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Ernst Niekisch




Non sono molti i militanti comunisti ad aver percorso – sempre in bilico tra antagonismo, galera ed esilio – tutti i regimi che hanno segnato il «grande e terribile» Novecento: lo sperimentalismo democratico della Repubblica di Weimar, il fascio-nazismo hitleriano, il comunismo del controllo nella Ddr, il liberal capitalismo della repubblica Federale tedesca. Ernst Niekisch (Trebnitz 1889 – Berlino 1967) ha condotto la carica critica della sua intelligenza nell’azione contro i governi e i partiti al potere. Questa idea di politica come mobilitazione totale del soggetto lo ha portato a trascorrere alcuni mesi nelle carceri weimariane e un lungo e devastante periodo di detenzione durante il nazismo. In aperto dissenso con i vertici della Germania Est (che pure aveva scelto come residenza dopo il ’45) si trasferisce a Berlino Ovest dove vive gli ultimi anni in isolamento punitivo, vedendosi rifiutato, come comunista, ogni sussidio pensionistico.

Ma chi era Niekisch? Un oppositore per vocazione? Un avventuriero della politica perennemente dalla parte del torto e con vocazione minoritaria? Ernst Niekisch è stato un militante lucido e realista, che ha unito un armamentario teorico potente con una irriducibile avversione a ogni forma di pacificazione mediatrice.

Il nazionalbolscevismo – entro le cui coordinate possiamo ricondurre il suo pensiero – merita pertanto una ricognizione attenta per la funzione «stressante» che ha avuto nei confronti di tutte le appartenenze politiche, di ieri e di oggi, portandone in luce le sclerosi, le impasse pratico-teoriche, gli eccessi compromissori.


Niekisch nasce da famiglia operaia il 23 maggio 1889 a Trebnitz, in Slesia (oggi Trzebnica, Polonia). La formazione intellettuale è vissuta come occasione di riscatto sociale. Studia la drammaturgia europea, la poesia tedesca, Nietzsche, Hegel, Weber e torna sempre a Machiavelli, riferimento teorico per tutta la vita (firmerà alcuni articoli con lo pseudonimo di Niccolò). La lettura di Marx lo avvicina al movimento socialista. Nel 1914, nei primi giorni di guerra, si arruola come volontario ma i problemi di vista portano alle dimissioni dal servizio attivo. Nell’ottobre del 1917 si iscrive alla Spd, e pubblica sul giornale di partito i suoi primi articoli. Dopo la proclamazione della Repubblica a Monaco di Baviera, il 7 dicembre 1918, Niekisch entra a far parte della Uspd e poco dopo viene proiettato sulla scena politica bavarese. Prima presidente del Consiglio degli operai e dei soldati di Augsburg, in seguito a Monaco di Baviera come presidente del Consiglio Centrale dei Consigli degli operai, contadini e soldati della Baviera. Nel maggio 1919, conclusasi drammaticamente l’esperienza della repubblica bavarese è arrestato e condannato a due anni e mezzo di reclusione. Scarcerato nel 1922 si trasferisce definitivamente a Berlino dove inizia l’elaborazione teorica nazionalbolscevica. Nel 1926 esce «Der Widerstand» (Resistenza), il mensile su cui elabora i cardini concettuali del suo pensiero politico. Il movimento nazional-rivoluzionario si dota di un settimanale al quale Niekisch dà il nome di «Entscheidung» (decisione). Nel 1932 pubblica il volume Hitler, un destino tedesco subito oggetto di una violenta critica da parte nazista. Nel 1932 compie un viaggio in Russia che rafforzerà l’Ostorientierung, l’«orientamento a Est», del suo pensiero. Rientrato in Germania tenta faticosamente di riallacciare le file della resistenza al nazismo e nel 1935 pubblica La terza figura imperiale, la sua opera più ambiziosa, dove delinea tre archetipi, l’«eterno romano», l’«ebreo eterno» e infine il «lavoratore», Ewiger Barbar, l’eterno barbaro che dominerà attraverso la piena padronanza della razionalità tecnica un mondo segnato dall’oltrepassamento della forma borghese. Nel marzo del 1937 è arrestato dalla Gestapo, condannato all’ergastolo e alla confisca di tutti i beni. Viene liberato, quasi completamente cieco e paralizzato, dall’Armata Rossa il 27 aprile 1945. Rimedita il marxismo e partecipa attivamente all’attività politico-culturale della Repubblica Democratica. È professore incaricato di sociologia e nel 1949 viene nominato direttore dell’«Istituto di Ricerca sull’imperialismo»; nello stesso anno entra a far parte della Volkskammer, il Parlamento unicamerale della Repubblica democratica tedesca. Dopo varie espressioni di dissenso e di critica versi i dirigenti della Ddr, la repressione del 17 giugno 1953 dei moti operai a Berlino lo allontana definitivamente dal regime. Si trasferisce a Berlino Ovest e denuncia immediatamente il carattere «plutocratica» e borghese dell’intera politica nella Rft. La pensione gli viene negata in quanto, come cittadino e intellettuale di spicco della Ddr, aveva operato in «un regime fondato sulla violenza». Gli ultimi anni della sua esistenza sono prevalentemente occupati dalla stesura delle opere di memorialistica. Muore il 23 maggio 1967 nel giorno del suo settantottesimo compleanno. Su Niekisch cala il silenzio, fino ad alcune importanti opere biografiche e alla ripresa di interesse verso il nazionalbolscevismo, rilanciato nel caos geopolitico e ideologico del tardo Novecento come fonte – pur ricca di contraddizioni e polarità non facilmente risolvibili – di una possibile ispirazione.

Per la parte «nostra», il nazionalboscevismo suona perlopiù come un ircocervo, una contraddizione in termini. Al comunismo, dice l’ortodossia marxista, è consustanziale l’internazionalismo proletario e ogni torsione di tipo nazionale non può che approssimare le istanze comuniste al «fascismo di sinistra», confusa galassia che al netto dei proclami anticapitalistici e rivoluzionari ha regolarmente azzerato la sua carica antisistema quando il fascismo si è fatto regime, mettendo in riga i vacui strilli delle sue frange «ribelli».

In questa cornice interpretativa Niekisch e il nazionalboscevismo dovrebbero essere ricondotti a fenomeni eccentrici e marginali nella realtà lavica della «guerra civile europea». Ma è proprio il terreno franoso della contemporaneità politica che impedisce di liquidare quell’esperienza, suggerendoci piuttosto un «doppio passo»: collocare storicamente, con rigore, il nazionalbolscevismo e da qui proiettare alcune sue istanze dentro il tempo presente. Non tanto per verificare nell’oggi la sua «tenuta», quanto perché la tonalità fortemente innovativa che fu all’origine della sua fragilità di fronte alle «case» ideologiche novecentesche (comunismo sovietico, riformismo socialista, fascismo, liberalismo) offre spunti di grande interesse proprio in misura della crisi di queste stesse appartenenze, aprendo «possibili politici» che vanno segnalati, trasfigurati e (in parte) riposizionati nella pratica della lotta di classe.


L’«esperimento profano» che si apre con l’ottobre del ’17 è il punto di partenza da cui muove la proposta nazionalbolscevica. Contro il solido blocco impostosi in Occidente (dominio del sistema di capitale, antropologia borghese, liberalismo politico) Niekisch indica una Ostorientirung: volgere lo sguardo ad Est e trarre esempio da quell’oriente russo che aveva da poco realizzato la prima rivoluzione proletaria. Egli osserva non tanto il processo di crisi dello zarismo e il potente tatticismo di Lenin, quanto il percorso di realizzazione e consolidamento dello Stato bolscevico, intendendo le istituzioni statuali come definitiva condensazione del potere di classe.

La sua analisi mescola tratti di forte originalità con concezioni essenzialistiche e assunti aprioristici, a partire da un’ipostatizzazione dei popoli, suddivisi e separati secondo presunti «tratti nazionali» che disegnano i contorni dei «tedeschi», dei «russi», dei «latini» come categorie spirituali coincidenti con il mosaico geopolitico europeo. La sfera del «Politico» non precede questa mappatura, non ne delinea i confini attraverso lo svolgersi di conflitti, guerre, conquiste e potere, ma ne discende, come forza di implementazione di tratti umani e sociali impressi oltre la stessa storia. Un assunto teorico dagli esiti alle volte risibili, che dovrebbe metterci in guardia dalle frequenti sospensioni –cui ancora oggi assistiamo – dell’acribia materialistica a favore di più rapide ed efficaci sintesi (gli «americani», i «cinesi»). Ma va anche rilevato che questa metafisica della storia innesca un meccanismo interpretativo efficace in cui economia, istituzioni, natura umana e politica si richiamano e si intrecciano con esiti di grande suggestione.


La Russia sovietica, per Niekisch, ha portato a una piena affermazione della soggettività proletaria, protagonista di un processo di rivoluzione sociale e nazionale saldamente guidato dall’élite bolscevica forgiatasi nella Grande Guerra. Lo «Stato totale» che si è realizzato oggettiva la specifica qualità spiritual-nazionale del popolo russo. Il collettivistico operaio, infatti, ingloba e trasfigura il comunitarismo solidale di contadini e militari, rilanciando la sobrietà di vita e il carattere «soldatesco» che ha percorso l’intera storia dei popoli slavi (ma anche tedeschi) incontaminati dai «beni» occidentali. In tal senso il ’17 russo non è il compimento delle rivoluzioni borghesi ma il capovolgimento dei loro stessi presupposti. La presunta linea di continuità tra i moti rivoluzionari apertisi con il 1789 è contraddetta dall’esito del giacobinismo francese che, intimamente percorso dall’Illuminismo borghese, esaurisce la propria carica sovvertitrice nell’individualismo e nel parlamentarismo. «La Russia – scrive Niekisch in «Wiederstand» – non è individualista, non è liberale. Essa colloca la politica al di sopra dell’economia. Essa non è parlamentare, democratica, “civilizzatrice”. Il bolscevismo è il rifiuto dell’umanismo e dei valori civilizzatori»,

è una potenza collettivistica e prometeica che ha saputo trasfigurare un paese immiserito dalla guerra e dalla subordinazione alle potenze straniere in una forza capace di competere, impadronendosi della tecnica industriale, con l’Occidente capitalistico. Il rapporto Lenin-Stalin si ingrana precisamente su questo punto. In vari saggi egli sottolinea (con le tonalità della gramsciana «rivoluzione contro il Capitale») come la volontà rivoluzionaria di Lenin abbia sovvertito le rigide leggi del determinismo marxista, trovando il suo compimento nel grandioso progetto staliniano. Niekisch si era recato in Russia nel 1932 per osservare da vicino la realizzazione del piano quinquennale. Ne era rimasto affascinato, sedotto da quella mescola di tecnica, direzione politica, collettività operaia coordinate in una gigantesca opera di trasformazione della natura e dell’ontologia sociale. I costi umani, la decapitazione delle dissidenze e l’annientamento dei contadini sono interamente sottaciuti mentre il «piccolo padre» è tratteggiato con toni agiografici. Così in una lettera del 1950: «la sua storia è la stessa storia dell’ascesa dell’URSS a potenza mondiale [ … ] è così stretto il legame tra Stalin e l’ascesa sovietica che essa appare immediatamente come l’opera di quest’uomo [ … ] Stalin non è un qualsiasi uomo di successo o di potere. In lui si rappresenta un’epoca della storia del mondo. Soffia attorno a lui, ancora vivente, il respiro della storia mondiale». Non possono non suscitare un brivido le parole che stigmatizzano l’impiccio rappresentato dalla resistenza contadina alla collettivizzazione. «L’esistenza del contadino russo è per antonomasia in contraddizione con l’esistenza dello Stato operaio. [ … ] poiché esso deve scegliere tra la propria sopravvivenza e quella del contadino, esso prende decisione contro la sopravvivenza del contadino. Il contadino è fuori posto nello Stato operaio: di conseguenza esso deve sparire (verschwinden). Il contadino deve diventare operaio». Ciò che emerge nella realtà sovietica è una nuova Figur di sintesi (così vogliamo dialetticamente intendere la «sparizione») operaia-soldato-contadina, ricalcata sul modello del militante politico plasmato nella lotta antiborghese: «Volontà di povertà» (Wille zur Armut), adesione a uno stile di vita semplice, al principio di autorità e a una dura esistenza di «disciplina e dovere». Questo è la nuova forma di vita di fronte a cui si erge l’occidente individualistico e mercificato.

L’esempio che si trae dalla rivoluzione vittoriosa va portato dentro la prassi militante ribadendo un assunto: le forze e le forme del dominio si possono combattere solo se si comprende l’articolazione sistemica di tre dimensioni: il sistema di produzione capitalistico, la Gestalt (forma) borghese come suo substrato antropologico e l’universalismo politico, normativo e valoriale del liberalismo. Economia, antropologia e politica formano un blocco egemonico compatto ma non inattaccabile purché esso venga decodificato con chiarezza e aggredito da tutti i lati. Come implicita critica all’economicismo imperante, la sua opera aggira le analisi economiche concentrandosi sul versante dell’antropologia e della geopolitica al fin di cogliere, sotto le macrodinamiche del mercato, la capillarizzazione del dominio nei recessi più profondi dell’umano.


L’azione politica di Niekisch durante la stagione weimariana si svolge di conseguenza all’insegna del tentativo di richiamare la sostanza «profonda» del popolo tedesco, contadina e operaia, alla lotta contro le élite politiche ed economiche. Il «basso» contro l’«alto», una soggettività antagonista non data a priori (come l’operaio della fabbrica) ma da costruire attraverso l’azione politica. Non siamo propriamente sul terreno del popolo come «significante vuoto» (Laclau) da riempire con la mobilitazione attorno a istanze contingenti, ma i nazionalbolscevichi hanno piena consapevolezza che il coinvolgimento dell’intero Volk nella lotta anticapitalistica comporta uno sforzo mobilitante e propagandistico da affinare di volta in volta.

Così, se i tratti nazionali appaiono «eternizzati», nel fuoco del conflitto di classe questi presunte invarianti si collocano un campo di battaglia storicamente determinato, dove ciò che vale è la politicizzazione della memoria di parte, capace di ritagliare dal passato parti, momenti, eventi proiettandoli nell’agone contingente.

Coerente con la critica all’economicismo marxista e al determinismo, egli ribadisce il «primato del politico» in tutta la sua sgranatura, dalle avanguardie rivoluzionarie all’organizzazione, dall’ideologia al livello istituzionale e sbocca nell’elaborazione di una teoria autoritaria dello Stato differente sia dal totalitarismo che dalla democrazia liberale. Il tema è stato recentemente rimesso in circolazione dalla realtà delle «democrazie autoritarie» che pur ricalcano solo in parte, a un secolo di distanza, le teorizzazioni di Niekisch, ne condividono il campo di tensione tra partecipazione popolare e soggettivazione politica, tra dinamica sociale e direzione statuale.


Inscindibile da questa enfatizzazione dello Stato operaio come approdo del potere proletario è la lettura del nazismo, rovesciamento brutale del rapporto tra classi subalterne e dominio. Niekisch ripercorre, in particolare nei testi del dopoguerra, la progressiva raccolta di diverse componenti sociali attorno al nazismo: il reducismo, i diversi strati della borghesia, il sottoproletariato e infine i contadini. Tutti stretti al grande demagogo che simboleggia «l’incarnazione dell’inganno perpetrato dai ceti superiori a spese di quelli inferiori». Nell’hitlerismo si smaschera e naufraga quindi l’intero «programma» della grande borghesia, il suo umanitarismo, il presunto cosmopolitismo. In esso si azzera e tace la Kultur che per breve tempo aveva rappresentato (si pensi a Thomas Mann) un punto di tenuta se non di contestazione degli aspetti nichilistici e irrazionali del nazismo.

Di fronte a questo disvelamento il nazionalbolscevismo fa di nuovo valere, con una delicata operazione di détournement, l’istanza nazionale. È certo questo l’aspetto politicamente più delicato per la sinistra antagonista poiché rimanda a una questione, quella nazionale, tanto cruciale quanto rimossa.


È un esercizio inutile ricercare la percorribilità per la sinistra di classe di questa proposta politica. La parola «nazionalismo» appare interamente percorsa da una storia che non ci appartiene, quella che ha portato il proletariato mondiale in trincee opposte, a scaricarsi cannonate addosso invece di girare la bocca dei fucili verso ufficiali e gentiluomini. Ma non è questo il punto. Vogliamo intendere questi ritratti non come una carrellata di personaggi resi asettici da un eccesso di storicismo ma come un modo per trovarci di fronte a soggetti attivi nella misura in cui ci servono a osservare in modo inconsueto il «qui» e il «poi». Possiamo allora considerare Niekisch e i nazionalbolscevichi come interlocutori possibili proprio praticando quell’«uso pubblico della storia» che la sottrae alla naftalina accademica e la proietta nella confusione del presente, alle volte addensando le nebbie, altre indicando qualche ipotesi di uscita.


Percorrendo questa dorsale «inattuale» ritroviamo una serie di suggestioni che portano a rimeditare su alcune proposte scaturite, in quell’area, dal caos postbellico. Ci riferiamo a due ordini di questioni. Da una parte il nodo delle identità e delle appartenenze, troppo facilmente denotate come presupposti di ogni posizionamento di destra. Nella critica dell’universale astratto (l’«umano» come terreno di applicazione dell’economico) a favore di una serie di particolari concreti (patria, terra, classe), Niekisch offre la possibilità di una ulteriore attivazione in grado di sommare, in una nuova potenzialità rivoluzionaria, sia la rivendicazione di classe sia quella nazionale. Non è, del resto, un’idea originale: l’appello affinché il proletariato faccia valere contro il dispositivo capitalistico-borghese la sua radicenazional-popolare lo si trova nei movimenti soreliani e in tutte quelle concezioni che muovono dalla contrapposizione tra il radicamento materiale dell’uomo del popolo e lo sradicamento universalistico del borghese cosmopolita.

È attivo nei conflitti antimperialistici, in cui la lotta contro l’aggressione e il controllo di potentati politici ed economici stranieri (supportati da quelli interni) è sostenuta da una narrazione in cui un popolo rivendica la sovranità nazionale, cioè la piena «presa politica» su un territorio i cui confini sono tanto politici quanto tracciati da alcuni tratti «culturali» (storicamente dati) antitetici all’uniformante spirito capitalistico. L’intera storia del Novecento è costellata di lotte antimperialiste (in Asia, Sud America, Africa) che hanno strategicamente intrecciato la difesa dell’identità di luogo con le istanze di classe. Ora, pur con quella torsione metafisica che abbiamo indicato, il nazionalbolscevismo altro non proponeva che la convergenza di due processi: la «proletarizzazione» dei valori nazionali e lo spostamento dello scontro di classe anche sul terreno di una rivendicata identità popolare, proletaria, con radici contadine e neopagane agita versus quella delle classi egemoni, uniformate nel nesso tra economica di mercato e liberalismo.

Secondo motivo messo prepotentemente a tema dal nazionalbolscevismo è quello della sovranità come essenza del politico. Esiste un agire politico disgiunto dal potere? L’esercizio del monopolio della forza ha solo una declinazione istituzionale? Quale apertura esprime il vasto raggio del «Politico» oltre i margini statuali? La risposta di Niekisch è netta (per lui lo Stato contiene e risolve il problema della sovranità), ma ciò che affascina nel suo percorso è la precisione quasi ossessiva nel tracciare e nel non abbandonare mai i temi che si raccolgono nel segno del Politico e dunque la capacità di mantenere aperture verso ulteriori soluzioni.

E a proposito di Politico, importante è lo «stato d’allerta» con cui Niekisch ci pone di fronte a concetti come libertà, universalità, pacificazione. «Essere occidentali – scrive su «Widerstand» nel 1926 – vuol dire: servirsi della parola libertà per ingannare, far professione di umanità per compiere delitti, rovinare il popolo con l’appello alla riconciliazione». Un secolo di distanza ci separa da questo monito attuale/inattuale, da rimeditare in un tempo a cui solo in parte apparteniamo.


Infine. Un ulteriore motivo di interesse e di fascinazione si raccoglie interamente nel «punto» della biografia di Niekisch. Un soggetto totus politicus che opera, pensa, agisce, rischia, soffre, lotta e combatte lungo l’intero corso di una vita. Che sollecita, interroga, smuove uomini e cose, il tempo presente e il passato. Tutto per un’alterità allo scorrere placido, uniforme e uniformante del «mondo in atto». Una pratica di militanza estrema che osserviamo e che guardiamo con rispetto, oltre ogni ragion giudicante.



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