazia liberale. Come ha dichiarato:

 

In questo paese il fascismo ha trovato il suo assetto più efficace e più mistificato. Si sente così sicuro di sé, che se ci prendiamo la soddisfazione di protestare debolmente, i suoi capi ci lasciano fare. Ma non appena spingeremo la nostra protesta troppo in là, essi mostreranno la loro seco. Andranno a sbattere giù a calci le porte, in piena notte, e per comunicare useranno il linguaggio delle sventagliate di mitra e le fucilate[13].

 

Nonostante la variabilità nazionale e congiunturale del fascismo, Jackson sosteneva provocatoriamente che la riforma (economica) poteva essere intesa come «una definizione

operativa delle forze motrici del fascismo», particolarmente adatta alle espressioni politiche del capitale monopolistico statunitense.

Nella concomitante analisi di Angela Y. Davis, la prospettiva carceraria e liberazionista sul fascismo viene ulteriormente affinata e modificata. Per Davis, il fascismo americano all’inizio degli anni Settanta ha assunto quella che è stata meglio descritta come una forma preventiva e incipiente. La terminologia è stata presa in prestito dal suo ex insegnante Herbert Marcuse e riadattata. In un’intervista del 1970 con Hans Magnus Enzensberger, Marcuse aveva proposto di invertire la consueta sequenza politica che vedeva il fascismo come reattivo non solo nel contenuto sociale ma anche nella forma temporale – sia che rispondesse immediatamente a un’insorgenza rivoluzionaria potenzialmente trionfante sia che rispondesse, in modo mediato, a una sfida al capitalismo già persa o in via di essere persa. Non è la reazione ma l’anticipazione ad animare questa nuova figura di fascismo. Come dice Marcuse a Enzensberger:

 

Credo che esista una sorta di fascismo preventivo. Negli ultimi dieci o vent’anni abbiamo sperimentato una controrivoluzione preventiva per difenderci da una rivoluzione temuta, che però non ha avuto luogo e non è al momento all’ordine del giorno. Allo stesso modo nasce il fascismo preventivo[14].

 

La questione, molto dibattuta dai movimenti di liberazione e dall’estrema sinistra per tutti gli anni Settanta e Ottanta, circa la possibilità del fascismo negli Stati Uniti, è per Marcuse profondamente intrecciata con le forme concrete assunte dalla «controrivoluzione preventiva» quale imperativo strategico centrale dell’establishment capitalista, nonché con le sue modalità specifiche di «controviolenza preventiva»[15]. La specificità di questa logica di anticipazione è anche strettamente legata alle disanalogie distintive tra questo «fascismo incipiente» e i suoi precursori europei tra le due guerre. Come riflette Marcuse:

 

La domanda è se il fascismo stia prendendo il sopravvento negli Stati Uniti. Se con questo intendiamo la graduale o rapida abolizione dei resti dello Stato costituzionale, l’organizzazione di truppe paramilitari come i Minutemen, e la concessione alla polizia di poteri legali extra-ordinari come la famigerata legge «no-knock» che elimina l’inviolabilità del domicilio; se si considerano le decisioni dei tribunali degli ultimi anni; se si sa che negli Stati Uniti vengono addestrate truppe speciali – i cosiddetti corpi di controinsurrezione – per una possibile guerra civile; se si considera la censura quasi diretta della stampa, della televisione e della radio: allora, per quanto mi riguarda, si può parlare a ragion veduta di un fascismo incipiente […] Il fascismo americano sarà probabilmente il primo che arriverà al potere con mezzi democratici e con il sostegno democratico[16].

 

Il fascismo definisce qui un insieme di tattiche repressive, oltre che un processo politico e ideologico, che prende di mira in modo differenziato popolazioni razzializzate e subalterne la cui stessa esistenza e le cui condizioni sociali sono percepite come una minaccia – nel confine poroso tra «criminale» e «prigioniero politico». È un processo in cui – per riprendere la caratterizzazione di Jackson del «contratto sociale oppressivo» alla base del capitalismo statunitense – «acutizzare e generalizzare il disprezzo per gli oppressi è la sua tecnica fondamentale di sopravvivenza»[17].

Davis sviluppa la tesi marcusiana secondo cui «il fascismo è la controrivoluzione preventiva alla trasformazione socialista della società», specificando tale trasformazione dal punto di vista dell’esperienza vissuta delle comunità razzializzate negli Stati Uniti[18]. Per lo Stato, la caratteristica più minacciosa della politica rivoluzionaria nera non è tanto la lotta armata invocata da Jackson, quanto quella dei «programmi di sopravvivenza», le enclave di riproduzione sociale autonoma praticate dalle Pantere Nere e da altri gruppi militanti e attivisti. Ciò che, più in generale, si può evincere dal resoconto di Davis sono le differenze di visibilità e di esperienza tra fascismo e democrazia. In questo senso, contribuisce a farci cogliere il modo in cui la razza e il genere, insieme alla classe, possono determinare la modalità in cui il fascismo è vissuto[19].

C’è un tipo di fascismo quotidiano che segna l’interazione delle persone di colore con lo Stato e che, mentre agisce come infrastruttura rappresentativa di una democrazia liberale ancora intrisa dei retaggi della supremazia bianca, segnala anche la possibilità o la tendenza a generalizzare il fascismo incipiente o preventivo, alla popolazione nel suo insieme. Come avverte Davis, nei primi anni Settanta «oggi la minaccia del fascismo è principalmente ristretta all’uso dell’apparato legale-giudiziario-penale per bloccare la tendenza rivoluzionaria, più o meno aperta, delle minoranze nazionali oppresse, domani potrebbe attaccare la classe lavoratrice in massa, e perfino i democratici moderati»[20]. È tuttavia improbabile che questi ultimi riescano a percepire appieno il fenomeno, sia per l’essere invisibile del luogo in cui si manifesta – lo spazio carcerario con le sue «aspirazioni totalitarie» – sia per — per la sua continua espansione nel suo tempo[21]. Il tipo di fascismo diagnosticato da Davis è un «processo in movimento, la sua crescita e il suo sviluppo sono di natura cancerosa»[22]. Le analisi di Davis ci indirizzano verso la prigione come enclave razzializzata o laboratorio per le strategie e le tattiche fasciste di controrivoluzione, che a loro volta sono intese in termini di processo sociale molecolare. Sia spazialmente che temporalmente, la percezione della realtà e del fascismo potenziale è occlusa dall’opacità della loro infrastruttura sociale e politica. Come Davis avrebbe scritto in seguito, nel contesto del suo attivismo abolizionista:

 

La tendenza pericolosa e addirittura fascista verso un numero progressivamente maggiore di popolazioni umane nascoste e incarcerate viene a sua volta resa invisibile. Tutto ciò che conta è l’eliminazione del crimine – e ci si sbarazza del crimine sbarazzandosi delle persone che, secondo il senso comune razziale prevalente, sono le persone a cui più probabilmente verranno attribuiti atti criminali[23].

 

Dylan Rodriguez ha colto con forza l’originalità e la sfida della «problematica del fascismo» che Davis e Jackson hanno forgiato a partire dalla violenza politica del confino. Nonostante le loro valutazioni siano parzialmente divergenti, entrambi, nel nominare un presente fascista negli Stati Uniti (sia esso incipiente o compiuto), condividono «un gesto politico teorico e simbolico che favorisce una rottura epistemologica del senso comune della supremazia bianca statunitense e del regime di violenza statale su cui essa si fonda»[24]. Questo gesto è duplice. Da un lato, ancora la violenza razziale, carceraria e controinsurrezionale all’economia politica, non solo individuando il carattere strumentale della repressione brutale alla riproduzione delle relazioni di classe, ma amplificando l’intuizione fanoniana secondo cui dovremmo considerare la violenza «come un’articolazione primaria e produttiva (piuttosto che meramente repressiva) di particolari formazioni sociali»[25]. Dall’altro lato, la riformulazione della problematica fascista dal punto di vista dell’incarcerazione politica razzializzata ha la permanente virtù di mettere in crisi la facile, seppur ideologicamente ineludibile, opposizione tra fascismo e democrazia (liberale) (…).



Note

[1] Sull’antifascismo antimperialista come politica di coalizione tra persone di colore negli Stati Uniti, si veda anche l’affascinante saggio di Michael Staudenmaier, «America’s Scapegoats»: Ideas of Fascism in the Construction of the US Latina/o/x Left, 1973-83, «Radical History Review», 138 (numero speciale: Fascism and Anti-fascism since 1945), ottobre 2020, pp. 39-59. Si evidenzia che l’espressione«persone di colore» è qui tradotta letteralmente dall’inglese, nonostante in italiano assuma connotazioni derogatorie e finanche razziste [N.d.t.].

[2] Si veda ad esempio il dossier Nuovo fascismo, nuova democrazia, prodotto dai militanti maoisti de La Cause du peuple in «Les Temps modernes» (310, 1972), in particolare l’articolo di André Glucksmann Fascisme: L’ancien et le nouveau. Sul dibattito trotskista francese, si veda Brohm et al., Le gaullisme, et après? État fort et fascisation, François Maspero, Paris 1974. La migliore valutazione critica delle teorie sul fascismo nella sinistra rivoluzionaria statunitense degli anni Settanta è di Noel Ignatin (Ignatiev), Fascism: Some Common Misconceptions, «Urgent Tasks» 4, 1978, pp. 1-8.

[3] G. Jackson, Col sangue agli occhi, Einaudi, Torini 1972, p. 135. Per una riflessione teorica coeva alle tesi di Jackson, si veda ARM (Association for the Realization of Marxism), George Jackson, monopoly capitalism and the fascist type of state, «The Black Liberator», 2, 3, 1974/5.

[4] J. P. Sartre, A Plea for Intellectuals, in Id., Between Existentialism and Marxism, Basic Books, New York 1974, p. 256.

[5] J. Derrida, Letter to Jean Genet (fragments), in E. Rottenberg, a cura di, Negotiations, Stanford University Press, Stanford 2002, p. 43. Si veda anche M. Bolt Rasmussen, Yes Of Course… Derrida to Genet on Commitment in Favor of Jackson, «New Formations» 75, 2012, pp. 140-53; T. M. Williams, Derrida and the Censorship of Literature, «The New Centennial Review», 20, 1, 2020, pp. 1-22.

[6] A. Césaire, Discorso sul colonialismo, ombre corte, Verona 2010, p. 48.

[7] B. Mullen – C. Vials, a cura di, The US Antifascism Reader (introduzione redazionale al discorso di Penny Nakatsu alla conferenza United Front against Fascism, luglio 1969). Si veda anche la riflessione sulla «metafora spaziale» del fascismo in Christopher Vialsee, Haunted by Hitler: Liberals, the Left, and the Fight Against Fascism in the United States, University of Massachusetts Press, Amherst 2014, pp. 159-193. L’espressione «persone di colore» è qui, come nel resto del volume, tradotta letteralmente dall’inglese nonostante  in italiano assuma connotazioni derogatorie e finanche razziste [N.d.t.]

[8] Jackson, Col sangue agli occhi, cit., pp. 138, 140.

[9] Ibid.

[10] Ibid.

[11] T.W. Allen, The Invention of the White Race, Volume 2: The Origin of Racial Oppression in Anglo-America, nuova edizione, introduzione di Jeffrey B. Perry, Verso, London 2012.

[12] Jackson, Col sangue agli occhi, cit. p. 163.

[13] Ivi, p. 175. Si veda anche Kathleen Cleaver, Racism, Fascism, and Political Murder, «The Black Panther», 14 settembre 1968, p. 8.

[14] H. Marcuse, USA: Questions of Organization and the Revolutionary Subject, in D. Kellner a cura di, The New Left and the 1960s: Collected Papers of Herbert Marcuse, Vol. 3, Routledge, London 2005, p. 138. La nozione di controrivoluzione preventiva era stata utilizzata dall’anarchico italiano Luigi Fabbri per definire il fascismo. Si veda L. Fabbri, La contro-rivoluzione preventiva. Riflessioni sul fascismo, L. Cappelli, Bologna 1922. Si veda anche R. P. Dutt, Fascism and Social Revolution, Wildside Press, Rockville (MD) 2022, p. 123.

[15] É. Balibar, Outlines of a Topography of Cruelty: Citizenship and Civility in the Era of Global Violence, «Constellations», 8, 1, 2001, p. 16.

[16] Marcuse, USA, cit., pp. 137-8. La questione delle nuove modalità del fascismo è un leitmotiv negli scritti dell’ultimo decennio di Marcuse. A volte sottolinea – come in questo brano – la possibilità oggettiva di un nuovo fascismo; altre volte, nota sobriamente le libertà, limitate anche se reali, di cui si gode nelle democrazie capitalistiche liberali. Si veda anche H. Marcuse, Le Monde Diplomatique (1976), in Marxism, Revolution and Utopia: Collected Papers of Herbert Marcuse, Vol. 6, eds Douglas Kellner e Clayton Pierce, Routledge, London 2014, 360.

[17] Jackson, Col sangue agli occhi, cit., p. 180.

[18] A.Y. Davis – B. Aptheker, Preface, in A.Y. Davis, a cura di, If They Come in the Morning: Voices of Resistance, Verso, London 2016 [1971], p. xiv. Si veda anche A. Y. Davis, Prigionieri politici, prigionieri e liberazione nera in Black Liberation Struggle. Scritti sulle prigioni e la lotta di liberazione dei neri, Bepress, Lecce 2019, p. 23.

[19] Mezzo secolo dopo, Davis insiste sulla rilevanza della categoria di fascismo e sul suo essere una reazione alle lotte di liberazione dei neri. Si veda Interview with Angela Y. Davis, in B. Bhandar e R. Ziadah, a cura di, Revolutionary Feminisms: Conversations on Collective Action and Radical Thought, Verso, London 2020, pp. 209-10. Il riferimento principale di Davis nella sua riflessione sul fascismo rimane Marcuse, in particolare il suo saggio del 1934, La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato, in Id., Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-1965, Einaudi, Torino 1969, pp. 3-41.

[20] A.Y. Davis, Prigionieri politici, prigioni e liberazione nera, in Black Liberation Struggle, Bepress, Lecce 2019, p. 29.

[21] Ivi, 31.

[22] A.Y. Davis – B. Aptheker, Preface, cit., p. xv; Davis, Prigionieri politici, prigioni, cit. p. 29.

[23] A.Y. Davis, Race and Criminalization: Black Americans and the Punishment Industry, in Joy James, a cura di, The Angela Y. Davis Reader, Blackwell Publishers, New York 1998, p. 63. Citato in D. Rodriguez, Forced Passages: Imprisoned Radical Intellectuals and the U.S. Prison Regime, University of Minneapolis Press, Minneapolis 2006, p. 141.

[24] Rodriguez, Forced Passages, cit., p. 117.

[25] Ivi, p. 130.



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Alberto Toscano, autore di Tardo fascismo. Le radici razziste delle destre al potere (deriveApprodi 2024) insegna alla Simon Fraser University a Vancouver. Ha pubblicato vari articoli e libri sull’operaismo, sulla filosofia francese e sulla critica al capitalismo razziale, di cui è uno dei punti di riferimento nel dibattito internazionale. Per «Machina» ha pubblicato Whitewashing e razzismo di Stato nelle rivolte dellodio in Gran Bretagna e Trump, o della bancarotta globale del progressismo neoliberale.

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